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Autore: SAranel    28/05/2013    4 recensioni
A volte, il modo migliore per rimediare ad un torto, è ammettere di averlo subito. John, non ne è in grado.
“Vuoi che venga da te, Sherlock?” la mia voce poi dice, senza che io le abbia comandato alcunché. “Adesso, forse?”.
Un respiro che dura un secondo è tutto quello che sento. Sembra che il fiato gli si sia mozzato in gola, preso alla sprovvista. E’ stupido, profondamente insensato da parte mia credere che lui sia ancora inconsapevole che io sappia chi ci sia, dall’altra parte. Probabilmente lo sa. Anzi, sicuramente. E lo fa apposta, così come premedita il suonare melodie odiose in mia compagnia o riempire d’immondizia i miei e i suoi –nostri- libri per il solo gusto di provocarmi dispiacere.
Non risponde. Nemmeno più quel flebile respiro si degna di regalarmi. Tace, non parla ancora, ma resta in linea per quelli che sembrano minuti interi ma che non sono altro che una manciata di istanti. Quando qualcosa si smuove, non faccio in tempo ad assimilare l’emozione dell’udire per la prima volta la sua voce, che tutto finisce.
“No” è tutto quel che dice, prima di riagganciare.[...]
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera sempre mitico fandom!
Per prima cosa, i dovuti ringraziamenti a chi ha recensito, letto o anche solo aperto la storia precedente. Un grazie dal profondo del cuore, davvero, risponderò a tutti prestissimo!
Ritorno con una one-shot che mi ha rubato un bel po’ di pomeriggi, aiutandomi molto a distrarmi da un po’ di pensieri. Spero tantissimo che sia di vostro gradimento!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!

S.

 

 
Blindness (Tell me that you hate me)
*

 


Le mani di Sherlock sembrano danzare, su quel violino.
Le dita reggono l’archetto con la stessa grazia con cui io sfiorerei il volto di un bambino, con la stessa delicatezza che lui stesso riserva alle fragili provette di cristallo del suo set nuovo di zecca. Le corde più grandi vibrano, sotto la carezza di quelle tese di lungo crine, scivolando senza attrito e producendo i primi albori di una melodia a me fin troppo familiare. E’ Bach, non ho dubbi. Chiudendo gli occhi, posso addirittura distinguerne le note, così da poter facilmente indovinare quale brano stia suonando.
E’ l’Allemande, per l’esattezza. Dalla partita n°1 in Sol Minore. Ancora ricordo lo sguardo minaccioso e sbigottito che mi aveva rivolto, tempo fa, quando avevo osato pronunciare quella parola a me sconosciuta con un orrendo e troppo spiccato accento francese. Non sono mai stato bravo con certe cose, neppure a scuola.
Non mi piace. Non l’ho mai sopportato, sin dalla prima volta che l’avevo ascoltato. Ad esser sincero, il mio odio per questa musica è addirittura triplicato, forse –probabilmente- anche a causa di Moriarty. Trovo assurdo che Sherlock possa tollerare un continuo rimando a quei giorni, incredibile la sua indulgenza nei confronti del mare di ricordi che –nonostante lui lo neghi- inevitabilmente lo sommerge ogni volta.
Ho ascoltato questo movimento tante di quelle volte da perdere il conto. Guardare Sherlock imbracciare il suo violino e sfogliare –con veemenza, sempre- le partiture di Bach stampate in inchiostro sbavato, era sempre equivalso –nel personale linguaggio di Sherlock- ad uno sfogo in piena regola, quello che in una persona normale in preda alla frustrazione avrebbe comportato grida, urla ed epiteti di vario genere verso il mondo e verso la propria orribile esistenza.
Non ho bisogno di chiedere a Sherlock cosa sia successo, per capire. Non abbiamo notizie l’uno dell’altro da un bel po’ di tempo. A volte mi domando se non dia per scontato il mio elemosinare informazioni da Scotland Yard, ogni qual volta continua ad ostinarsi nel suo mutismo.
Sono in casa da dieci minuti, comunque, e lui non si è voltato verso di me nemmeno una volta. Finge di non avermi visto ma non è bravo, o almeno, non lo è più. Sta perdendo colpi, forse, col passar del tempo. O forse qualcosa ho davvero imparato, dalla nostra lunga amicizia.
E’ arrabbiato con me. So che non si volterà per i prossimi dieci minuti ancora, come so che non mi confesserà mai i suoi pensieri nemmeno sotto tortura. Si limiterà a farmi sentire in colpa, come fa ogni volta. Come sempre, poi, non mi metterà al corrente delle mie colpe. Secondo lui, il peccato non è mai importante quanto l’insistenza del peccatore nel perseverare nei suoi sbagli.
Ho smesso di chiedermi quale sia l’esatto ordine delle sue priorità. Ho smesso di domandarmi se ne possedesse davvero uno il giorno in cui aveva ringraziato calorosamente un assassino –con tanto di stretta di mano- per avergli permesso di saltare una noiosissima cena con suo fratello.
La notizia della nascita del mio nipotino non lo aveva scalfito un minimo. Neppure accompagnata da mille scuse, da mille ‘A Mary sarebbe piaciuto tanto, è sua sorella’, da milioni di ‘giuro che sarò con te la prossima volta’. Nemmeno il mio ‘sai quanto mi costa, dirti di no’ aveva sortito l’effetto desiderato. Eppure, era stata l’affermazione più sincera di tutte quante. Questo lui non lo sa.
Non parlo né annuncio la mia già palese presenza, dirigendomi verso la cucina a passo spedito. Apro e chiudo la credenza, tirando un sospiro di sollievo di fronte all’evidente mancanza di moncherini umani, poi afferro il bollitore già pieno d’acqua, girando la manopola del gas. Tiro fuori il contenuto della mia tasca, assicurandomi che la scatoletta non abbia subito gravi danni, e l’appoggio sul ripiano in formica, versando uno strato abbastanza alto di foglie scure sulla base della teiera sbeccata. Sherlock ancora si ostina a non volerla sostituire.
