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Autore: dilpa93    26/05/2013    6 recensioni
Solo allora, sentendo il suo nome, la donna alzò la testa incrociando lo sguardo del nuovo arrivato.
Lui la scrutò a fondo. Nei suoi occhi verdi aveva trovato più di quanto potesse immaginare, aveva trovato la pace.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Quasi tutti, Rick Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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La piccola caffetteria era gremita di gente, ma un tavolo per Kate il proprietario lo trovava sempre.
“Ti porto il solito Katie?”
“Si per piacere Frank.”
“A lei invece?”
Rick si era perso a guardarla mentre sorrideva amichevole all’uomo giocando con la sottile catenina il cui ciondolo pendeva, nascosto, all’interno della camicetta, tra i due seni.
“Come?”
“Cosa le porto?” Ripeté divertito.
“Quello che prende lei, mi fido.”
“Benissimo. Torno tra poco.” Incastrò la matita dietro l’orecchio e tornò dietro il bancone scomparendo alla loro vista.
“Beh, non si può dire che non ti conoscano... Katie.”
Arrossì per quel nomignolo, erano in pochi a poterla chiamare così. “No, decisamente... Decisamente no. Vengo spesso qui, mi sento come a casa.”
Non disse nulla, si limitò ad annuirle e a guardare fuori dalla grande vetrata giocando con le bustine di zucchero davanti a sé.
“È più facile parlare dove c’è gente”, esordì lei dopo qualche istante, “tutti sono impegnati, e sei certo che ti ascolterà solo chi deve, solo chi vuoi che lo faccia.”
“Scusate se vi interrompo, ecco a voi.” Poggiò i due brichi sul tavolo; il fumo usciva dalla piccola fenditura sul tappo in plastica bianca. Nulla lasciava intuire quale fosse il contenuto e, dando per scontato che si trattasse di caffè, seguì il gesto della sua partner portandoselo alle labbra.
Gli occhi verdi lo scrutavano in attesa di una sua reazione, e non poté trattenere un vivace risolino quando lo vide storcere le labbra e arricciare il naso.
“Cos’è esattamente?” Domandò allontanando il bicchiere, rigirandolo tra le mani.
“Una tisana mela e cannella... Non ti saresti dovuto fidare.”
“E la prendi spesso?”
“Solo in questo giorno. Sai, mia madre non era un’amante del caffè, lo beveva, specialmente quando doveva fare le nottate al lavoro, ma, se e quando poteva, preferiva di gran lunga le tisane. E questa era la sua preferita. Quando tornavo a casa, magari dopo un pomeriggio in biblioteca, e sentivo questo aroma in soggiorno, sorridevo istintivamente perché voleva dire che lei era rientrata. Ricordo che un giorno io le arrivai alle spalle facendola spaventare, non mi ero accorta che la stesse versando nella tazza. Così, accidentalmente, cadde sul tappeto, e da quel momento c’è sempre stato un, anche seppur lieve,  profumo di cannella in quel punto della casa. Ma...”, improvvisamente si incupì, e la fossetta sulla guancia, apparsa mentre raccontando sorrideva, disparve. “Quando morì non sentii più quell’odore. È sciocco, lo so, ma è così.”
Lo aveva veramente detto? Non si era mai lasciata tanto andare ad informazioni così “personali” con nessuno, ma, per qualche inesplicabile motivo, lui le ispirava fiducia. Una fiducia irrazionale che la spingeva a sbottonarsi più di quanto lei stessa non avesse intenzione di fare.
“Non è sciocco. Probabilmente è stata una reazione protettiva, hai smesso di sentirlo perché ogni volta che accadeva pensavi a lei. Comunque devo ammettere che non è male, ma preferisco di gran lunga il caffè.”
Un tintinnio richiamò l’attenzione di entrambi.  Piccole e luccicanti monetine si ritrovarono a rotolare sul pavimento. Una ragazza, imbarazzata, si chinò prontamente per raccoglierle, dopo che le aveva fatte cadere quando il portamonete le era scivolato di mano. Quando rialzò gli occhi trovò quelli del giovane cameriere, che cortese le offrì aiuto, puntati nei suoi.
Il detective bevve ancora un sorso, sentendosi percuotere da un brivido quando il forte aroma di cannella gli invase le narici.
“Io e Meredith ci siamo conosciuti così.”
Kate inclinò il capo guardandolo accigliata, invitandolo a proseguire.
“Alla caffetteria del college. Io andavo già all’accademia ed ero andato lì a trovare un amico che seguiva lettere, lei era una matricola e seguiva il corso d’arte. Era in fila proprio davanti a me. Si era presa un cappuccino gigante e cercava la moneta nella borsa. Non so bene cosa sia successo, so solo che ad un certo punto la borsa era rovesciata a terra e con lei anche tutti i suoi spiccioli. L’aiutai a raccoglierli, e poi pagai il mio caffè e il suo. Quando mi chiese come poteva sdebitarsi le diedi due opzioni. La prima era dirmi semplicemente grazie e saremmo stati pari, non ci saremmo più visti.”
“E la seconda?”
“Accettare di uscire con me per una cena, e chissà che poi non si sarebbe divertita e avrebbe deciso di aggiungere a quell’uscita una seconda e una terza.”
“Direi che ha scelto la seconda.”
Scosse la testa “ti sbagli, scelse la prima. Disse che era al primo anno, non voleva distrazioni, soprattutto da un ragazzo che... Aspetta, com’è che mi aveva definito...? Ah si, sembrava interessato solo ad aggiungere tacche alla sua cintura.”
“Ed eri davvero così?”
“Forse prima, ma quando la vidi... Non lo so, c’era qualcosa di speciale e diverso in lei.”
“E come andò?”
“Studiai l’orario dei suoi corsi e mi feci trovare alla caffetteria ogni giorno quando sapevo avrebbe avuto una pausa. Correvo dall’accademia al college, era meglio che andare in palestra. Le prime volte che mi vedeva appostato lì roteava gli occhi, io l’accompagnavo fino in classe, e poi, dopo un paio di settimane, riuscii a farla ridere. Non servì altro. Accettò l’invito a cena e... Beh, dopo la sua laurea ci siamo sposati e un anno dopo è nata Alexis.”
“Tu non sei uno che si arrende facilmente, non è vero?”
“No, non per chi amo. Per lei ne valeva la pena.”
 
