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Autore: Angeline Farewell    25/05/2013    3 recensioni
Kim Hyde (Home & Away)/Bill Hazeldine (Suburban Shootout)
Bill è un bravo ragazzo inglese, Kim il classico bello da spiaggia australiano. Bill credeva di voler studiare teologia e andare in Africa, Kim non sa più nemmeno se può immaginare un futuro. Un incontro/scontro che può far deragliare due vite o forse, semplicemente, rimetterle nel giusto binario.
[I protagonisti di questa storia sono personaggi di due diversi telefilm: Home And Away (Kim Hyde/Chris Hemsworth) e Suburban Shootout (Bill Hazeldine/Tom Hiddleston). La storia che mi accingo a raccontare è dunque una AU - o What If?, se preferite - che comincia nel 2006, ovvero all'indomani dell'inizio dell'università per Bill e della notizia della mancata paternità (e conseguente colpo di testa) per Kim.]
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Chris Hemsworth, Nuovo personaggio, Tom Hiddleston
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 11: You can’t be yourself within jealousy

Ricominciare l’anno accademico dopo la pausa natalizia fu meno dura di quanto Bill avesse creduto. Forse perché non vedeva l’ora di tornare a Cambridge e le lezioni e lo studio non gli sembravano poi un costo eccessivo, studiare gli era sempre piaciuto in fondo.

A Londra era stato bene, era stato bene persino a Little Stempington, la forzata inattività che si era imposto era riuscita là dove persino i pasticcini di Lizzy e Posh avevano fallito e aveva preso un po’ di peso: sua madre continuava a guardarlo con gli occhi lucidi ripetendo quanto fosse cresciuto e quanto stesse maturando, suo padre gli chiedeva se avesse incontrato qualcuno di speciale e c’era rimasto malissimo quando non aveva fatto nomi femminili.
Ma Bill aveva trovato davvero qualcuno di speciale e non gl’interessava non fosse una potenziale fidanzata, perché Kim era il suo migliore amico e l’unica persona gl’interessasse frequentare davvero. Solo che le cose stavano cambiando.

Gennaio era arrivato e passato in un soffio sciogliendo e spazzando via i pochi spruzzi di neve che avevano imbiancato le guglie di Pembroke, e forse anche l’affetto di Kim.

Sapeva che era successo qualcosa durante la sua assenza, ma non riusciva a capire cosa, Kim si era trincerato dietro risposte evasive e palesemente false, o evitava di rispondergli tout court. E non era da lui.

Parlargli di Liva era stata un’esperienza avvilente oltre che penosa, ci aveva messo giorni a decidere se e come farlo ed alla fine se ne era pentito amaramente: Kim l’aveva guardato con un misto di sorpresa, delusione e persino fastidio che non era riuscito a decifrare e che l’aveva umiliato più di quanto non si fosse sentito per conto suo. Non era così che aveva immaginato la sua prima volta e, nonostante il piacere del sesso, non poteva fare a meno di provare un certo disagio ogni volta che ci ripensava.
Aveva provato a parlare con Liva, il giorno dopo, ma lei aveva liquidato tutto in poche battute, un sorriso e un bacio con la lingua che lo aveva fatto sentire piccolo e stupido. Era letteralmente scappato da Londra per evitare il rischio probabile di un imbarazzante secondo round e le occhiatine consapevoli di buona parte della sua famiglia - nonno compreso, che per festeggiare gli aveva passato sottobanco ben cento sterline, il doppio di quanto gli regalava di solito per il suo compleanno: si era imbarazzato talmente tanto che non era riuscito a dire nemmeno una parola. Aveva sperato Kim lo aiutasse a dissipare quella sensazione sgradevole, ma la sola idea di parlargliene gli faceva venire la nausea, quasi avesse fatto qualcosa di male ad andare a letto con Liva e la reazione di Kim non aveva fatto altro che confermare il suo presentimento.