La musica dal salotto si ferma, una frazione di tempo così minuscola da non poter essere quantificata, per poi riprendere un momento dopo. Sembra quasi che Sherlock abbia ceduto, in un attimo di debolezza, alla curiosità di dedurre –senza degnarmi di uno sguardo- cosa io stia facendo.
Quando l’acqua bolle, cercando in ogni modo di non sorridere alla testardaggine dell’uomo in salotto, la verso nella teiera, lasciando che l’aroma pungente delle foglie le doni il suo sapore caratteristico.
Sherlock si ferma di nuovo e io sorrido di rimando, percependo la sua difficoltà nell’ignorarmi ancora. La musica ricomincia, dopo la brusca interruzione, ma è un continuo di suoni distorti e lamentosi, come se Sherlock abbia inspiegabilmente dimenticato il modo corretto di impugnare il suo archetto. Provo un piacere quasi colpevole, all’idea di essere l’artefice di quella piccola disfatta.
Quando, alla fine, la melodia lineare si trasforma in un gracchiare fastidioso degno di uno studente di violino alle prime armi, la musica cessa definitivamente e un tonfo, probabilmente il violino gettato malamente sul divano, mi avvisa dell’imminente arrivo di Sherlock in cucina.
La sua figura alta e austera fa capolino sulla soglia nel giro di un istante, limitandosi a lanciarmi un’occhiata veloce prima di sedersi –più che altro stravaccarsi- su una delle sedie di legno. Quella scricchiola sinistramente, sotto il suo –seppur lieve- peso.
Senza parlare sollevo la teiera, ignorando il calore quasi bollente che arrossa le mie dita, versandone il contenuto nelle due tazze e osservando le graziose volute di vapore creare piccole gocce di condensa sui bordi di ceramica.
Sherlock ancora non mi guarda. Sembra trovare i ghirigori astratti del vapore incredibilmente più interessanti di me.
Afferra la sua tazza nello stesso momento in cui io stringo la mia, portandola alla bocca. Assapora il primo sorso della bevanda bollente, dopo aver opportunamente soffiato sulla superficie torbida e cosparsa di piccoli rimasugli di foglie, chiudendo gli occhi e godendosi –impossibilitato a nasconderlo- il sapore pungente e aromatico dell’infuso.
E’ il suo preferito. Vaniglia. L’ho comprato apposta per lui, prima di venire qui.
Fa sempre un piccolo versetto compiaciuto, quando beve una tazza di the preparata da me. Niente a che vedere con l’espressione piatta o disgustata di quando lo prepara da sé o è costretto ad accettare una gentile offerta da parte di un cliente o di suo fratello. Nulla a che vedere con qualsiasi altra al mondo. E’ uno dei miei piccoli, enormemente soddisfacenti vanti personali.
Quando la tazza è vuota e l’espressione compiaciuta scema dal suo volto, il rumore acuto della ceramica che sbatte contro il legno mi costringe a rivolgere nuovamente l’attenzione verso di lui, che smonta le mie fantasticherie come piccoli pezzi di un puzzle.
“Mi hai distratto” lui dice, pulendosi una traccia di the dall’angolo della bocca con la manica del pigiama.
“Certo” dico io, senza il cuore –e la volontà- di contraddire qualsiasi cosa abbia da dire.
Lui annuisce, come se avesse bisogno di rassicurare se stesso sul fatto che avesse effettivamente ragione, che io fossi davvero in torto, che perdonarmi quell’affronto non avrebbe fatto altro che spronarmi a sbagliare di nuovo. Alla fine, proprio mentre sembra raggiungere un solido accordo con la sua coscienza, vacilla di nuovo.
“Non ti ho perdonato” afferma di nuovo, e la sua voce è simile ad un balbettio.
Alzo le spalle, come per fargli silenziosamente comprendere che ho capito, che non mi aspettavo nulla di diverso.
“Lo so” asserisco, annuendo. “Lo so benissimo”.
Lui solleva un sopracciglio e mi guarda attentamente, come per capire meglio se lo stessi prendendo in giro o se davvero credessi nella mia ammissione di colpa.
Vorrei che oggi qualcosa si muovesse.
Vorrei che trovasse il coraggio di dirmi quello che non mi ha ancora detto, da quando è tornato. Vorrei che finalmente parlasse e non si limitasse a darmi colpe che in fondo non ho ma che accetto per non deluderlo, per non rompere quel debolissimo filo che ancora ci unisce.
Tutto ciò che chiedo, è sicurezza: un gesto, una parola, uno sguardo che mi faccia davvero credere in ciò che ho sempre e solo supposto e mai davvero visto.
Forse, però, non serve a niente. Più lo guardo e più mi convinco che forse non ho mai visto nulla perché non c’è mai stato niente da vedere.
Non vengo esaudito. Ci ho fatto l’abitudine ormai, così tanta da non prendermela nemmeno più, anche se ne avrei tutto il diritto.
“Grazie” però sussurra, e sento il cuore salirmi in gola. “Ma non cambia niente” aggiunge ancora, rendendomi di nuovo chiaro ciò che pensa, ciò in cui crede e non crede. Si appropria di un altro pezzettino di me, da aggiungere alla sua personale collezione. Mi chiedo cosa se ne faccia, di tutti quei piccoli frammenti, se non vuole più avermi nella mia interezza. Forse non lo capirò mai.
