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Autore: Tary Prince    26/05/2013    1 recensioni
Quasi venti anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, due giornalisti cominciano a cercare testimonianze sul rientro degli ebrei a casa dopo l'esperianza nei campi di sterminio. La loro ricerca li porterà a conoscere una donna che aprirà i loro occhi e che svelerà loro un segreto.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Aprile 1960.
 
Un uomo dall’aria distinta ed una donna dai gesti frettolosi entrano dentro il portone di un palazzo.
“Allora, qual è esattamente il nome di questa persona?” domanda l’uomo.
La donna cerca nella sua borsa e ne estrae una carpetta con degli appunti.
“Sara Longo, è stata deportata a Bergen-Belsen nel 1942. Aveva dieci anni. Nel gennaio del 1945, è riuscita a fuggire, insieme ad un altro paio di ragazzini, praticamente per miracolo”.
“Ma dicevano che i nazisti facevano fuori tutti i bambini? Perché lei è stata risparmiata?”
“Bergen-Belsen non era un campo di sterminio, ma di lavoro. Solitamente i bambini non erano mai mandati lì. Però ho controllato i registri: nel maggio del 1942 era segnato l’arrivo di un piccolo gruppo di bambini ebrei, ma non spiegava il perché. Questa Sara doveva essere tra di loro”.
“E il resto di quei bambini?”
La donna si oscura in volto. “Sono morti tutti”.
“Giulia, a me questa sembra solo un’imbrogliona che vuole i soldi offerti dal nostro giornale per le testimonianze inedite. Non sarebbe poi nemmeno la prima volta, lo sai”.
“Non credo, a me sembrava seria nella lettera che ha mandato alla redazione”.
“Ascoltami, perderemo solo tempo”.
“Ma se poi dice la verità? Pensa, verrebbe proprio un bell’articolo”.
“Ti avverto, se comincia a raccontare assurdità oppure non mi dà delle prove certe della sua storia, me ne vado”.
La donna chiamata Giulia, scuote la testa esasperata davanti alla cocciutaggine del collega.
“Sei impossibile!”
I due continuano a salire le scale.
Arrivano in un piccolo pianerottolo al secondo piano e l’uomo suona un campanello.
Aspettano qualche minuto, poi sentono dei passi dall’altra parte della soglia e finalmente la porta si apre.
Davanti a loro si presenta una donna ancora giovane, ma profondamente segnata.
“Buongiorno, lei è la signora Longo?” chiede gentilmente Giulia.
“Si, sono io”.
“Salve, noi siamo Giulia Alba e Marco Taccetta”.
“Buongiorno” saluta Marco, stampandosi sulla faccia un sorriso un po’ stiracchiato.
“Veniamo per la sua lettera. L’ha inviata al nostro giornale una settimana fa”.
Giulia fruga di nuovo nella borsa e mostra la lettera a Sara.
La donna annuisce.
“Prego, accomodatevi”.
Giulia e Marco entrano nel piccolo ingresso, Sara li precede e li guida.
Nel tragitto, Giulia cerca degli appunti nella sua borsa, Marco, invece, si guarda attorno, incuriosito dalla casa.
Entrano dentro una cucina piccola e illuminata dal sole del primo pomeriggio.
Marco e Giulia si accomodano uno affianco all’altra, Sara si siede di fronte a loro.
“Se non le dispiace, mi piacerebbe darle del tu…in fondo non sembra che lei sia molto più grande di noi” dice Giulia, sorridendo.
“No, non mi dispiace affatto”.
“Giulia è veramente brava nel mettere a proprio agio le persone. Sarà per questo che la scelgono spesso per le interviste” spiega Marco, divertito.
“Capisco” dice Sara, con uno sguardo strano “ e tu, Marco? Qual è il tuo ruolo nelle interviste?”
