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Autore: Riflesso    28/05/2013    0 recensioni
Anche se è narrata in prima persona la storia non è autobiografica.
Il luogo invece è reale, tanto che potrei darvene l'indirizzo... in realtà... beh: forse un po' autobiografico alla fine lo è, ma esattamente come lei farò finta di non vedere.
Genere: Slice of life, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Che palle.
Ci sono giorni in cui non riesci a pensare a nient’altro che alla noia che sembra aver invaso la tua vita. Non hai un reale motivo di lamentarti, dopotutto, ma la sensazione è lì, impellente e fastidiosa.
Come il caldo e l’afa di questi giorni in città.
Anche l’aria sembra annoiata, immobile e bollente. Poche auto, nessun passante… e certo! Chi è quel folle che uscirebbe sotto il sole cocente di agosto?
Io, ovviamemente.
Arrancando sulla salita sento l’aria mancarmi e i vestiti che si appiccicarsi addosso per il sudore.
Eppure preferirei restare qui fuori a cuocere che non rintanarmi al fresco di casa mia, dove mi aspettano due chiassosi bambini che si annoiano come me e un marito, tedioso e tediato come una giornata estiva.
Sono la mia vita, eppure… che palle.
Arranco, un piede dietro l’altro e non so se vado tanto lenta per la fatica di questo sole che mi batte in testa e sembra volermi sciogliere, o solo per un autolesionistico tentativo di ritardare il rientro.
I negozi sono chiusi, alcuni per ferie altri a tempo indeterminato.
I pensieri girano in tondo, fra questa mia insoddisfazione e quella più generale, che si sente e si respira nella polvere delle strada della piccola cittadina in cui abito. Qui la crisi è arrivata con ritardo, ma con altrettanta lentezza sembra volerci lasciare.
Una volta sognavo anche io di aprire un esercizio, un bar per la precisione. Mi sento quindi particolarmente partecipe agli sforzi di chi ci prova. Li guardo passando e penso, commento mentalmente ciò che vedo.
Qui ha aperto un nuovo negozio… chissà quanto durerà. Questo invece è chiuso, ma non conta: quel grande locale d’angolo è sempre stato sfortunato. Troppo grande, troppo distante dal centro per avere un valore, troppo vicino allo stesso per svalutarsi abbastanza da essere abbordabile come affitto.
Passando ci guardo dentro.
Ci sono entrata una volta sola quando era aperto, anni fa, e mi ricordo come mi avesse colpito per la grandezza spropositata dell’interno. Anche allora era un enorme antro buio pieno di vestiti fuori moda. Ricordo che dava la sensazione di potersi perdere.
Le sue grandi vetrine danno sulla strada, formando un angolo polveroso e opaco a testimonianza della sua età. L’interno talmente profondo che il sole della strada non riesce ad illuminarlo dentro.
Sovrappensiero mi fermo.
Sembra un buco nero. Perfino le pareti sembrano scure come la moquette, anch’essa nera… è come se la luce non riuscisse a penetrare che pochi centimetri oltre la vetrata.
Sarà per la polvere.
Che buffo: è così buio che ferma qui davanti fa quasi fresco. Mi volto e lasciando perdere il negozio deserto riprendo a camminare.
Un passo dietro l’altro oltrepasso la prima vetrinae sono all’angolo.
Per qualche motivo mi volto nuovamente sbirciando dentro. Non c’è il mio riflesso, come dovrebbe essere: fuori è così chiaro e dentro buio che dovrei vedere solo uno specchio perfetto della strada deserta.
Invece vedo distintamente un lembo bianco scomparire dietro… una parete nera? C’è qualcuno lì dentro ed ecco anche spiegato perché non vedo le pareti che ricordo: hanno costruito degli intermezzi scuri… va a sapere perché!
Torno indietro, alla vetrina. Ristrutturare un locale così mal posizionato e tendenzialmente sfigato è proprio un cattivo investimento… farci poi degli intermezzi neri è semplicemente volersi male!
Eppure da vicino non riesco a vedere nessun intermezzo… sembra proprio quello che è sempre stato: una grossa stanza scura e vuota. Se sforzo gli occhi riesco a vederla, la parete in fondo, e intravedo anche l’ingresso ai vecchi spogliatoi e il bancone dove una volta c’era la cassa…
E poi eccolo di nuovo. Ho visto l’orlo di un vestito bianco e una gamba snella e bianca quanto la stoffa. Spiccavano così nettamente su tutto quel buio che li ho visti distintamente, ma ora sono spariti.