 
Le cose da quella mattina avevano cominciato a prendere una piega diversa.
Le loro chiacchierate divennero un appuntamento quasi quotidiano.
La complicità tra loro era sempre più palpabile, anche durante il lavoro, e avere qualcuno con cui parlare aveva fatto sì che anche il rapporto con gli altri detective migliorasse.
 
Il Natale era stato un scoglio duro da superare. Nonostante la presenza di sua madre, pronta sempre a tirargli su il morale e a confortarlo, si era sentito terribilmente solo.
 
La madre di Kate era venuta a mancare quando lei aveva solo 19 anni. Uccisa, lasciata sola, a morire lontana da casa.
La vita gliela aveva strappata, e l’ultima immagine che aveva di lei era stesa e sanguinante in quel lurido vicolo, sopra un cumulo di spazzatura.
Una morte brutale, torbida, indegna.
È stata dura. Per lei, ma soprattutto per suo padre. Gli occhi le si riempirono di lacrime parlandogli di come fosse sprofondato nella trappola infernale dell’alcolismo. Rick si sentì fortunato, e si domandò come avesse fatto a lasciarsi andare avendo una figlia a cui badare, che ogni giorno si preoccupava per lui, distrutta e devastata da quella perdita -che aveva segnato per sempre la sua vita- quanto lui.
Ma come aveva sempre immaginato, Kate doveva essere molto matura per la sua età, sveglia ed intelligente, mentre la sua Alexis… beh, lei era ancora troppo piccola per potersi occupare di sé e anche di lui.
Quando gli aveva raccontato che, da quando la madre era morta, non aveva più addobbato un albero, messo alcuna decorazione, mangiato la cioccolata calda con i marshmallow, aveva creduto fosse un terribile sbaglio trasformarsi in un Grinch. Aveva sempre sentito frasi come “lei vorrebbe che tu andassi avanti, che continuassi la tua vita. Fare le cose di sempre può fartela sentire più vicina”, e aveva finito col crederci.
Eppure alla fine, anche lui, si era ricreduto, e lo scatolone con gli addobbi aveva visto solo uno spiraglio di luce e poi immediatamente di nuovo il buio dello scantinato.
 
E anche quella festività era passata per entrambi. Per Beckett come sempre, per Castle in un modo del tutto nuovo. Solo, nel buio della sua camera, seduto sul letto appoggiato allo schienale con in mano un bicchiere di whisky -in alternativa al vino rosso che invece era solita bere la detective- con lo sguardo perso nel vuoto, mentre la mente ripescava vecchie immagini. E, alla mezzanotte, aveva mormorato un ‘buon Natale’ con un ghigno amaro sul viso, pensando al tempo passato, pensando che ormai non avrebbe più ottenuto giustizia per quella storia finita ormai per tutti, tranne che per lui, nel dimenticatoio.
 