Si solleva dalla sedia e torna in salotto, dove prende di nuovo in mano il violino portandolo al mento e appoggiandovisi con la dolcezza di un amante. Mi soffermo a guardarlo e a pensare se abbia mai davvero toccato qualcuno nel modo in cui sfiora il legno d’acero e abete del suo strumento. Mi chiedo se sia stata Irene, la prima e l’unica. Mi domando se invece sia stato un uomo, tanto tempo fa, magari all’Università. E’ un pensiero che non mi piace e non mi ci soffermo più di qualche istante. Quando imparerò ad allontanare certe immagini da me, non sarà mai troppo presto.
Comincia a suonare di nuovo, ma non la stessa melodia di poco fa. Mi basta un istante per riconoscere la Partita n°1 in si minore. Questa è peggio di quella precedente.
Non so se riuscirò a restare qui ancora per molto.
Non è successo nulla nemmeno oggi. Solo un altro giorno, altre ventiquattro ore, altro tempo sottratto alla mia vita non più plasmata sulla sua.
Un altro giorno da sbarrare sul mio calendario, con la penna a inchiostro scuro che ben si adatta al colore di giornate come questa. Un’altra croce, un altro numero che domani diverrà illeggibile, così come quello dopo e quello dopo ancora.
Forse dovrò riempire fogli, con quell’inchiostro. Probabilmente, non lascerò mai libera nessuna casella.
Non mi guarda. Non mi segue, non si volta a lanciarmi un’ultima caustica sentenza. Non mi grida di andare all’inferno e non tornare mai più, almeno.
E’ una magra consolazione.
Non gli permetto di vedermi andar via comunque, sgattaiolando lungo i diciassette gradini d’ingresso con l’agilità di una volpe.
E’ uno di quei giorni dove vorrei non saper più pensare.

 

Non mi ha mai chiesto perché non fossi tornato, dopo la morte di Mary.
Non ha mai nemmeno accennato a domandarlo, lasciando che mi crogiolassi nella convinzione che non avesse alcuna intenzione di saperlo, in fondo.
Il giorno del funerale, avevo creduto fino all’ultimo che non sarebbe venuto. Non gli sono mai piaciuti molto i funerali, in fondo. Ha sempre avuto un rapporto unicamente professionale con la morte e mai, nemmeno per suo padre, ha fatto eccezioni. Quando lo avevo visto, seminascosto dietro il largo tronco di un abete, avevo faticato a credere ai miei occhi.
Si era avvicinato a cerimonia conclusa, mentre io ero intento a contemplare lo strato di terra umida e fredda sotto cui mia moglie giaceva, quando ormai il resto della folla era già tornato alle auto per tornare a casa. Non avevo organizzato alcun party. Mi è sempre sembrato orribile onorare la scomparsa di una persona con gozzoviglie simili.
Non c’erano state pacche sulle spalle, né sorrisi di comprensione, né esortazioni a tirarmi su di morale. Nessun ‘ti riprenderai’, ‘vedrai che andrà meglio’ o ‘adesso è più felice’. Neppure un misero ‘mi dispiace’.
Non gliel’avevo fatto neppure notare, allora. In verità, non avevo alcun bisogno della sua finta pietà, in quel momento.
Mi aveva guardato, ma senza alcun calore negli occhi. Mi era sembrato quasi felice per un momento, esibendo per un fugace istante un’espressione di puro sollievo. Ancora oggi mi domando se non fosse stata davvero contentezza, quella nei suoi occhi. Ancora adesso mi chiedo se non l’avessi riconosciuta come tale già allora, decidendo inconsciamente di ignorarla. Mi sento uno stronzo, ogni volta che ci penso.
“Non torno” avevo poi detto, senza che lui avesse chiesto nulla.
Sherlock non aveva risposto e si era limitato a fissare la lapide di mia moglie con sguardo vacuo, come se non la stesse davvero guardando. Si era stretto nel suo cappotto per poi rivolgermi un’occhiata dura, cruda, spietata. Avevo sentito il gelo dei suoi occhi pervadermi completamente, raggelandomi il sangue, impedendomi ogni movimento o replica. Poi era andato via.
Nulla è più tornato come prima, da allora.
Il salotto del 221B è silenzioso e disordinato come al solito, ma non ci faccio più caso, ormai. Mrs Hudson ha insistito perché salissi a controllare, per premurarmi che il mio ex coinquilino non avesse combinato qualcosa di troppo grave (“Lui ascolta solo te, John!”) come l’ultimo piccolo incidente con una delle poltrone. Vorrei tanto che fosse ancora così. Mrs Hudson, forse, non si è ancora accorta di nulla. Forse, tiene troppo a noi per accettare ciò che sta accadendo.
In giro non c’è nulla di troppo pericoloso, o tossico, o corrosivo. Un piccolo contenitore tupperware pieno di zampe di topo troneggia sul tavolino da caffè, ma è lì da così tanto tempo da non rappresentare una minaccia immediata.
Accanto ad esso, poi, sono impilati una decina di vecchi libri, alcuni dei quali presentano pagine ingiallite e macchiate dal tempo.
Tra le pagine martoriate, strappate e legate alla bell’e meglio con cotone da sarta di infima qualità, fanno bella mostra di loro stessi ritagli di giornale, fotografie ridotte in mille pezzi, schegge di legno e vecchie bacchette cinesi recanti il logo del vicino take-away.
Sherlock non ha perso nemmeno quell’abitudine.
Ho sempre odiato la sua mania di usare qualsiasi cosa come segnalibro. Gli avevo ripetuto più di una volta quanto ritenessi sacri i libri, quanto mi facesse male al cuore vedere con quanta gratuita cattiveria egli vi si accanisse, trattandoli a quel modo solo per non perdere cinque minuti del suo tempo a cercare un segnalibro. Sherlock aveva risposto quasi sempre sbuffando, dandomi del fissato, esortandomi a calmarmi e a pensare a qualcosa di davvero importante piuttosto che al modo in cui lui trattava i suoi preziosi tomi scientifici.