E’ come se qualcuno fosse corso da un riparo ad un altro, facendosi vedere per sbaglio. Ma non c’è nessun riparo lì dentro: è semplicemente… vuoto.
Perplessa mi avvicino ancora. Mi appoggio al vetro gelido e sporco e guardo dentro chiedendomi se ci sia un qualche gioco di specchi.
Ma a che pro fare una cosa del genere in un negozio sprangato da anni, mi chiedo.
All’improvviso eccola.
C’è una ragazza dall’altra parte della vetrata. Una ragazzina sui quindici anni, troppo magra e spaventata. I capelli biondi e lisci sono disordinati e tagliati all’altezza delle spalle, ma malamente, come se lo avesse fatto da sola.
Mi guarda con due occhioni scuri, sorpresi e terrorizzati… e sul momento sono così incredula di trovar davvero qualcuno lì dentro che non mi accorgo della cosa più assurda.
Il suo vestito… E’ una di quelle vesti bianche di carta, un camice da sala operatoria di quelli che si infilano davanti con i lacci dietro. La ragazza è a piedi nudi sul pavimento lercio.
Si guarda indietro come se si aspettasse di essere seguita e mi accorgo che ha corso. Il suo petto si alza e si abbassa rivelando il suo affanno.
Si avvicina piano e posa una mano sul vetro, di fronte a me.
“aiutami”
Implorano le labbra mute. Stento a capire, mi limito a guardare quelle dita finissime e bianche sul vetro proprio a un passo da me.
Deve esserci stato un rumore. Io non ho sentito niente ma lei si e si volta di scatto. Sgrana gli occhi ancora di più e urla. La vedo urlare ma non la sento! Vedo il suo terrore mentre si volta e scappa da non so cosa, non so verso dove.
Il negozio la inghiotte di nuovo.
Finalmente mi scuoto e corro alla porta a vetri, che è chiusa dalla saracinesca a grata che è stata tirata giù anni prima e a mia memoria mai rialzata. Mi ci aggrappo con le mani e cerco di tirarla su, ma è chiusa.
E’ l’unica entrata che conosco… griderei aiuto, ma è come se la voce mi si fosse impigliata in gola e la strada è deserta.
Scuoto ancora la grata cercando di sollevarla.
Cosa devo fare? COSA DEVO FARE?
“Aiuto… c’è una ragazza qui…”
Azzardo alla strada vuota. La polizia: mi serve la polizia. Quanto sono stupida!
Sono così agitata che le mani non mi rispondono. Ancora davanti alla vetrina lotto per aprire la borsa e disperatamente cerco il cellulare in mezzo al milione di cose che mi porto dietro ogni giorno, dentro la mia inseparabile borsa valigia.
Finalmente lo trovo.
Il freddo mi attanaglia la mente e le membra mentre mi sfugge e cade. Lo recupero come in trance.
Qual è il numero della polizia?
Non lo so, ma chiamo il 118. Sono abbastanza sotto shock da non preoccuparmi di far brutte figure. Alla persona che risponde spiego, forse urlo, ciò che ho visto. Mi dicono di calmarmi e di ripetere.
Non so quando mi son messa a piangere e singhiozzare, ma mi accordo di far fatica ad articolare le parole. In qualche modo riesco a dare l’indirizzo.
Non ho molta memoria di quel che accade dopo. Cerco di guardare dentro, ma il negozio è vuoto e scuro come sempre… cerco ancora di alzare la grata, ma quella fa solo del fracasso e non si muove.
E questa strada deserta…
Possibile che nessuno senta, che nessuno si affacci?
Finalmente arrivano i carabinieri. Mentre spiego ai due ragazzi in uniforme l’accaduto, arriva anche l’ambulanza… l’ho chiamata io?
Mi sembra che ci voglia un’eternità prima che gli agenti si decidano a forzare la grata e sollevarla. Fa un rumore infermale, salendo nel corsoio, e si blocca a metà altezza. Anche la porta a vetri dell’ingresso oppone più resistenza per l’età e il disuso che non per le pretese di sicurezza.
Non mi fanno entrare ma dall’ingresso guardo dentro.
E’ grande, buio, polveroso, fresco… e innegabilmente vuoto.
Nessun tramezzo scuro. Nessuno specchio.
Nessun rumore, se non quelli che entrano dalla strada dove ora c’è un gran fracasso. Le sirene della polizia prima e dell’ambulanza poi hanno attirato i curiosi. Ora escono, questi maledetti, ma dove erano quando chiedevo aiuto?