“Bè…” Marco e Giulia si lanciano uno sguardo d’intesa “io sono quello che fa le domande più spinose…io sono il cattivo” spiega Marco, con aria seria e maliziosa.
“Se parli così, allora devo pensare che tu non sappia cosa sia veramente il male”.
Marco fa una faccia sbalordita, ma si riprende dicendo: “Per questo sono qui. Perché sono molto curioso di sentire la tua storia”.
“Spero di essere all’altezza delle tue aspettative”.
“Lo spero anche io”.
Sara rimane in silenzio per qualche secondo, poi dice: “Ho quasi pena di voi due. Per pura sfortuna siete stati scelti per ascoltare gli orrori che i miei occhi e la mia anima hanno visto. Vi avverto, non sono favole quelle che sto per raccontarvi, ma solo la realtà dell’odio che l’uomo può concepire verso i suoi simili”.
I due giornalisti sono colpiti dalla durezza delle parole di Sara.        
Giulia, per rompere la tensione che si è creata nella stanza chiede: “Scusa, toglimi una curiosità. Nella lettera ti sei firmata Sarah Longo, con la h, ma all’anagrafe ho visto che sei registrata senza…come mai?”
Sara scuote la testa e risponde: “I miei genitori, scrissero il mio nome senza h, all’anagrafe, perché mio padre era siciliano e mia madre ebrea. Perciò, scelsero un nome di origine ebraica, ma, diciamo che hanno voluto, “italianizzarlo”. Ma, dopo il mio ritorno da Bergen-Belsen, ho preferito firmarmi con il nome originario…”
“Ah” Giulia annuisce, per farle capire che ha inteso “bene, allora, io direi di cominciare, se ti senti pronta”.
“Credetemi, non aspetto altro”.
“Dunque, 1942: erano già state emanate le leggi razziali contro gli ebrei, la vostra vita era diventata praticamente impossibile. Chi poteva, fuggiva nei pochi luoghi sicuri che erano rimasti. Dov’eri tu, quando i tedeschi ti hanno trovata?”
Sarah sospira e comincia: “Mio padre era uno dei migliori calzolai del paese, la sua bottega era enorme…quando scoppiò la guerra, lui aveva previsto che sarebbe accaduto qualcosa di grosso. Diceva continuamente: “Questa verrà ricordata per un bel pezzo”, non immaginava neanche lontanamente che sarebbe stata ricordata per sempre.
Quando era un ragazzino, aveva fatto amicizia con Samuele, uno dei figli dell’unica famiglia ebrea che esistesse qui da noi, i Romanin. Erano rispettati dalla gente del paese, per la loro onestà e per la laboriosità, ma essendo ebrei, erano considerati eretici e quindi, era meglio prendere le distanze da loro. I più fanatici e i preti, a volte, erano arrivati persino ad accusarli di deicidio, bè, sapete…per il fatto che gli ebrei hanno crocefisso Gesù Cristo. Ripensandoci ora, riflettevo su come la gente abbia il coraggio di accusare delle persone per un fatto accaduto mille anni prima, come se i miei nonni in persona e non Caifa, avessero ordinato la morte del vostro Messia.
Nessun figlio deve pagare per ciò che hanno fatto i suoi padri. Esattamente com’è successo a me…
Perciò, mio padre, Francesco Longo, era diventato buon amico di Samuele Romanin. Cosa assolutamente inaudita prima di allora: un cristiano che diceva di avere contatti stretti con un ebreo!” Sarah scuote la testa.
Mille volte i miei nonni paterni supplicarono mio padre di non frequentarlo, di stargli lontano o altrimenti sarebbe diventato un eretico a sua volta o peggio, la comunità lo avrebbe escluso e lui avrebbe perso la sua dignità. Dignità…solo perché aveva conosciuto un altro ragazzo della sua età e aveva scoperto di andare molto d’accordo con lui. Mio padre allora era solo un ragazzino di quattordici anni ed ebbe paura, sentendo le parole dei suoi genitori. E così, abbandonò Samuele, quello che poi sarebbe diventato il mio adorato zio Samuele.