Oggi lo ha fatto apposta. Sarei pronto a mettere la mano sul fuoco con la piena sicurezza di trovarne le braci tutt’altro che ardenti. Sapeva che sarei arrivato. E’ come con Bach, l’ultima volta.
Sherlock gode nel farmi male. Peccato che io mi ostini, spinto da qualcosa che ancora non so ma che mi fa star male come mai in vita mia, ad ignorare il suo accanimento. Mi sento ancora colpevole di una colpa non mia ma che ormai ritengo tale. Artefice della rottura di un rapporto unico che per me aveva sempre significato tantissimo.
Sherlock sbuca fuori dalla sua stanza senza che nemmeno me ne accorga e gira l’angolo senza un saluto, salvandosi da un mio rimprovero solo grazie ad un gesto appena accennato del capo.
Raccolgo i suoi –nostri- libri e piego leggermente un’estremità di ogni pagina per tenere il segno, limitando i danni a quell’unica linguetta di carta. Raccolgo le cianfrusaglie sparse tra le pagine e le getto direttamente nel cestino della spazzatura, sperando che lui finalmente parli, anche dicendomi di smettere, di farmi gli affari miei, di tornarmene da dove sono venuto.
Sherlock però mi raggiunge, abbandonandosi alle lusinghe del morbido divano e osservandomi sgobbare come uno schiavetto senza alzare neppure un dito in mio aiuto. Mi guarda con un’espressione indecifrabile in volto, lungi dall’essere rilassato.
“Sei uno sciocco” esclama, rompendo il silenzio e facendomi pentire di aver desiderato che parlasse. “Non è più casa tua”.
E’ vero e non è vero. Chiamo casa un altro posto adesso, e non potrebbe essere più diverso da questo. Le pareti color rosa antico del mio appartamento a Chelsea nulla hanno a che vedere con la fantasia bicromatica di quelle di Baker Street, né sono accomunate da altri dettagli, seppur minimi. Sono due cose talmente diverse che mi chiedo come avessi fatto ad accettare tanto drasticamente il cambiamento, un anno fa. Ho smesso di farmi domande sulle decisioni prese durante la lontananza di Sherlock. Non riuscirei a trovare una risposta coerente, adesso che è di nuovo insieme a me. Metaforicamente.
“Non m’importa” io rispondo perché non voglio dire altro se non la verità. “Per certi versi sei il mio punto fermo” continuo, guardando la piccola catasta di cianfrusaglie che ho raccolto nel cestino. E’ un complimento, quasi. Mi chiedo perché io lo faccia, ma come al solito, non trovo risposta.
Indico la pila di libri e fogli.
“Non sei cambiato di una virgola” dico poi, sforzandomi di sorridere come davanti alla scherzosa marachella di un ragazzino.
Lui non parla, ma la sua espressione contrita è più che eloquente. Si arruffa leggermente i capelli con una mano e affonda nel morbido cuscino del bracciolo, osservandomi con aria strafottente.
Tu sei cambiato” Sherlock mi dice, e la sua lingua pare quasi sibilare. “Abbastanza per tutti e due”.
Non distoglie lo sguardo da me e io incasso l’ennesimo colpo, rassegnandomi alla mia totale impotenza di fronte ai suoi insulti e alle sue recriminazioni.
Sono un uomo abituato a lavorare con la vita e la morte, un uomo capace di distinguere un’arma da un’altra senza aver ricevuto alcun insegnamento se non dall’esperienza. Sono capace di uccidere a sangue freddo e in grado di colpire evitando accuratamente ogni organo vitale, col solo scopo di recare più male possibile. Eppure, Sherlock mi annulla.
Penso in continuazione al suo atteggiamento nei miei confronti e all’apatia con cui io rispondo al suo attacco. Non ho mai desiderato fargli del male, per quanto avessi cercato di provare rancore verso di lui. La mia tolleranza è forse peggiore dell’odio, in qualche maniera.
Mi pongo di nuovo una domanda, quella che ormai chiamo la mia domanda.
Perché non mi chiede di tornare?
La risposta non tarda ad arrivare. Non lo fa mai.
Lui non ti vuole’ una voce, la solita, picchietta nella mia testa come il becco di un uccello fastidioso.
Per lungo tempo, la risposta di quella vocina era stata un’altra. Mi sembra così lontana che a volte fatico a credere di aver addotto quella motivazione come scusa.
Sarebbe orribile nei confronti di Mary’ mi ero detto. ‘Un affronto alla sua memoria’.
Non so esattamente quando io sia diventato così cinico e irriconoscente nei confronti della mia defunta moglie. Fatto sta che ad oggi, il pensiero di Mary riguardo questo argomento non mi sfiora più, nemmeno un po’, neppure minimamente.
Tutto quello che voglio è che Sherlock parli con me, e non per impormi di seguirlo in un caso o per chiedermi di prenotare –solo per lui- un tavolo da Angelo perché troppo occupato a pensare. L’ho seguito, ogni volta che mi ha chiesto di farlo, accettando il drastico cambiamento anche in quel determinato rapporto lavorativo, accettando il suo mutismo e il suo tenermi accanto per semplice vezzo, perché ormai troppo abituato alla mia presenza per poterne fare a meno. Mi sento uno stupido giocattolo, ogni volta che mi tratta in quel modo. Non sa nulla nemmeno di questo e, forse, non lo saprà mai.
Finora, non mi ha mai accontentato. Da quando Mary è morta, discorsi più lunghi di un semplice botta e risposta potrebbero essere contati sulle dita di una mano. Sarebbe così facile, in fondo. Basterebbe un niente, un po’ di coraggio, quello che ostenta in qualunque occasione ma che non ha mai abbastanza fegato di mostrare con me.