Ma ora, dopo mesi, riusciva a sorridere di nuovo senza sentirsi continuamente in colpa; era riuscito a mostrare un po’ di più il vero se stesso, e più i giorni passavano, più riusciva a penetrare quella scorza che Kate si era costruita intorno e di cui spesso gli aveva parlato, e sentiva che anche la sua corazza cominciava a vacillare.
 
 
“Sai, dovresti uscire con quella ragazza.” Esordì un sera di maggio Martha sorseggiando un buon chardonnay.
“Di chi parli?” Chiese mandando giù un boccone.
“Andiamo, non fare il finto tonto Richard. Mi riferisco a Beckett.”
Il detective si portò il tovagliolo alle labbra, si rinfrescò la gola con l’acqua e rispose calmo “usciamo già...”
“Non intendo quel genere di uscita. Cosa fate? Vi vedete per un caffè e chiacchierate. Io mi riferisco ad un appuntamento.”
“E cosa c’è di diverso?”
“Darling, un appuntamento è qualcosa di estremamente diverso! Innanzitutto dovresti invitarla in un bel ristorante, passare a prenderla, portarle dei fiori.”
“Mamma...” la richiamò.
“Che c’è? Tesoro mio, sono passati anni. È ora che tu ti rimetta in gioco.”
“Non sono pronto” commentò raccogliendo i piatti, si tirò su le maniche cominciando poi ad insaponarli sfregando frenetico con la spugna.
“Si che lo sei. Lo sei, devi solo darti una possibilità, e da come me ne hai parlato, lei è la miglior possibilità che potesse capitarti.” Gli sfiorò la spalla in un tocco materno, e poi, infilando la mano nella tasca dei suoi pantaloni, gli prese il telefono. Maldestra picchiettava sullo schermo cercando di trovare i numeri di telefono.
I cellulari di nuova generazione erano così complicati. Prima c’era solo un tasto verde, uno rosso, la rubrica e l’archivio dei messaggi; adesso tutto era automatizzato, avere un cellulare era come avere il mondo in una mano, un mondo altamente tecnologico, e lei e la tecnologia non erano mai andate molto d’accordo.
“Che cosa stai facendo?”
“Cerco di dare una piccola spinta al destino kiddo. Oh, ecco fatto”, esclamò entusiasta dopo esser riuscita a fra partire la chiamata. “squilla, squilla!” gli accostò il telefonino all’orecchio attendendo trepidante.
“Pronto?”
“P-pronto? K-Kate? Sono Cas-Rick.” Rispose impacciato, colto alla sprovvista dalla sua voce serena, seppur stanca, che lo aveva accolto dall’altro capo.
“Oh, ciao Rick.”
Si pulì velocemente le mani insaponate nei pantaloni, sfilando il cellulare dalle mani della madre che lo incitava con movimenti teatrali e un labiale incomprensibile.
“Castle, ci sei?”
“Si, si, ecco io... mi stavo domandando se domani ti andasse di vederci.”
“Ma certo” dal tono di voce capì che stava sorridendo, e non poté non fare lo stesso, “caffè al solito posto?”
“Oh… no, veramente pensavo di più a-a una cena.”
“Una cena?”
“Si, tipo un appuntamento.”
“Tipo, o è un appuntamento?”
“Lo è… se lo vuoi.”
Arrossì, ringraziando il fatto di essere al telefono, così che lui non potesse vedere le sue guance imporporarsi come quelle di un’adolescente alle prese con il primo fidanzatino.
“Mi farebbe molto piacere.”
Fu certo, in quel momento, che lei si stesse mordendo il labbro inferiore. Un tic a cui si lasciava sempre andare quando era in imbarazzo, nervosa, oppure timidamente felice, e lui sperò con tutto se stesso che si trattasse dell’ultima.
 