Passò qualche anno e scoppiò la Grande Guerra. Mio padre aveva vent’anni e fu chiamato a fare il suo dovere di cittadino: uccidere altre persone che come lui avevano un padre e una madre che li aspettavano con ansia a casa e il cui unico sbaglio era quello di appartenere a nazioni diverse.
Mio padre era un tipo in gamba e subito si fece segnalare dai suoi superiori, che lo nominarono sergente. Gli fu affidato un piccolo reggimento a Napoli e lui si affrettò a partire. Lì ebbe una grande sorpresa: tra i suoi soldati c’era anche Samuele.
Anche lui era stato arruolato e, casualmente, aveva saputo che il suo vecchio amico era stato messo a capo di quel reggimento, così aveva chiesto di essere trasferito.
Francesco, ora che era lontano dagli sguardi accusatori dei suoi compaesani, poteva tranquillamente riabbracciare il suo vecchio amico. Si scusò per come era stato costretto ad allontanarsi da lui, ma fu presto perdonato da Samuele, che capiva benissimo la sua situazione.
Tra i soldati c’era un certo disagio nel sapere che uno di loro era ebreo. Cominciarono a stargli lontano, poi lo insultarono e infine lo picchiarono.
Samuele non si era mai lamentato con l’amico dei suoi problemi con i commilitoni, ma quando Francesco lo vide coperto di lividi, lo costrinse a parlare.
Mio padre non era più un ragazzino indifeso, era un giovane uomo che aveva già combattuto sul fronte e non ebbe paura ad affrontare i suoi soldati. Ma dopo quell’episodio, fu assalito dai sensi di colpa, perché si chiese se lui, in fondo, si fosse comportato meglio di quegli uomini, abbandonando l’amico.
Finita la guerra, tornarono insieme a casa, mio padre ebbe l’occasione di conoscere la sorella di Samuele, Miriam e se ne innamorò”.
“Deve essere stato uno scandalo per la gente del paese” afferma Marco.
“Assolutamente…soprattutto quando mio padre la sposò. Ci vollero anni, prima che la gente si abituasse all’idea, ma la dolcezza di mia madre vinse quasi del tutto i loro pregiudizi”.
“Quando mio padre sentì i primi segnali della tempesta, fece nascondere mia madre e me in una grotta, a due passi dal nostro paese. Vivemmo lì, fino al maggio del 1942, quando un nostro conoscente ci tradì e i tedeschi vennero a prenderci. Il paradosso della situazione è che fu mio padre ad essere arrestato come traditore, perché si era rifiutato di rinnegare la moglie e la figlia ebree. Solo anni dopo, quando già ero riuscita a scappare dal campo, scoprii che aveva finito i suoi giorni in una buia prigione, annientato dal dolore di non sapere più che fine avevamo fatto.
Mia madre fu mandata subito a Belzec, io invece, senza sapere perché, fui trattenuta presso la stazione di comando dove ci avevano portato dopo l’arresto. Un giorno, mi dissero che ero stata selezionata, insieme ad altri ventinove bambini, per andare a Bergen-Belsen. Lì mi avrebbero sottoposto a delle visite mediche”.
“Di che si trattava, veramente?” chiede Giulia, quasi trattenendo il respiro.
Lo sguardo di Sarah diventa vitreo, continua a parlare, ma sembra che non veda più né Marco né Giulia.
