Lo
fissava da più di dieci minuti, ormai.
Era certo che il suo sguardo insistente risultasse alquanto fastidioso,
ma non
poteva farci nulla, c’erano solo loro due lì, e,
nel silenzio, quella musichetta
risultava incredibilmente orecchiabile, Matt era come ipnotizzato. Ogni
tanto
il ragazzino alzava gli occhi, distogliendo per un attimo
l’attenzione dal
gioco e scrutava Mail con sguardo minaccioso, poi ricominciava,
imperterrito, a
spingere i vari tasti ad una velocità sorprendente. Nel
frattempo Matt,
raggomitolato su una seggiola in quella stanza mai vista, (ma allo
stesso tempo
simile a tutte le altre stanze di orfanotrofi, i muri dipinti di un
bianco
vagamente affumicato) aspettava e, non sapendo bene cosa, seguitava ad
osservare quel bambino (non era poi tanto più grande di
lui), il quale sembrava
totalmente impegnato nel fare qualcosa a cui Mail non trovava nome, ma
che voleva
assolutamente scoprire.
Aveva cambiato nuovamente
casa, ne era certo. Probabilmente pure città,
ma anche se si trovasse in un altro stato, o mondo; beh, per lui non
faceva
davvero differenza. Era un po’ stanco, il piccolo Matt.
Stanco di provare ad
affezionarsi a qualcuno per poi vederselo strappare via subito dopo. In
fondo
non gli sembrava di domandare poi così tanto: solo una
persona, una persona nel
mondo che aspettasse lui e lui soltanto.
Nulla più di questo.
“ Si può
sapere che cosa vuoi?” Una
voce
squillante lo distolse dai suoi drammi interiori e poiché
quel bambino lo
fissava imbronciato Matt sospettò fortemente di essersi
incantato
osservandolo.
Poteva
benissimo ignorarlo e far finta di niente, ma la noia lo attanagliava
da molto
ormai. Nuovamente solo e terribilmente annoiato. Tanto valeva
chiederglielo: “
Cosa stai facendo?”
Quel ragazzino
dai capelli neri ed arruffati lo contemplava con aria sempre
più sorpresa: “
Cosa ti sembra stia facendo scusa? Gioco”. Brillante
conclusione, infatti
pareva alquanto soddisfatto della sua risposta poiché
ricacciò subito il muso
sullo schermo luminoso. Ma Matt non era intenzionato ad arrendersi.
“ A cosa?”
Il faccino proteso in avanti, occhi verdi brillanti di
curiosità. Il ragazzo
brontolò sommessamente. “ Uffa, non ci vedi per
caso? È un game boy e sto
cercando di giocarci”. Evidenziò con la voce quel
“ sto cercando”, sperando che
Matt ricevesse il messaggio; eppure la “O” di
meraviglia che la sua bocca
disegnava faceva intendere tutt’altro. Infatti Mail si
alzò incespicando, colto
finalmente da un vivo ed infantile interesse e si avvicinò
all’altro bambino
incurante del volere di quest’ ultimo. Poi quasi lo travolse,
scavalcandolo con
le manine, fino a quando una testa rosso pomodoro non andò
ad oscurare del
tutto il piccolo schermo quadrato.
“ Voglio vedere! Voglio
vedere!”
“ Hey, stai
attento! Mi farai perdere!”
Matt
era sempre più perplesso, in quella scatolina un omino si
muoveva saltellando
allegramente.
“ Come si gioca?”
“ Sei solo un moccioso, non puoi
capire! Ed ora levati” Lo cacciò via di malo
garbo, appiopandogli un deciso
spintone; Mail roteò un paio di volte le braccia, giusto per
rimanere in
equilibrio.
“
E poi, sei troppo piccolo” Aggiunse infine, come a
giustificare ulteriormente
il moto d’ira. Invece fu tutta una sorpresa la
velocità con cui gli occhi di
Matt si riempirono di lacrime ancora intatte che, miracolosamente,
rimanevano
intrappolate tra le palpebre e facevano luccicare lo sguardo triste del
bimbo.
Il ragazzino
lo scrutò, allibito: “ Non ti metterai mica a
frignare ora, spero!”
Una prima grossa e calda lacrima solcò la guancia
di Matt, lasciandosi
alle spalle una striscia tremolante, per poi infrangersi sulla maglia a
righe,
dove inevitabilmente scomparì,
risucchiata.
“ Sei solo un poppante! Se adesso ti metti ad urlare
penseranno che ti
ho picchiato!” Il ragazzino pareva più preoccupato
che arrabbiato, anche perché
ormai il viso dell’altro era bagnato da un pianto struggente,
ma ancora
abbastanza silenzioso, rotto solo da alcuni singhiozzi.