Sbuffò avvilito sul grosso tomo di Antropologia Culturale, fermo da un’ora abbondante al primo capitolo: non gl’interessava esplorare la vita degli oggetti secondo la prospettiva di diverse culture, già malediva abbastanza gli scambi culturali in generale e quelli con la Scandinavia in particolare.
Il letto dietro di lui era desolatamente vuoto, Kim ormai si fermava raramente da lui e quando lo faceva rimaneva solo pochi minuti.
Aveva altri impegni. Ormai passava ogni minuto libero dal lavoro tra palestra e piscina, non gli aveva nemmeno più chiesto di seguirlo.

Probabilmente perché ora c’era anche Emma.

Bill non l’aveva mai incontrata e Kim non sembrava impaziente di presentargliela, sapeva solo fosse un’istruttrice di aerobica e che lavorava nella palestra in cui si allenava. E che erano usciti insieme una volta.

Forse era la sua ragazza e non voleva dirglielo.

Che ci sarebbe stato di male? Kim non si faceva i suoi stessi problemi, non solo non aspettava l’abito bianco, non aspettava nemmeno la persona speciale, perché a vent’anni che cosa pretendi se non goderti la vita?
Kim una volta gli diceva tutto. O almeno così aveva creduto lui, ma sembrava adesso preferisse fossero altre orecchie ad ascoltarlo e quel pensiero lo demoralizzò ulteriormente. Avrebbe voluto non essere mai tornato a Londra, Natale o meno, non sapeva come era potuto accadere ma in quei pochi giorni aveva perso tutto quello che aveva – o creduto di avere? – con Kim e gli veniva da piangere. E si sentiva ancora più stupido.

Ripensò a Jewel che, per non pensare mai davvero a nulla, si ritrovava a stringere tutto: un ragazzo che l’amava, una famiglia, un bambino, una vita felice. Forse era quello il segreto della felicità, spegnere il cervello e allungare la mano per prendere ciò che si desiderava.

Si era accorto di essersi addormentato solo quando l’aveva svegliato un toc toc insistente alla porta. Non sapeva per quanto tempo avesse dormito, ma fuori era buio e si sentiva ancora troppo intorpidito dal sonno per pensare di guardare l’orologio da polso. Aveva aperto senza nemmeno chiedere chi fosse, senza pensarci, ma i suoi colleghi e coinquilini l’avevano visto in condizioni peggiori, una maglietta spiegazzata non avrebbe fatto la differenza.

Solo che dall’altra parte della porta non c’era Steve o Andy o Matt o nessuno degli altri ragazzi con cui aveva legato in dormitorio.

“Non è un po’ presto per mettersi a letto?”

Kim?

“Sono passate le cinque e mezzo, ho finito il mio turno al locale. È un brutto momento?”

Un brutto momento? Non si faceva né vedere né sentire da giorni ed era tutto quello che aveva da dire?

“No, no, certo che no, entra!”

In realtà non gli fregava nulla di cosa avesse o non avesse da dire a sua discolpa, era solo contento fosse passato a trovarlo, come ai vecchi tempi. Forse stava solo ingigantendo una sciocchezza e Kim non si era affatto allontanato, forse aveva semplicemente da fare.
Forse aveva solo paura di chiedere e scoprire che Kim si era davvero stancato di lui.

Si era aspettato Kim si allungasse sul letto come aveva sempre fatto, ma non si mosse, rimase fermo tra la scrivania e l’armadio di fronte a lui guardandosi intorno, quasi cercasse un particolare anomalo, un cambiamento che ovviamente non c’era stato.

“Posh ti manda un po’ di pasticcini per fare merenda, i tuoi preferiti.” E aveva sollevato un sacchetto di carta colorata.

Probabilmente Bill era stupido davvero, perché non credeva di aver fatto qualcosa di strano: aveva reagito come al solito, ma era evidente non ci fosse più nulla di solito tra loro due.
Kim si era scostato. Bill aveva fatto per abbracciarlo in preda all’euforia e lui lo aveva evitato. Nulla di eclatante, aveva semplicemente fatto un mezzo passetto indietro frapponendo tra loro il sacchetto di dolci, non lo aveva platealmente allontanato, ma aveva fatto quanto bastava per evitare il contatto.