“Dicevano che dovevamo essere orgogliosi…perché grazie a noi, la scienza avrebbe fatto dei passi da gigante…ci sottoposero ad un esperimento dopo l’altro. Erano cose folli…immersero un bambino di otto anni nell’acqua gelida, dicendo che volevano vedere fino a quanto poteva resistere. E anche quando videro che era arrivato al limite, lo lasciarono in quella vasca, finché non perse la sensibilità in tutto il corpo e non si trasformò in un pezzo di ghiaccio irriconoscibile; trascinarono un paio di ragazzini su un dirupo e li scagliarono giù, per vedere a che velocità si schiantava un corpo umano; ci rivestivano di pezzi di stoffa, che chiamavano tute antiproiettili e poi ci sparavano addosso per testarle…ma il peggio arrivò quando Himmler ebbe l’idea degli “innesti”… asportavano ossa e pezzi di carne senza anestesia e poi li trapiantavano in un’altra persona come se si aspettassero che germogliasse. Ricordo perfettamente quando sottoposero due gemelle ad un incrocio del femore. Il risultato fu che una morì e l’altra perse la gamba sinistra”.
“Giulia, stai bene?”
Giulia è pallidissima in faccia. “Sono scene raccapriccianti” dice, tremando.
“Ve l’avevo detto che non sarebbe stato affatto piacevole…ho visto uomini, donne e bambini morire senza un motivo oppure perché si erano azzardati a fare quello che per una persona comune era considerato normale, ma per noi no…perché eravamo ebrei. Lì dentro non ci cancellavano fisicamente, ma umanamente. Persino nella morte eravamo trattati da bestie. Una volta, la figlia di un comandante si innamorò di un giovane ebreo, ancora sano mentalmente e fisicamente, perché era giunto da poco a Bergen-Belsen e ancora i crudeli lavori non avevano distrutto la sua bellezza. La loro relazione andò avanti finché la ragazza non rimase incinta. Il comandante suo padre la mandò via dal campo e attese che passassero i nove mesi necessari. Quando nacque il bambino, se lo fece portare a Bergen-Belsen e…”
La voce della donna si spezza, chiude gli occhi.
“Non sono sicura di volere sapere come è finita…” mormora Giulia, sempre più pallida.
Marco rimane in silenzio, gli occhi esprimono ancora il suo scetticismo.
Sarah fa un lungo respiro, ritrova la calma.
“Per tutti questi anni non sono mai riuscita a cancellare quelle scene dalla mia mente…anzi, dalla mia anima. Notte per notte, da allora fino a oggi, conto i minuti che mi separano dal giorno, perché finalmente quelle grida, quei pianti e quei fantasmi che il buio evoca, svaniscano, e io posso finalmente tornare a vivere. Nei primi tempi l’arrivo della sera mi gettava in uno stato di panico irrazionale che mi paralizzava. Poi cominciai a rimanere in silenzio ad ascoltare le loro voci…e alla fine utilizzai la notte per capire…capire cosa aveva spinto la nascita di quella follia. E in questo modo l’ho tenuta lontano da me”.
“Di cosa stai parlando?” domanda Marco, che, senza volerlo, non riesce a tenere nascosta la sua curiosità.
“I libri di storia devono sempre trascrivere i motivi politici, economici e sociali per i quali nascono gli eventi, la storia stessa. Ma non possono mai chiarire i sentimenti delle persone che hanno scritto il nostro passato con le loro azioni.
Né io né voi eravamo nati allora, ma tutti e tre conosciamo bene i particolari riguardo la Prima Guerra Mondiale, giusto?”
Giulia e Marco fanno di sì con il capo.
Sarah prosegue: “Sappiamo che Francesco Ferdinando fu assassinato e da lì nacquero le contese. E conosciamo il finale di quella storia: l’America, l’Inghilterra e la Francia furono le vere vincitrici del conflitto e la Germania fu messa in ginocchio…”
“Ma cosa c’entra questo con l’olocausto?” chiede Marco.
“Aspetta, non interrompermi! Bisogna conoscere il passato per poter capire…” lo interrompe, brusca, Sarah.
Riprende a spiegare.