“ Ok! Ok! Ti faccio fare una partita se
smetti di piagnucolare, mi sembri una bambina viziata” Detto ciò gli
porse in game boy bruscamente
ma, per un attimo, rimase meravigliato da come ora Matt sorridesse
felice, le
mani protese verso di lui, totalmente dimentico del piagnisteo di poco
prima.
Il ragazzo fece una smorfia,
sdegnato. “ Tanto non sai neanche come si tiene. Questo non
è un gioco per
bambini, è per adulti. Pure io, che ho undici anni, non
riesco a superare il
quattordicesimo livello, e sono bravo sai?”
Matt comunque non aveva udito parola di
quell’ultima predica, si era
solo accucciato comodamente al suolo studiando il video-game. Il suo
viso
risultava totalmente concentrato adesso ( incredibile la
quantità di emozioni
che era riuscito ad esprimere in un tempo tanto breve) e la sua
espressione
così terribilmente seria che anche l’altro,
nonostante lo squadrasse sempre con
sufficienza, ne era rimasto incuriosito. Dopo poco gli si sedette
affianco,
riluttante. Era già pronto a ribadire le sue massime ma
bastò un’occhiata per
zittirlo e fargli dimenticare ogni forma di ostilità. Matt
non solo aveva
superato il famigerato quattordicesimo livello, ma si dirigeva ora
verso il
diciottesimo, con una naturalezza alquanto umiliante.
“ Wow! Come caspita ci sei riuscito?” Era
sinceramente sorpreso, quasi
ammirato.
Matt non provò neppure a rispondergli,
pareva assorto; per quei pochi e preziosi minuti si era dimenticato di
un po’
di tutto e un po’ di tutti, i contorni perdevano nitidezza e
si confondevano, restava
solo quello schermo brillante, somigliante ad una piccola candela nelle
tenebre.
Una voce amorevole gli fece alzare gli occhi di scatto, come se quello
che aveva udito fosse stato uno sparo.
“ Ecco, ora è tutto sistemato.
Se non fosse per questi documenti e moduli da
firmare… oh, adesso non importa. Andiamo piccolo! Andiamo a
casa”
Per
un momento Matt pensò che quella donna si stesse rivolgendo
a lui, ma
ovviamente si sbagliava. Vicino a lei un signore alto e pallido teneva
sotto
braccio varie pratiche, che sicuramente sentiva star per cadere e
spargersi sul
pavimento, vista la sua andatura impacciata. Eppure la mano era tesa e
sicura
verso di loro.
“ Su Geremy! Saluta il tuo amico e vieni qui.”
Geremy
( ecco svelato il suo nome) trotterellò docile docile verso
quella strana
coppia, senza degnare di un solo sguardo Matt, che stringeva ancora tra
le mani
il gameboy.
“
Hey, aspetta! Stai dimenticando questo!” Il suo era stato
più un grido
disperato, forse un modo per prendere tempo, come se volesse trattenere
quel
bambino sconosciuto ancora per un po’. Un’estrema
richiesta di aiuto. Geremy
si voltò, regalandogli uno sguardo
distratto e fuggevole.
“ Tienilo pure, tanto non ero
neanche poi così bravo” Rise, una risata
estremamente eccessiva.
Ma ciò che la
alimentava era ben altra gioia.
Così
Matt rimaneva solo ed osservava con uno sguardo indecifrabile quel
ragazzino
allontanarsi per sempre da lì, poiché era stato
scelto. Compagno di una vita
intera, probabilmente una vita felice. E mentre Geremy era stretto nel
forte
abbraccio di due genitori nuovi di zecca, lui percepiva tra le mani
solo gli
spigoli freddi del regalo che il destino gli aveva fatto.
Non sapeva perché si trovasse lì, ne aveva fatto
caso a come ci fosse
arrivato, ma capiva che per il momento il suo compito era aspettare.
Cosa? Forse l’attesa
stessa.
Ma almeno ora avrebbe potuto ingannare la
noia.
Mello
Mihael
giunse in Inghilterra nel tardo
pomeriggio, ad ottobre inoltrato.
Aveva iniziato a camminare
subito, e svelto anche, ma poi si era fermato, giusto un attimo, solo
per
salutarlo. Non aveva ancora dimenticato le buone maniere, e infondo, se
si
trovava lì lo doveva in gran parte al sostanzioso aiuto di
quel signore. Per
questo lo ringraziò, e fu un grazie davvero sincero: un uomo
anziano dalla
barba bianca, era il capitano di un battello piuttosto malandato; lui
stesso,
piuttosto malandato, non aveva più neppure un
dente,poverino. Eppure, era la
prima persona veramente buona che Mihael incontrava in tutta la sua
vita.