Mi dico che è passato troppo tempo e qualunque cosa dovesse succedere alla ragazza che ho visto… ormai è successa. E qui continuano a farmi domande, facendomi ripetere all’infinito le stesse cose.
Gli agenti intanto sono entrati e han perlustrato il locale.
Poiché non c’è verso di tranquillizzarmi alla fine fanno entrare anche me e mi mostrano.
L’enorme stanza vuota che si vede da fuori è nient’altro che questo. La moquette scura è tanto lercia che camminando alziamo nuvolette di polvere intorno ai nostri piedi.
Mi aprono i minuscoli spogliatoi, tirando di lato le tende vecchie riempiendo oltre modo l’aria già satura. Ormai ho il naso completamente intasato dalla sporcizia fine che si è attaccata alle braccia gelate e sudate.
Alla fine mi portano anche nel  magazzino. Si scende una scala di ferro e si arriva in un altro antro deserto e sporco come tutto il resto.
Qui dentro non ci viene nessuno da così tanto tempo che alla luce della lampadina appesa al soffitto, si vede fin dove i carabinieri si sono spinti prima di rendersi conto dell’assurdità della loro ricerca.
Non c’è neanche una porta. Solo qualche scaffale vuoto.
“Un colpo di caldo.”
Mi consolano gli agenti, che sono probabilmente infastiditi, impolverati e accaldati oltre ogni dire, ma abbastanza gentili da non infierire su chi, ancora sotto shock, li ha chiamati senza motivo.
Piano piano vanno via tutti. Il negozio viene chiuso di nuovo.
Restano solo i curiosi e io, gelata, davanti alla vetrina.
Scomparendo l’ambulanza e i carabinieri anche la gente torna alle sue cose. Al frutta e verdura qua davanti che intanto ha riaperto, al bar poco più giù, da cui si affaccia un uomo incuriosito dal trambusto davanti alla sua porta.
Io invece ancora non mi muovo.
Un colpo di caldo, un’allucinazione. Mi vergogno ma… si, può essere. Lì dentro non c’è niente, l’ho visto bene.
Poso il palmo sul vetro che, esposto al sole del mezzogiorno, è caldo.  All’interno la polvere alzata dai nostri passi deve ancora posarsi e vortica nel sole che entra all’interno della vetrina vuota.
Non c’è niente di spaventoso lì dentro. Un’allucinazione, ovvio. Che vergogna.
 
All’inizio non capisco cos'è quel rumore insistente. Devo essere davvero scossa per non riconoscere lo squillo del mio telefono!
Le mani non tremano più mentre lo cerco nuovamente nel bailamme delle caos che mi porto dietro. Il display mi avverte che mio marito si è finalmente accorto della mia assenza.
“Che è successo? Dove sei finita?”
Mi aggredisce, infatti, non appena rispondo. Non so se sia preoccupato o semplicemente incavolato. Sento i bambini sullo sfondo che parlano a voce troppo alta, litigando fra loro.
Cavolo! Deve essere tardissimo e io non avevo lasciato nulla per pranzo.
Con l’orecchio premuto sul telefono mi avvio di fretta, riprendendo la strada bruscamente interrotta.
“Mi dispiace, scusa. C’è stato… un incidente.”
Tentenno appena sulla spiegazione. Di certo non posso dire di aver chiamato la guardia nazionale per un’allucinazione!
“Mi son dovuta fermare a testimoniare. Arrivo subito!”
Assicuro già con il fiatone dopo quei pochissimi passi. Il sudore e la paura mi hanno lasciato addosso un odore acre e insopportabile. Riattacco e mi fermo per riporre il telefono.
Per qualche motivo, rialzando gli occhi, guardo un’ultima volta verso il negozio deserto.
Sono proprio nel punto in cui ho  visto la ragazza, ma ovviamente non c’è nessuno. Non c’è mai stato.
Eppure…
Sul vetro c’è l’impronta di una mano infantile dalle dita fini e delicate. Il lerciume della vetrina è talmente spesso che è rimasta impressa distintamente.
Il freddo mi ripiomba addosso. Sto per alzare la mia mano e appoggiarla nel punto dell’impronta, ma la tiro indietro.
Lì dentro non c’è nessuno. Non c’è mai stato. E’ stato solo un colpo di caldo.
L’impronta c’è, ma io non la vedrò. Non guarderò, se necessario.
Un colpo di caldo e a casa mi aspettano.
 
Con passo spedito mi allontano.
  
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