E Bill ci era rimasto talmente male che per un istante non aveva saputo cosa fare o dire, troppo stupito per un qualunque tipo di reazione. Kim aveva distolto immediatamente lo sguardo e aveva sorriso come se non si fosse accorto di niente, aveva appoggiato il sacchetto sulla scrivania ed era andato a sedersi sul letto. Come se non fosse successo nulla, appunto.

Solo che qualcosa era successo eccome, e Kim se ne rendeva conto. Sapeva bene che Bill ci era rimasto male, era talmente trasparente che era sempre facilissimo intuire cosa stesse pensando o provando. E lo aveva ferito.

Kim aveva una voglia matta di abbracciarlo di nuovo, era passato troppo tempo dalla sera in cui era andato a prenderlo in stazione, ma non poteva cedere: gli mancava da morire, e doveva evitarlo per lo stesso motivo.
Perché poteva raccontare e raccontarsi tutte le storie che voleva, poteva cercare di convincere e convincersi che non voleva perdere il suo migliore amico e che Bill lo sarebbe rimasto per sempre, ma la verità era che Kim non voleva più solo un amico e nel lieto fine ci aveva sperato eccome. Solo un po’, in silenzio, senza osare dirlo neppure a se stesso, ma si era cullato con l’illusione di avere una possibilità. Invece era passata una danese stronza e aveva strappato via la pagina, sbattendogli in faccia una volta di più quanto fosse stata vana quella speranza.

Odiava la Danimarca, e nemmeno sapeva dove fosse collocata con precisione su una cartina.

Bill aveva preso ad agitarsi come se non sapesse cosa fosse dove nella sua stessa camera, si muoveva a scatti tentando di fargli credere fosse tutto normale e non lo avesse terribilmente deluso. Aveva tirato fuori la sua scaldavivande elettrica per preparare il tè come aveva sempre fatto ogni volta che si era presentato fuori dalla sua porta con un cartoccio di dolci, aveva preso la sua tazza rossa dell’Arsenal e quella nera degli All Blacks che riservava a Kim.

Kim sapeva che sarebbe stato meglio andare via, a quel punto. In realtà non avrebbe dovuto cedere alle insistenze di Posh e alle occhiate oblique di Lizzy, non avrebbe dovuto cedere alla sua stessa voglia. Erano giorni che non vedeva Bill e non era riuscito ad impedirsi di prendere quel cartoccio di dolci e di attraversare i pochi metri che dividevano il dormitorio di Pembroke dal Fitzbillies. Come non era riuscito ad impedirsi di sedere sul letto, accettare la tazza fumante. Fissarlo mentre si portava la sua alle labbra: anche di quello doveva ringraziare la danese con il nome stupido. Fino al momento della confessione di Bill, Kim aveva potuto fingere di non riuscire a vederlo come una creatura sessuale, di scindere completamente i due piani, perché Bill era un’anima ingenua e l’idea del sesso non lo toccava. Invece non era così, Bill era un ragazzo e aveva le voglie e i pruriti di tutti i ragazzi, e si era trovato qualcuno con cui grattarli. Una danese stronza, appunto.
Kim non poteva più fingere nulla, tutti i suoi muri di carta erano stati soffiati via uno dopo l’altro e si era ritrovato nudo e indifeso contro i suoi desideri più vergognosi.

E aveva baciato Emma.

O forse era stata lei a baciare lui, in realtà non era così importante, perché erano un bel po’ ubriachi, lei era stata – probabilmente, non era ancora molto chiaro – mollata dalla sua ragazza ed era talmente depressa che l’aveva convinto a far compagnia a lei, il suo certosino obeso ed una bottiglia di vodka alla fragola nel suo microscopico appartamento. Kim odiava la vodka alla fragola ed avrebbe dovuto capire da quel particolare che quella serata era una cattiva idea, ma anche lui era depresso ed ubriacarsi in solitaria per questioni di cuore sarebbe stato decisamente training autogeno al suicidio, per entrambi.
Quindi avevano vuotato la bottiglia di vodka ed un numero imprecisato di birre ed erano finiti l’uno sull’altra tra il divano e il tavolinetto, con il gatto che li guardava annoiato. E, mentre le mordicchiava il collo, l’aveva chiamata “Bill”. Emma aveva cominciato a ridere talmente forte che le era venuto il singhiozzo, poi lo aveva abbracciato e gli aveva detto di star su con il morale, che almeno lui aveva potenzialmente a disposizione quasi il cento per cento della popolazione per distrarsi, ma non le lesbiche: la sua Milla baciava meglio.
Quella sera era tornato a casa alticcio, frustrato e con qualche consapevolezza in più che avrebbe preferito lasciare sul fondo della bottiglia.