 
La sera successiva, alle otto in punto, si fece trovare davanti a casa della collega. Scese dalla macchina sistemandosi il colletto della camicia; giocherellò con il portachiavi mentre saliva i gradini per raggiungere il portone. Citofonò, sentendo poi la sua voce dall’accento inconfondibile rispondergli con un “scendo tra un minuto”.
Si appoggiò con le spalle contro il muro torturandosi le dita nervoso, quando, attraverso il vetro del portone, la vide. La bocca si aprì come a voler dire qualcosa, ma non una parola ne uscì.
Il vestito nero lasciava scoperte le gambe che, fino ad allora, aveva avuto il piacere di guardare sempre coperte dal pesante tessuto dei pantaloni.
La scollatura non era eccessiva.
Ecco un’altra cosa che gli piaceva di lei. Non era mai appariscente, o volgare, sapeva misurarsi in tutto.
Le scarpe alte le donavano ancora più slancio, ma a quelle ormai era abituato. Gliele vedeva su ogni giorno, e a dire il vero spesso si era domandato come facesse a passare tutto il giorno -a volte tra inseguimenti e, perché no, anche sparatorie- su quelle che lui considerava strumenti di tortura riservati, fortunatamente, solo alle donne.
 
“Rick, ti senti bene?”
“Si, bene, benissimo a dire la verità… Sei stupenda.”
Sorrise timida abbassando lo sguardo. Quando rialzò il capo si avvicinò al suo viso sussurrandogli all’orecchio “anche tu stai bene. Sai, il rosso ti dona.” Enunciò, sfiorandogli il petto, con voce sensuale.
‘Che fine ha fatto la timida Kate?’ Domandò a se stesso sentendo la gola seccarsi. Si riscosse dai suoi pensieri e, offrendole il braccio, le chiese “Andiamo?”
La scortò alla macchina parcheggiata proprio lì di fronte. Cortese le aprì la portiera, portando Kate a ringraziare il fatto che la cavalleria non fosse del tutto scomparsa.
Nonostante fossero entrambi ansiosi, e cercassero di mascherarlo al meglio, la chimica tra loro era innegabile, e la cena trascorse tranquilla.
Entrambi si sentivano a proprio agio. Parlare gli era naturale, le loro risate si mischiavano, e sembrava non esistere altro suono all’infuori delle loro voci e dei deboli suoni come il lento ondeggiare del vino nei bicchieri, o il gorgoglio prodotto dalle bollicine dell’acqua frizzante nella brocca, o il fragrante suono della crosta del pane ogni volta che veniva spezzato.
Sulla tovaglia bianca le mani si sfioravano e stuzzicavano, ma lo facevano quasi con timore, come a non volere che l’altro se ne accorgesse.
 
Passeggiarono per il parco proprio di fronte al ristorante.
Alle loro orecchie giunse la melodia che, sempre con più forza, si diffondeva tra le fronde degli alberi. Gli occhi di Kate si illuminarono come quelli di una bambina quando scorse le luci della piccola giostra.
“Ti piace?”
Osservò i cavalli rincorrersi in circolo, la carrozza reale trainata da quattro destrieri, la piccola tazza da tè con le rifiniture in oro. “È bellissima” sussurrò estasiata.
“Mi hai detto che da piccola, d’estate, di pomeriggio tua mamma ti portava ogni volta che poteva a fare un giro sulle giostre di nascosto da tuo padre. Era una cosa che condividevi solo con lei. L’altro giorno quando sono passato l’ho vista e ieri ho pensato che sarebbe stato carino portarti... Ma forse ho esagerato, non è vero? Scusa, non volevo rovinare tutto.”
“Non hai rovinato niente. Andiamo!” Si mise a correre verso la giostra salendo su di un puledro dalla criniera corvina. Castle sorrise sospirando sollevato e la raggiunse sedendosi su di un cavallo accanto a lei. Quando la giostra iniziò a girare, le risa di Kate presero posto tra le note del classico motivetto.
 