L’aspetto del bambino, poi,
doveva essere
altrettanto trascurato poiché il vecchio, mosso da
chissà quale profonda
compassione, si era anche offerto di tenerlo con lui, nonostante quel
marmocchio non avesse proferito parola per tutto il viaggio, se non
giusto
qualche cenno da far capire che intendeva.
Chissà come sarebbe stata
la sua vita con quell’uomo… se lo era chiesto,
forse un paio di volte. Non era
facile immaginarlo. Eppure Mihael aveva educatamente declinato
l’offerta e, a
quanto pare, era apparso convincente visto che aveva indotto il
marinaio dai
modi paterni a lasciare un bambino, probabilmente un orfano, tutto solo
nel
mondo vasto e selvaggio. Ma Mihael non aveva paura, e così
camminava da molto,
ormai. Un solo obbiettivo, e passo dopo passo, lo seguiva. Lasciatosi
il porto
alle spalle, teneva un'unica direzione, ed essa era sempre dritta
davanti a
lui, il mare si allontanava, riducendosi ad una fessura azzurra, le
colline si
gonfiavano e i campi gli sfilavano intorno come immensi oceani verdi.
Non
poteva dire da quanto tempo fosse in viaggio,
chissà, magari meno, di una settimana. Non sapeva neppure di
preciso dove si
trovasse e stentava a chiedere informazioni, e non più per
la lingua, ma poiché
quelle campagne parevano deserte. Aveva fatto di tutto per imparare
almeno
qualche parola di inglese ed i risultati non erano stati neppure troppo
deludenti per aver avuto poche ore a disposizione; eppure non bastava.
Un lungo
viaggio largamente sottovalutato,e tuttavia, per non aver mai messo
naso fuori
prima di allora, era già un buon esito essere arrivati vivi
sin là, nonostante
tutto. Ma la situazione forse gli era un po’ scappata di
mano, doveva
ammetterlo; ora i suoi vestiti erano logori e i suoi capelli biondi
più lunghi
e scompigliati. Aveva una
macchia di fuliggine sulla guancia destra, un ginocchio sbucciato.
Fame;
freddo. Iniziava a piovere, esattamente in quel momento.
Eppure, non una volta gli
era passata per l’anticamera del cervello l’idea di
tornare indietro. Mai si
era voltato, con sguardo malinconico, a scrutare la vita che aveva,
volutamente, abbandonato.
La verità era che,
nonostante la situazione fosse alquanto disperata, lui si sentiva
finalmente
libero, come non gli era capitato prima.
Per quel medesimo
motivo ora respirava a pieni polmoni un’aria diversa, e non
più quella putrida
e stagnante della sua stanza. Poche, pochissime volte aveva ripensato a
ciò che
era stato in precedenza e, malgrado non fosse passato, obbiettivamente,
poi
così tanto tempo, i suoi giorni in Germania gli parevano
straordinariamente
lontani.
Si
fermò di colpo, osservandosi i piedi. Quello destro gli
doleva appena, e
comunque quel sottile tormento gli dava sui nervi. Qualche attimo dopo
un paio
di scarpe volava nell’aria, per poi atterrare scompostamente
a terra. Poco più
avanti c’era un calzino e dietro, subito un altro.
Lo sentiva
chiaramente, ora: la terra umida, l’erba fresca.
Un’energia nuova che partiva
dal basso per fluire poi in tutto il corpo. Passi sempre più
svelti, divenuti
in seguito corsa; Mihael guardava i suoi piedini muoversi prima con
incertezza,
incespicando; e poi vedeva la sua falcata prendere slancio e
regolarità,
diventare un galoppo possente. Correva con tutta la forza che aveva, il
piccolo
Mihael, nonostante fosse stremato, nonostante il vento gelido gli
sferzasse il
viso. Contro tutto e tutti, scappava ancora da una prigionia che lo
aveva
impedito per troppo tempo, come un’animale braccato che
intende mettere più
spazio possibile tra lui e i suoi aguzzini; Mihael in quel momento
sentì che
non vi era alcuna differenza tra lui e le nuvole o le montagne: era
aria e
terra, libero e immenso come tutto il cielo.
Una
signora si affacciò dal balcone della sua casetta sperduta
e, inizialmente
sorpresa, rise di gusto vedendo in lontananza quel bimbetto scalzo che
sgambettava lungo il sentiero. Si ricordò di quando era
piccola e libera, e di
come anche lei amasse giocare sotto la pioggia.