Non so perché ma gli sorrido, come se non avesse appena mosso una dolorosa accusa nei miei confronti. Annuisco e rinuncio alla possibilità di restare con lui questa sera, magari proponendogli di comprare qualcosa al nuovo Thai aperto all’angolo. Mi allontano da lui rinunciando ad un’altra serata fatta di silenzi e di sguardi che nessuno dei due avrebbe mai ammesso di aver lanciato verso l’altro, ad un’altra nottata da passare sullo stesso divano ma a chilometri di distanza, fissando figure nel televisore che nessuno dei due avrebbe davvero guardato. Eppure, mi sembra ancora un’occasione mancata.
“Buonanotte, Sherlock” mi limito a dire, nemmeno ad alta voce. Tanto, probabilmente, non mi risponderà comunque.
Lui mi guarda, poi china lo sguardo. Bisbiglia qualcosa tra sé e sé, tenendo gli occhi bassi. La sua voce è così bassa che non riesco a carpire neppure una parola di senso compiuto, in quel borbottio.
“Ciao, Sherlock” dico di nuovo e non so neppure perché io ci provi ancora.
L’aria della notte è fredda, molto più degli altri giorni. Una volta mi piaceva sentire le folate pungenti contro il mio viso, consapevole che una volta tornato a casa le mie guance arrossate avrebbero fatto ridere Sherlock, spingendolo a prendermi un po’ in giro.
Adesso, mi accontenterei anche del più misero sorriso.
Non lo ricordo più, il suo sorriso.

 

Il televisore davanti a me è spento ma io continuo a guardarlo, senza un motivo apparente. Sembra quasi che, riflesso sulla superficie piatta dello schermo, ci sia qualcosa –cosa, non saprei- che mi impedisce di distogliervi lo sguardo.
Una fugace immagine di me e Mary intenti a scegliere quel televisore al negozio, millenni fa, attraversa la mia mente a velocità folle, scomparendo in un battito di ciglia. Ciò che quel ricordo mi lascia, nulla ha a che vedere con la nostalgia, il rimpianto, il desiderio di poter tornare indietro. E’ una fitta alla testa, lancinante, come quella provocata dal sibilo di un proiettile che ti sfiora appena ma che non ti colpisce. E’ fastidioso e bruciante, come quando urti uno spigolo con un piede e il dolore è tanto forte da lasciarti senza fiato, senza nemmeno la forza di urlare. Più mi dico di non pensarci, più la mia mente si sofferma su certe immagini. Ma forse, è solo il John di una volta che si ribella di fronte all’essere vigliacco e senza cuore che sono adesso. Probabilmente è solo la mia coscienza che non riesce più a guardarmi in faccia senza aver voglia di colpirmi, per essermi macchiato del crimine più orribile di tutta la mia esistenza.
L’indifferenza.
C’era stato un troppo breve momento, quando tornato a casa mia ero stato accolto da un silenzio quasi irreale, in cui avevo creduto di non poter sopportare ancora una volta ciò che avevo –in maniera diversa- affrontato con Sherlock mesi e mesi prima. La rabbia iniziale era andata via via scemando, col passare incessante dei giorni, lasciando spazio al dolore –rapido anch’esso- e ad un sentimento che ancor oggi non saprei affatto definire. Troppa frustrazione, avevo pensato all’inizio. Troppo poca, ero stato costretto ad ammettere a me stesso, dopo.
Solo in seguito poi, era arrivata la consapevolezza che nulla stava andando come sarebbe dovuto andare.
Mary era scivolata via dai miei pensieri troppo facilmente, troppo presto, senza alcuno strascico di nostalgia e rimorso. Senza nemmeno un briciolo della sofferenza che avevo sempre creduto mi avrebbe accompagnato nella mia vita futura senza di lei.
L’avevo lasciata indietro, procedendo nella mia vita come se lei non fosse mai esistita, come se non ci fossimo mai spinti al di là di un bacio, come se lei fosse stata soltanto una delle tante. E’ strano pensare come l’unica costante della mia vita, prima, durante e dopo di lei, sia sempre stata Sherlock.
Mi sento ancora adesso uno stupido, un ingrato, un marito che -da esterno- non avrei esitato a definire irriconoscente oltre ogni limite.
Non riesco a cambiare, comunque. Per quanto io m’impegni, per quanto io cerchi di porre rimedio al mio errore, tutto è ancora, esattamente, come prima. Senso di colpa, ma nessuna effettiva volontà di cambiare questa realtà. Non ce la faccio. E’ più forte di me.
Il telefono squilla ed è grazie ad esso che il mio cuore e il mio cervello trovano conforto dalla tortura a cui li sto costringendo. Dalla poltrona su cui sono seduto afferro la cornetta al volo, quando il trillo è all’apice del suo volume, portandola all’orecchio con il sollievo di chi è alla ricerca di una qualunque distrazione.
Ma c’è solo silenzio, dall’altra parte.
Non sento nemmeno un rumore, il sibilo di un respiro o un colpo di tosse accidentale. C’è un ronzio in sottofondo, un fruscio sommesso che potrebbe tranquillamente provenire dal cavo telefonico ma che io so –senza alcuna ombra di dubbio- appartenere al vecchio apparecchio a disco del 221B.
Non è la prima volta che succede e sono pronto a scommettere, anche tutto quello che possiedo, che non sarà l’ultima. E’ sempre così. Silenzio, solo quello. Quando sono fortunato, un sussurro che neppure riesco a distinguere.
Rimango ad ascoltare e sento la rabbia montare lentamente dentro di me, ben consapevole che non potrò sfogarla, che non riuscirò, che come al solito mi fermerò esattamente un istante prima di gridargli contro che è un’idiota, uno sciocco, un bastardo.
Ascolto quel nulla dall’altra parte del cavo e quasi scoppio a ridere nell’immaginarlo trattenere il respiro, non trovando neppure così strana la possibilità che possa davvero trattenerlo tanto a lungo. Nulla più mi sconvolge, pensando a Sherlock.