“Le tre potenze avevano perso enormi quantità di denaro, di uomini e di risorse per sconfiggere il nemico. A sua volta la Germania era indebitata fino al collo per poter combattere, ma aveva perso. E non appena avesse stipulato il trattato di pace, essa avrebbe dovuto farsi carico non solo delle proprie spese, ma anche di quelle delle nazioni che l’avevano abbattuta”.
Sarah fa una pausa e guarda i due giornalisti con aria decisa.
“Ora vi chiedo solo per questo istante di fermare qualsiasi altro pensiero…e di immaginare i sentimenti di un popolo sconfitto, che per quattro anni era stato ridotto alla fame, che aveva visto tutti i suoi sogni di conquista andare in fumo e che aveva perso i suoi uomini migliori. In una situazione del genere, cosa pensate abbiano provato? La guerra era finita, ma non il loro inferno personale…si sono visti soli, scherniti da coloro che non avevano cercato né la vittoria né la pace, ma solo la vendetta. In quei campi di concentramento è così che volevano farci sentire. Senza speranza, senza futuro. Noi eravamo i poveri capri espiatori che avevano trovato per sfogare il loro grido di dolore”.
“Sembra quasi che tu li stia giustificando…” dice Giulia, sorpresa.
“No, mai!” esclama arrabbiata Sarah. “Non li sto affatto giustificando, neanche in momenti del genere si possono difendere gli atti di cui loro si sono macchiati! E io non li perdonerò mai per quello che hanno fatto agli ebrei, per quello che MI hanno fatto!”
Si calma. “Quello che sto cercando di spiegarvi è che quando ti ritrovi solo a combattere contro tutti puoi fare uscire il meglio che c’è in te o il peggio…nel loro caso, il peggio”.
“Come l’esempio di quel bambino nato da un amore disgraziato. Quel comandante fece morire tra mille pene, padre e figlio…non posso descrivervi le loro torture, sarebbe troppo…ma se quel comandante non ebbe pietà di quell’innocente neonato, che per di più era suo nipote, come avrebbe potuto avere pietà di noi, che eravamo solo fango per lui?”
“Cosa gli fece?” chiede Marco, in un sussurro.
“Vuoi veramente saperlo?” gli domanda Sarah, con aria di sfida.
“Io no!” esclama Giulia e, a sorpresa, si alza dalla sedia, apre la porta che da sul balcone ed esce.
Marco è sbalordito, Sarah rimane indifferente.
“Scusami, vado un attimo a parlarle” dice Marco e segue Giulia sul balcone.
Giulia è pallida e sconvolta.                                          
“Giulia, dai…non fare così…”
“Mi vuoi spiegare quante altre prove vuoi prima che ti renda conto che questa donna dice la verità! Ma non è evidente, Marco?” esplode Giulia, arrabbiatissima.
“Non gridare, per favore!”
“Non ne posso più della tua diffidenza. Io mi fermo qui! Non era quello che volevi?”
Giulia guarda con aria di sfida il collega che rimane in silenzio.
Finalmente Marco dice: “Possiamo benissimo continuare questa intervista. Ormai sono quasi certo della verità che ci sta raccontando Sarah” fa un sorriso imbarazzato a Giulia, che a sua volta guarda Marco stupita.
“Solitamente sei più battagliero e invece ora ti sei arreso subito…” 
“È vero, ma il fatto è che sono sincero: la storia di quella donna mi sta intrigando. Penso veramente che potremmo anche fare qualcosa di più di un’intervista…”
“Tipo?” chiede Giulia, curiosa.
“Ho qualche idea, ma magari ne parliamo dopo. Abbiamo lasciato Sarah sola la dentro”.
“Si, hai ragione”.
Rientrano e si siedono nuovamente ai loro posti. Marco si accorge che non ha preso alcun appunto da quando l’intervista è cominciata, talmente è preso dalla conversazione.
“Ti chiedo scusa, sono stata un bel po’ maleducata uscendo in questo modo” dice Giulia, guardando Sarah.