La campana della Little Saint Mary aveva rintoccato le sei del pomeriggio nell’istante esatto in cui aveva cominciato a piovere e quello poteva essere un pretesto per alzarsi e andar via, doveva andare in palestra, in piscina, a casa a riposare, da qualche parte.

“Cosa studiavi di tanto noioso da farti addormentare in pieno pomeriggio?”

Ma non riusciva a scollarsi da quel letto, non voleva andare via, si sentiva come una grossa e ottusa falena, un obbrobrio peloso troppo stupido per capire che la luce che tanto l’attraeva sarebbe stata la sua rovina. E lui era troppo grosso e goffo perché anche la luce non rischiasse di spegnersi.

Bill aveva ridacchiato imbarazzato e lui non era riuscito a non sorridere: anche quel suono gli era mancato.

“Detto brevemente, di come guarda un tappeto un musulmano piuttosto che un indù.”

“Mi prendi in giro?”

“Magari.”

“Ricordami, cos’è che vorresti fare da grande?”

Bill aveva riso di nuovo, si era un po’ rilassato e si era seduto ai piedi del letto. Non si chiese più come mai riuscisse a decifrare ogni mutamento della sua postura, ogni sfumatura delle sue espressioni, non ne aveva più bisogno perché sapeva e la risposta non lo spaventava più, lo rendeva solo triste: l’aveva studiato come Bill studiava dai suoi libroni e aveva memorizzato tutto quel che poteva.

Troppo poco per i suoi gusti, ma Kim avrebbe imparato ad accontentarsi, per una volta, era stanco di perdere le persone che amava a causa della sua voracità.

Il suo tè era diventato freddo senza che avesse avuto l’occasione di berlo, troppo impegnato a concentrarsi su quello di Bill, e a resistere alla tentazione di avvicinarsi di più e sistemargli i capelli: capisci che sei cotto senza possibilità di scampo di qualcuno quando persino i suoi riccioli schiacciati in modo ridicolo su un lato solo della testa ti sembrano adorabili.

“Non ti piace più il tè?”

“Cosa?”

“Non ne hai bevuto nemmeno un sorso. Mi sembra sia come al solito, ma se non ti piace dovrei avere ancora del latte.”

“No, non preoccuparti. Non avevo molta sete, il tè va benissimo così.”

Non riusciva a credere le loro conversazioni fossero ridotte a quello, poche chiacchiere inutili intervallate da silenzi imbarazzati. Pensare che fino alle vacanze natalizie potevano passare pomeriggi interi a ridere di sciocchezze e il silenzio non esisteva, perché anche quello, tra loro, comunicava.

Avrebbe dovuto alzarsi ed andare via, avrebbe dovuto farlo già da tempo, più rimaneva più era difficile alzarsi da quel letto, più era difficile stare zitto e, soprattutto, fermo.

“Vai già via?”

“Sì, bè, avrei da fare adesso. Si sta facendo tardi.”

Bill aveva annuito come se comprendesse benissimo la situazione, quando proprio non poteva. Si era alzato anche lui ed aveva posato la sua tazza accanto a quella di Kim, sulla scrivania, senza alzare gli occhi dal fondo della ceramica, quasi cercasse risposte nei fondi del tè.

“Anche se hai una ragazza, ora, ci andiamo lo stesso in Australia, un giorno? Vorrei vederle davvero le onde portate dal vento del sud, anche se non avrai tempo per insegnarmi a fare surf.”

E il sorriso di Bill era talmente triste che Kim si sentì sprofondare.

 

 

 

 

Note:
Scusate di nuovo per il ritardo, non lo faccio apposta, davvero, non cerco scuse: sono leeeentaaaa. ;_;

   
 
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