Vorrei dirgli tante di quelle cose, in questo momento. Cose terribili. Insulti. Recriminazioni, forse. Non riesco a pronunciare neppure un saluto, invece.
Desidererei che parlasse, una volta per tutte. Che mi dicesse, anche attraverso una fredda conversazione telefonica, quello che aspetto da così tanto tempo e che lui non sembra volermi concedere. Vorrei che mi parlasse, prima di ogni cosa, con quella sua chiacchiera sciolta, veloce, pungente, come non fa da secoli. Anche a costo di subire le sue piccole prese in giro, l’ennesima umiliazione o un altro dei suoi bruschi rimproveri sulle mie molteplici incapacità, io non desidero altro che sentirlo nuovamente parlare con me come in passato. Mi accontenterei. Mi basterebbe per tutta la vita.
Odio quando fa così. Odio che m’illuda, che mi lasci intravedere uno spiraglio lì dove non esiste, che mi faccia scorgere una porta socchiusa alla fine di un lungo corridoio per poi sbattermela in faccia appena arrivato davanti alla soglia.
“Vuoi che venga da te, Sherlock?” la mia voce poi dice, senza che io le abbia comandato alcunché. “Adesso, forse?”.
Un respiro che dura un secondo è tutto quello che sento. Sembra che il fiato gli si sia mozzato in gola, preso alla sprovvista. E’ stupido, profondamente insensato da parte mia credere che lui sia ancora inconsapevole che io sappia chi ci sia, dall’altra parte. Probabilmente lo sa. Anzi, sicuramente. E lo fa apposta, così come premedita il suonare melodie odiose in mia compagnia o riempire d’immondizia i miei e i suoi –nostri- libri per il solo gusto di provocarmi dispiacere.
Non risponde. Nemmeno più quel flebile respiro si degna di regalarmi. Tace, non parla ancora, ma resta in linea per quelli che sembrano minuti interi ma che non sono altro che una manciata di istanti. Quando qualcosa si smuove, non faccio in tempo ad assimilare l’emozione dell’udire per la prima volta la sua voce, che tutto finisce.
“No” è tutto quel che dice, prima di riagganciare.
Rimango con la cornetta tra le mani, ad ascoltare il suono incessante della comunicazione interrotta, come se tra quei suoni acuti e cantilenanti potessi scorgere ancora un segno della sua presenza. Non c’è niente, però, ad aspettarmi. Nessuna possibilità che un nuovo secco fruscio possa riportare a galla le mie vane speranze.
Chiudo il telefono violentemente e poco m’importa che si sia rotto o che abbia subito chissà quale danno. Se solo potessi, lo calpesterei con tanta veemenza da renderlo inutilizzabile.
“Vaffanculo” sussurro tra me e me, mentre afferro i braccioli della poltrona per evitare di tramutare quel desiderio in realtà.
Ho smesso di chiedermi perché senta il bisogno di continuare una battaglia persa in partenza. Ho rinunciato a comprendere la parte di me stesso che continua ad ostinarsi in una lotta ad armi impari che probabilmente finirà per uccidermi.
“Stronzo” dico ancora, sfogando per la prima volta la mia rabbia verso di lui. “Figlio di puttana”.
Ad ascoltarmi, solo i muri silenziosi del mio salotto. A raccogliere il mio odio e la mia collera, solo l’oscurità della sera filtrata dai vetri delle finestre, appannati dalla nebbia.

E’ passato un anno.
No, non dalla caduta. Ormai ho smesso –ho fatto forza su me stesso, sarebbe meglio dire- di tener conto di quel determinato anniversario. Non avrebbe comunque alcun senso, ormai.
Dodici mesi fa, ho sentito l’ultimo respiro di Mary sfiorare la mia mano, come chiedendomi fino all’ultimo di raccoglierlo, di custodirlo, di non lasciarlo mai andare.
Ho timore che qualcuno possa ancora chiedermi come fosse, quel respiro. Se sulla mia pelle lo avessi percepito caldo, freddo, stentato. Ho paura che qualcuno possa ancora domandarmi, dopo tutto questo tempo, se Mary avesse intramezzato quel soffio di fiato con gemiti incomprensibili e forse nemmeno destinati a me. Non ricordo niente, se non il completo silenzio, dopo quell’ultimo anelito di vita. Non saprei nemmeno dire per quanto avessi tenuto la sua mano nella mia, se l’avessi effettivamente stretta o invece lasciata andare subito dopo, in un moto d’ira e negazione. Non ricordo nemmeno di aver visto il colore scemare dalle sue labbra già troppo chiare.
Le lenzuola del mio letto sono umide, bagnate del mio sudore. Sono quelle di lino a maglia grossa del corredo di mia moglie, quelle che mi ostino ancora ad usare nonostante l’estate ormai alle soglie. Lo vedo come il dovere di un marito mai comportatosi come tale.
Per quanto basterebbe questo ricordo a giustificare la mia insonnia, essa non dipende dal rimorso, o dal caldo, o dall’incubo che ha tormentato la mia scarsa mezz’ora di dormiveglia. Un clacson dalla strada continua imperterrito a suonare, forse un tassista alle prese con un cliente troppo sbronzo, ma anche quello è l’ultimo dei miei problemi.
Non vedo Sherlock da un mese.
Nemmeno un messaggio, nemmeno due righe, nemmeno quelle sue odiose ‘S.H’ a farmi sapere che stava bene, che non avrei dovuto preoccuparmi, che ero il solito idiota senza alcuna fiducia nelle sue capacità. Solo silenzio. E da Mycroft, solo porte in faccia e innumerevoli ‘è sotto controllo’. Peccato che non mi basti. Non riesco più a fidarmi di nulla senza una prova tangibile, come un novello San Tommaso.