Sarah per tutto quel tempo sembra essere entrata in una specie di trance e sentendo la voce della giornalista che le parla  è come se si risvegliasse.
“Non ti preoccupare, non me la sono presa” le risponde serenamente.
“Se te la senti, vorremmo riprendere da dove avevamo interrotto” dice Marco.
“Certo. A questo punto vi ho spiegato da cosa è scaturito tutto l’odio dei tedeschi contro di noi. Erano dei fanatici che avevano commesso molti errori, ma erano anche degli uomini distrutti dal rancore e avevano solo un chiodo fisso: farla pagare a quelli che li avevano sottoposti a delle condanne a morte camuffate da trattati di pace. Una volta sentii dire a due soldati che il presidente americano Wilson aveva proposto Quattordici Punti che la Germania doveva rispettare dopo la fine della Grande Guerra. Dicevano che Wilson ne aveva voluti approvare quattordici,perché Dio si era solamente limitato a dieci…questo era il loro risentimento”.
“Sarah, posso chiederti una cosa?” domanda Marco.
Sarah fa segno di sì con la testa, ma i suoi occhi esprimono diffidenza, ha paura della domanda che Marco può farle.
“Tu sei stata molto brava nello spiegarci il motivo per cui sei stata mandata a Bergen-Belsen, il motivo per cui i tedeschi si sono accaniti su di voi e, in parte, anche della vita che facevate nel campo…ma noi sappiamo che tutti i bambini che furono mandati lì insieme a te non sono sopravvissuti…tranne tu. Come hai fatto?”
Sarah sembra spaventata.
“Era proprio questa la domanda che temevo…quella che mi ha bloccato per tutto questo tempo, che mi ha impedito di mostrare al mondo la mia testimonianza…solo che ora non so se ho più il coraggio di parlarne”.
Giulia la guarda comprensiva, poggia la sua mano su quella tremante di Sarah.
Marco, invece, si acciglia.
“Se è così importante, temo che dovrai spiegarcelo” dice.
“No, io invece credo che vi ho detto abbastanza…non mi importa nulla dei soldi del vostro giornale, quello che dovevo fare l’ho fatto, ora potete andare”.
Si alza.
Anche Marco si alza, ma senza alcuna voglia di andarsene.
“No, mi dispiace, ma quello che finora ci hai detto è stato certamente interessante, ma non ha aggiunto quasi nulla di nuovo su quello che noi già sapevamo!” esclama contrariato.
“Marco, calmati e siediti!” gli ordina Giulia.
Marco non la ascolta e continua, irritato. “Si può sapere perché non vuoi parlarcene? Cosa c’è, hai paura o ti vergogni?”
Sarah si immobilizza, si volta e guarda Marco dritto negli occhi. “Si, provo una terribile vergogna”.
Marco, sentendo queste parole, cerca di ritrovare la calma. “Perché allora ci hai chiamato, se non ti sentivi sicura?”
“Pensavo di essere sicura…”
“Hai detto che avresti potuto farlo anni fa, ma non l’hai fatto…perché ora?”
“Marco, basta!” Giulia stavolta costringe il collega a sedersi.
Sarah rimane in silenzio, con lo sguardo nuovamente perso.
“Non avevo alcuna intenzione di farlo, ma poi, qualche settimana fa sono uscita per il paese. Era passato parecchio tempo dall’ultima volta che l’avevo fatto…mi sono sentita serena per un po’, sentendo di nuovo il cielo sopra di me e la gente attorno a me. Ma poi, mentre passeggiavo ho visto una scena che mi ha lasciato di sasso: dei bambini stavano giocando per strada e con un gessetto scrivevano dei numeri per terra e poi saltavano dentro quei numeri…”
“Il gioco della campana…” disse Giulia, sorridendo “ci giocavo sempre quando ero piccola”.