Qualche giro, e poi ripresero a godersi quella serata camminando l’uno a fianco dell’altra.
In silenzio, non serviva dire più nulla, ad entrambi bastava poter godere della compagnia dell’altro. Ma poi la realtà bussò a quell’angolino di mondo che si erano creati.
“Beckett...” rispose seria al cellulare, “si, per prima cosa domattina. Grazie mille Lanie. Buona notte anche a te.” Mise via il telefono e incastrò di nuovo il braccio in quello di Richard, come se quel particolare contatto le fosse mancato, come l’assenza di ossigeno, in quei due minuti.
“Cosa ha detto?”
“Che ha provato a chiamarti e che era curiosa di sapere cosa stessi facendo di tanto importante per ignorare le chiamate dal distretto.”
“Come mai questo tono?”
“Quale tono?”
“Non lo so, sembri... Arrabbiata.”
“Certo che lo sono. Ha chiamato prima te di me!” Lo schernì dandogli una leggerissima spallata
“Gelosa?” Sorrise ammiccante.
“Forse” sussurrò trascinandolo verso l’uscita del parco. “Ha detto che sul cadavere di Sarah Williams ha trovato tracce di DNA. Potrebbero portarci all’assassino.”
“Vuoi andare a verificare ora?”
“No... Domattina andrà bene. Ed in fondo a domattina non manca tanto. Forse però è meglio se-” non riuscì a finire la frase, perché la realtà era che non voleva che quella serata finisse.
“Ti riaccompagno a casa.” Disse dolce sorridendole comprensivo.
“Grazie.”
Durante il breve viaggio in macchina Kate si trovò costretta a reprimere il terribile impulso di scostare il ciuffo dalla fronte dell’uomo, e restare poi a sfiorargli, con movimenti lenti e circolari dell’indice, la tempia.
Ancora una volta, come all’inizio di quell’appuntamento, rimase colpita dal suo semplice gesto di aprirle la portiera.
Lenta, fingendo un mal di piedi che non c’era, salì gli scalini prima di raggiungere il portone, per prolungare ancora di qualche secondo quel momento.
“Bene, a-allora ci vediamo domani.”
“Si, do-domani.” Le chiavi di casa la caddero dalle mani; entrambi si abbassarono per raccogliere, rischiando di far scontrare le loro teste.
Quando si rimisero in piedi lo spazio tra i loro profili era minimo.
La detective si sporse di poco, ancora incerta, ma Rick si tirò indietro, leggendo un po’ di delusione nei suoi occhi. Delusione e paura di aver fatto qualcosa di sbagliato.
Forse stava correndo troppo, anche se in fondo era quasi un anno che si conoscevano.
“Scusami, mi dispiace, è che-”
“No, non devi dirmi niente.”
“Si invece. È che io... Ti sembrerà ridicolo forse, ma... non sono mai stato con nessun’altra dopo Meredith. Ma non ho mai neanche conosciuto nessuna come te dopo di lei.”
Gli carezzò la guancia, prima col palmo, poi col dorso “ehi, va bene così, non c’è nessuna fretta. Non ci corre dietro nessuno, andremo avanti un passo alla volta. Tu mi fai sentire bene Rick, come non mi sentivo da tempo, mi fai sentire viva. Non voglio obbligarti se non ti senti pronto.”
Quell’ultima parola fece appena in tempo ad uscire, che sentì la bocca del detective posarsi famelica sulla sua. Sorrise sulle sue labbra.
L’impeto li fece finire contro il muro. Richard si sostenne con le mani alla parte laterale, premendo involontariamente un tasto sul citofono.
‘Chi è? Chi è?’
Troppo presi non sentirono neanche la voce chiamarli, e affannati continuarono a baciarsi, lasciando uscire gemiti involontari.
‘Maniaci!’ Urlò la voce al citofono prima di chiudere la comunicazione.
 
Quanto l’aveva desiderata.
Erano stati insieme, in quel gioco d’amore, fino alle prime luci dell’alba.
E mentre Kate gli dormiva accanto, lasciando che un braccio gli circondasse il petto, lui fissava il soffitto bianco dipinto dal tenue giallo-arancio della palla di fuoco che proiettava i suoi raggi nella stanza attraverso le feritoie della tapparella.
Un braccio, dapprima incrociato con l’altro dietro la nuca, scivolò fino alla vita della donna sfiorandola attraverso il lenzuolo. Con lo sguardo fisso, pensò alle emozioni che a lungo non aveva più provato e fu felice di aver aspettato. Non avrebbe potuto desiderare di meglio.
Sentiva il sangue ribollirgli nelle vene, completamente preso dalla creatura al suo fianco.
 
Era presto per dirsene innamorato? Non gli importava.
Lo era, ne era sicuro.
 
Anche lei si sentiva così dannatamente coinvolta. Non era solo attrazione, non era il semplice volersi bene. Lei lo amava già, irrimediabilmente.
Lo sapevano, potevano leggerlo nei loro sguardi e nei loro gesti che, da quella notte, si susseguirono giorno dopo giorno, uscita dopo uscita. Nella sere passate ad amarsi come non ci fosse un domani, e in quelle in cui stavano semplicemente sul divano a guardare la televisione, o magari a leggere entrambi un buon libro accompagnati da vino e birra, l’uno accanto all’altra.
L’importante era stare insieme.
 