La convinzione che ogni sua azione sia mirata a provocarmi apprensione si è ormai insinuata nel mio cervello e non accenna a volersene andare. La sicurezza che il suo comportamento sia strettamente legato alla mia soglia di sopportazione non ha più bisogno di conferme o ulteriori dimostrazioni, da parte sua.
Ed io continuo a non reagire, crogiolandomi nella mia indolenza, continuando a giustificare le sue azioni come se fossero del tutto normali, come se io sentissi di meritare un simile trattamento. Tutto, nella speranza che lui finalmente parli. Che, dopo tutto questo tempo, si decida finalmente a confessarmi quel desiderio che un tempo credevo celasse dentro di lui e che -probabilmente- è sempre e solo stato frutto della mia fervida immaginazione. Mi rifiuto di credere che abbia voluto troncare ogni rapporto, comunque. Non voglio nemmeno lontanamente credere alla possibilità che abbia voluto tranciare di netto il filo sottile che ancora ci lega, nonostante sia un misero intreccio di freddezza, austerità e seriosa professionalità.
Ho sempre desiderato vivere una vita serena. E’ strano pensare come proprio le due persone che avevo creduto sarebbero riuscite ad esaudire il mio desiderio, si siano rivelate le artefici del suo completo disfacimento.
Sherlock sa quanto io odi non sapere. Conosce ogni retroscena della mia avversione, ogni dettaglio, ogni giustificazione addotta a mille liti, sfuriate e porte sbattute in faccia. E’ stato quasi più bravo di Ella, nello psicanalizzarmi. Dopotutto però, è più bravo di lei in qualsiasi cosa.
Sa del Tenente Miles¹, della spasmodica attesa, delle ore vissute nel limbo infernale dell’ignoto. Gli avevo raccontato tutto, tra le lacrime strascico dell’ennesimo incubo, riguardo l’attesa del suo ritorno, la speranza che non fosse accaduto nulla, la stessa che aveva spinto me e i miei commilitoni ad interpretare quel silenzio come un buon segno piuttosto che come il muto annuncio di una morte ormai certa.
Ero stato felice, allora, delle parole di conforto con cui mi aveva sorpreso e consolato.
Ero stato contento di aver condiviso un pezzo della mia vecchia vita con la persona più importante di quella nuova, lieto che non avesse liquidato le mie parole con un invito a crescere e dimenticare. Compiaciuto di non aver trovato un muro di austerità ad accogliermi ma un varco, un passaggio per nulla difficile da attraversare.
Adesso capisco di non esserci mai passato davvero, attraverso quella barriera.
Solo adesso, con il suo implicito desiderio di farmi vivere ancora un incubo come quello di tanti anni fa, mi accorgo che contro quel muro, mi ci sono schiantato.
Con violenza, brutalità, dolore, forse. Così tanto da non sentirlo nemmeno.
Mi rendo conto, in questo momento, di come quell’inesistente via d’uscita io l’avessi soltanto immaginata, in un’illusione di salvezza appena prima dell’urto.
Mi accorgo solo ora, mentre le lenzuola ancora bruciano contro la mia pelle, di essere probabilmente morto in quello schianto.

 

E’ nel cazzo di laboratorio.
Nemmeno mi guarda. Sta chino sul suo microscopio, giocherellando con la manopola dello zoom come se io non fossi presente e lui non vedesse altro che il mobilio, guardando nella mia direzione. Come se neppure percepisse la mia presenza, come se non fossi minimamente importante quanto qualunque cosa tenga sotto quel fottuto vetrino illuminato. Io non parlo. Non ho la minima intenzione di essere quello pronto ad elemosinare un minimo cenno di saluto. Ha perso il diritto di esigere da me una cosa simile, ammesso che l’abbia mai avuto.
Dopo qualche minuto, chiudo la porta del laboratorio dietro di me facendo più rumore possibile, desiderando distrarlo da quanto sta facendo. Nulla mi soddisferebbe di più che rovinare qualunque cosa si stia rivelando più interessante di me in questa stanza, più degno d’attenzione del suo migliore amico, di un uomo distrutto che ha costretto a ore –giorni- di pura angoscia, preoccupazione, ansia per la sua sorte.
La porta sembra sortire l’effetto desiderato. Alza finalmente lo sguardo, colto di sorpresa dallo schiocco secco del legno contro legno e rendendosi conto, finalmente, di non essere solo nell’enorme stanzone.
Ha saputo di me sin dall’inizio. Ha volutamente deciso di ignorarmi, nascondendosi dietro l’apparenza dello scienziato completamente isolatosi dal resto del mondo. Ho imparato a riconoscere una menzogna. Anche se magistralmente celata sul volto impassibile di Sherlock Holmes.
“John” è tutto ciò che decide di offrirmi. Il mio nome accompagnato da un sentimento simile al disprezzo, come se sussurrato a discapito di un ‘lasciami in pace’.
“Sherlock” io rispondo, dovendoglielo. Ha parlato per primo, dopotutto.
Mi scruta, mi studia, mi osserva come fossi una cavia da laboratorio particolarmente riottosa e poco incline alla collaborazione. I suoi occhi sembrano volermi dilaniare come se muniti di unghie e artigli, così freddi da sembrarmi inumani per un momento. Dio, vorrei colpirlo. Con tutta la forza che da troppo tempo non trova sfogo.
“Ti sono mancato?” poi lui dice, con il solo e mirato intento di innervosirmi. “Sono stato da Molly per un po’”.
Da Molly per un po’. La prima cosa che dovrei chiedermi è come mai Molly non me ne abbia parlato, come mai non mi abbia avvisato, perché cazzo non abbia accennato –durante le nostre sporadiche telefonate- al fatto che Sherlock fosse a casa sua.