“Mi sono fermata ad osservarli. Erano così puri e luminosi nei loro gesti e nei sorrisi che mi sono incantata…e fu allora che uno di loro, un po’ più grande, di undici o dodici anni, prese il gessetto e, accanto ai numeri sulla strada disegnò una svastica”.
Giulia e Marco rimangono colpiti e sconvolti.
Sarah continua: “Mi avvicinai a quel ragazzino e gli chiesi se sapesse cos’era quel simbolo. Lui mi disse di no…e anche gli altri bambini non lo sapevano.
E allora capii che neanche venti anni dopo quegli orrori, il mondo stava già cercando di cancellare quanto era avvenuto…io lo so, non sono quelle guerre eroiche di cui ai nonni piace parlare con i propri nipoti, ma tutti, soprattutto le generazioni che devono arrivare, devono conoscere. Altrimenti, prima o poi, nascerà un nuovo Hitler, un altro Mussolini e allora la storia si ripeterà in un circolo vizioso. Siamo usciti a stento da questo scontro, non oso immaginare cosa accadrebbe se ce ne fosse un altro…”
Marco avvicina il suo sguardo a quello di Sarah.
“È questo il motivo per cui voglio sapere, Sarah. Perché sarà quello che racconterò ai miei contemporanei e per quelli che verranno”.
Sarah rimane in silenzio. Sospira e comincia a raccontare.
“Erano tutti i morti, i bambini che erano con me quando arrivai a Bergen-Belsen. Ormai mancavo solo io ed…ero terrorizzata al pensiero di morire o di essere sottoposta a chissà quale altro esperimento. Ero troppo piccola per essere utilizzata nel lavoro e quindi non c’era più alcun motivo della mia presenza lì dentro. Un pomeriggio fui chiamata nell’ufficio del comandante, la sua segretaria mi fece mettere in piedi davanti a lui. Ricordo ogni istante: io, davanti a quella scrivania, che non riuscivo a reggermi in piedi tanto ero spossata, ma quella volta tutti i miei sensi erano all’erta e non mi permettevano di accasciarmi per terra. Il comandante si siede lentamente sulla sua bella poltrona di pelle rossa e mi guarda come se nella sua postazione di comando, là dove lui decideva il destino di migliaia di persone, avesse trovato una macchia a deturparla. Senza quasi fissarmi, dice: <>
<> chiedo io, senza riuscire a calmare l’ansia che mi attanagliava lo stomaco.
<>”.
Scende il silenzio dentro la cucina.
“E gli hai detto chi stava cercando di scappare?” chiede Giulia, angosciata.
“Sono ancora viva…credo che questa sia la prova più grande del mio tradimento” risponde Sarah “sette uomini e due donne: nove in tutto. Il riscatto della mia penosa esistenza è costato nove altre vite. Non solo erano esseri umani, ma erano anche ebrei, miei fratelli e sorelle che ormai non posso più chiamare così…”
Sarah alza lo sguardo, che aveva tenuto basso durante il racconto della sua più dolorosa pena, fissa Marco. “Dimmi, Marco, ti è piaciuto il mio racconto? Purtroppo non c’è un lieto fine”.
Marco è senza parole, bastonato e attonito davanti a quelle parole.
“Forse è meglio se, un attimo, vado a sciacquarmi il viso. Ne ho bisogno”.
Sarah fa sì con la testa. “Il bagno è in fondo al corridoio, a destra”.
 
 
Marco si alza ed esce dalla cucina. È frastornato ed immerso nei suoi cupi pensieri.
Imbocca il corridoio e, per un attimo, non si accorge di nulla.
Poi alza lo sguardo e nota che il corridoio è tappezzato da ritagli di giornale, da fogli e da foto. Tutti questi parlano dell’olocausto, della guerra, dal suo inizio alla fine. Rimane immobile e li guarda, completamente scioccato.
Il suo sguardo si sofferma su un foglio in particolare.
Senza che lui se ne accorga, Sarah e Giulia si avvicinano a lui.