Ci volle meno di un anno prima che decidessero di comprarsi un appartamento che fosse loro.
Nulla di grande, quanto bastava per poterci vivere.
Ridipinsero ogni stanza, trovandosi alla fine dipinti a loro volta dalla testa ai piedi.
Sulla parete della camera da letto c’era il segno indecifrabile, se non per loro, delle loro mani, quando lui l’aveva spinta contro il muro baciandola, bloccando la mano con la sua sulla vernice appena passata.
 
Tre mesi dopo l’inizio della convivenza era arrivato il momento di fare i conti con una ricorrenza importante.
 
Già due anni erano passati da quando aveva fatto il suo ritorno a New York. Già due anni erano passanti da quando sua figlia era stata brutalmente uccisa.
Quella mattina, mentre Rick finiva di allacciarsi i polsini della camicia seduto sul letto, lei si mise in ginocchio dietro di lui. Il suo viso poggiava sulla sua spalla.
“Sicuro che non vuoi che venga anche io?”
“Sicuro. Non è che non ti voglia lì, è solo che…”
“È una cosa che devi fare da solo. Lo so.” Lo aveva sempre fatto anche lei.
Andava sola da sua madre ad ogni anniversario della sua morte, ma non quell’anno, quell’anno aveva voluto che lui andasse con lei. Ma capiva bene che per Castle fosse ancora presto.
Mentre questo pensiero le attraversò fugace la mente, sentì il suo uomo baciarla, e lo vide poi uscire.
 
Camminò per il cimitero fino a raggiungere le due tombe.
Una rosa per Meredith, e un mazzo di tulipani per Alexis, questa volta viola.
Il fioraio gli aveva detto che il loro significato era quello di infondere serenità e calma, e lui si augurò di cuore che la sua bambina l’avesse trovata.
Solo quando si chinò per posare i fiori nel vaso lo vide. Un piccolo bigliettino piegato in quattro parti, incastrato proprio sotto il vaso.
 
‘Cucù detective’
 
Capì immediatamente chi fosse il mittente, non era difficile da immaginare. Il passato lo investì come un’onda durante una tempesta, e capì che ciò che aveva tentato di allontanare dai suoi ricordi, in realtà non se ne era mai andato.
Quello che non riusciva a spiegarsi era perché Peter fosse tornato, perché proprio adesso, perché dopo tutto quel tempo.
Per sicurezza fece analizzare il foglietto. Avrebbe voluto farlo fare a Lanie, ma questo sarebbe stato il modo più veloce perché Kate ne venisse a conoscenza, e non voleva allarmarla inutilmente.
Si sarebbe dovuto accontentare di Perlmutter, nonostante le sue occhiatacce e continui scherni, avrebbe potuto contare sulla sua discrezione.
 
Dopo un paio di giorni erano cominciate le chiamate. Non sa come abbia avuto il suo numero di telefono, quello che era certo è che, anche se lo avesse cambiato, sarebbe riuscito a rintracciarlo.
Se sapeva dove era sepolta Alexis, con probabilità sapeva anche dove lavorava e dove viveva.
 
I tentativi di scoprire dove Tisdale si nascondesse risultarono inutili. Le chiamate partivano da cabine pubbliche in diversi angoli della città. Le telecamere di sicurezza di quelle aree non avevano dato frutti se non per un paio di uomini con felpa e cappuccio calato sul capo che si aggiravano sospetti. Ma non aveva nessuna garanzia che si trattasse di chi cercava.
La situazione cominciava a diventare insostenibile, le chiamate arrivavano in ogni momento della giornata, persino di notte.
Non dormiva più, restava a guardare Kate al suo fianco per assicurarsi che nessuno si intrufolasse in casa e le facesse del male, pur sapendo che era perfettamente in grado di difendersi se ce ne fosse stato bisogno.
 
Doveva fare qualcosa; una possibile soluzione si era insinuata nella sua testa senza ritegno e, per quanto avesse cercato di liberarsene, dovette ammettere che era l’unica cosa da fare.
Sperò fino all’ultimo che non fosse necessario, lo sperò fino a che, quella mattina, la voce di Peter non pronunciò quelle parole “Farti soffrire… ancora”.
E adesso, mentre seduti fuori dal distretto si tenevano per mano, aveva capito che il momento era arrivato.





Diletta's coroner:
E siamo arrivati esattamente dove era finito il primo capitolo.
Grazie a chiunque stia seguendo la storia :)
Baci
  
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