Sarah nota il foglio su cui Marco si è maggiormente soffermato e allora dice:
“È Shakespeare, il Mercante di Venezia”.
Marco sussulta e si volta, non si era accorto della presenza delle due donne.
“È il testo originale, in inglese…non capisco il significato” dice Marco.
Sarah lo guarda e, con voce alta e imperiosa, comincia a interpretare la parte di Shylock.
“Non ha forse occhi un ebreo? Un ebreo non ha mani, membra, sensi, affetti, passioni? Non si nutre dello stesso cibo, non è ferito dalle stesse armi, non va soggetto alle stesse malattie, non si guarisce con gli stessi mezzi, non ha il freddo dello stesso inverno e il caldo della stessa estate di un cristiano? Se ci pungete, non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo?”
Sarah conclude l’ultima frase con enfasi.
Scende il silenzio su tutti e tre.
 
Marco e Giulia sono andati via da poco. Sarah, lentamente, si dirige nella sua camera da letto, apre un’anta del suo armadio ed tira fuori una vecchia casacca da deportata, della misura di una bambina. Se la stringe al petto, poi apre un cassetto, prende un pigiama e comincia a dipingervi sopra delle strisce per far assomigliare il pigiama ad una casacca.
Entra nel bagno, fa scorrere l'acqua dentro la vasca. Il vapore sale e appanna lo specchio. Sarah, con un dito, scrive sul vetro: "Il riflesso dell'anima".
Dietro le sue spalle compaiono delle figure, nove in tutto. Sarah si volta e li osserva: sono i compagni, i fratelli e le sorelle che ha tradito.
Rimane in silenzio per qualche minuto e poi chiede: "Mi perdonerete mai?"
"Certo, Sarah. Ma ora è arrivato il momento di raggiungerci" gli dice dolcemente uno di loro.
"Aspettatemi...perdo solo qualche minuto".
Entra dentro la vasca, completamente rivestita del pigiama, si infila in bocca una manciata di pastiglie e affonda con tutto il corpo nell'acqua.
 
È passato qualche giorno.
Giulia e Marco stanno camminando per strada e discutono animatamente.
“Allora il direttore ti ha detto di sì?” chiede Giulia.
“Sì, sì. Ormai è tutto concordato, dovremmo avere la possibilità di esporre il materiale il prossimo lunedì”.
“Dio, spero che la gente non rimanga troppo scioccata per tutto quello che abbiamo raccolto, insieme alla testimonianza di Sarah”.
“Dai, sono mesi che ci prepariamo, il nostro lavoro deve avere senz’altro successo”.
Mentre i due parlano, passano davanti ad una bacheca. Giulia si ferma di botto e Marco si allarma.
“Giulia, perché ti sei fermata?”
Giulia, lentamente si volta e scoppia a piangere.
“Che succede?” chiede Marco, ora seriamente preoccupato.
“Marco, guarda!”
Marco osserva davanti a sé e vede il foglio di un necrologio attaccato alla bacheca. C’è scritto il nome di Sara Longo.
Marco rimane impietrito, mentre Giulia continua a piangere. Poi la donna prende una penna dalla borsa, si avvicina al necrologio e accanto al nome di Sara, scrive una h.
“Lei avrebbe voluto così” dice Giulia, guardando il collega.
"Non posso crederci..." mormora Marco.
Giulia è distrutta, ma dice subito: "Era il terribile male che aveva dentro che non la lasciava più vivere: lei, come tanti altri era tornata a casa, ma in realtà non aveva mai abbandonato quel maledetto campo".
"Dobbiamo assolutamente raccontare quello che sappiamo".
"Certo...Marco, devi ricordare però che non lo stiamo facendo per fare uno scoop o per farci pubblicità. E' quello che ha detto Sarah. Nessuno deve dimenticare".
Marco fa segno di sì con la testa.
 
 
  
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