Non mi fido più di lei da quando è successo. Mi ha chiesto scusa, ma ancora non ci riesco, ancora non sono in grado di guardarla senza ricordare ciò che ha fatto.
Questo non fa che avvalorare la mia sfiducia nei suoi confronti. Non ha mai saputo dirgli di no. Nel bene e nel male.
Mi ripeto di non pensarci per stare meglio, per non infuriarmi tanto da sentirmi male fisicamente. Già adesso il cuore mi martella nel petto, rimbombando nella mia testa con tonfi sordi e dolorosi.
“Credevo fossi morto” gli dico, ma non gli chiedo cosa abbia fatto da Molly, per tutto quel tempo. Non ho intenzione di abbassarmi al suo livello. Non voglio che legga dentro di me quanto invece vorrei saperlo.
“Una lunga assenza non implica per forza un risvolto tragico” è la sua fredda risposta, la sua voce impostata su un tono impersonale e quasi irritato.
“Credevo che per te le due cose andassero di pari passo” esclamo in risposta. Affondo il mio coltello, incurante di dove andrà a colpire. Voglio fargli male, dove è irrilevante.
Lo sguardo che mi rivolge è tagliente quanto un rasoio appena affilato sulla sua coramella. La ferita che i suoi occhi m’infliggono è quasi pari a quella che gli ho appena provocato, in una sorta di spietato duello all’ultimo sangue.
E’ strano, quello che sta succedendo.
Per un anno intero ho sperato che, dimostrando la mia buona volontà nei suoi confronti, tutto sarebbe tornato come prima. Per più di dodici mesi -lunghi quanto dodici anni- ho tollerato il suo comportamento insofferente nei miei confronti nascondendomi dietro un sorriso, dietro una parola dolce, ostentando una felicità mai veramente provata. Una serenità che ha sempre e solo fatto da maschera ad un dolore profondo e talmente radicato nel mio essere da sembrare impossibile da estirpare.
Ho pensato che così tutto sarebbe cambiato, che Sherlock avrebbe finalmente capito, dimenticando il nostro passato e decidendo di ricominciare una vita nuova. Mi sono messo dalla parte del torto, ignorando l’umiliazione di dovermi fingere colpevole di un crimine mai commesso per proteggere lui, mai stato abbastanza coraggioso da confessare il proprio delitto.
Sono stato uno stupido, ho gettato la mia dignità sotto i piedi solo per lui. Senza venir ripagato nemmeno del più insignificante dei miei sforzi.
“Per l’amor del cielo, John” lui poi mi dice, scuotendo la testa. “Hai sopportato tre anni. Credevo fossi in grado di tollerare qualche misero giorno”.
Sopportare. Lui sembra non aver ben chiaro il significato esatto di questo verbo, probabilmente credendolo un mero sinonimo di aspettare, attendere. Superare, magari.
Subire, patire, soffrire vorrei gridargli in faccia, ma senza la forza di farlo per davvero.
Per un istante, mi rendo conto di come questo sia il primo straccio di conversazione vera dopo più di un anno, tra noi.
“Dio, Sherlock” io biascico, trovando appena la forza di parlare, bramoso solo di macchiare le mie nocche del suo sangue. “Sei orribile”.
Lui resta impassibile. Si volta verso il microscopio e lo sposta leggermente verso il bordo del tavolo, come se non volesse rischiare di compromettere il suo prezioso studio a causa mia.
“Sei pieno di rancore” afferma l’ovvio, poi. “Mi odi, John?” poi mi chiede, cogliendomi del tutto impreparato. O meglio, non abbastanza preparato per la risposta fin troppo lunga che vorrei dargli.
Vorrei raccontargli di ogni bugia nascosta dietro finti sorrisi. Di ogni buon viso a cattivo gioco ostentato solo per fargli piacere, per spingerlo a sorridere di nuovo, a perdonarmi di essermi rifatto una vita con qualcun altro. Nonostante noi una vita insieme non l’avessimo mai avuta.
Non desidererei altro che parlargli delle domande che avrei tanto voluto fargli e che mai mi aveva permesso di porgli, dei mille ‘domani andrà meglio’ che mi ero ripetuto non credendoci mai davvero.
“No” gli dico poi, e la mia risposta sorprende me per primo. “Odio quello che sei diventato”.
Io non odio Sherlock, in fondo. Non odio i suoi occhi azzurri che sono i più belli del mondo, non odio le sue mani che sembrano plasmate per fondersi al suo violino, non odio il suo modo di alzare il colletto del cappotto per darsi un’aria misteriosa. Non odio i suoi capelli, che a volte accarezzavo senza nemmeno farci caso, quando si addormentava sulla sua poltrona con la testa rivolta verso il divano. Non odio le sue labbra, né lo sporadico sorriso che conosco solo io e forse Lestrade.
Sherlock non risponde. I suoi occhi perdono ogni parvenza di durezza, nell’intervallo di tempo di un istante. Solleva di più le palpebre e apre leggermente la bocca, passandosi la lingua sulle labbra come per pregustare qualcosa che non riesco a vedere.
Io non voglio aspettare. Ho aspettato fin troppo.
“Odio il fatto che tu non abbia più cercato alcun dialogo con me, da quando sei tornato. Odio il fatto che tu mi abbia colpevolizzato di qualcosa che non ho mai commesso, che tu mi abbia fatto pesare una vita intrapresa solo nel tentativo di sopportare la tua mancanza” adesso sto gridando e forse l’intero piano può sentirmi, ma non me ne frega niente, non in questo momento. “Non sopporto il fatto che tu non mi abbia concesso nemmeno una fottuta parola di conforto al funerale di Mary. Detesto Bach e il tuo continuare a suonarlo in mia presenza, così come non tollero la tua mania di usare qualunque cosa per tenere il segno sui nostri libri. Non sopporto le tue telefonate silenziose e il tuo non rispondere mai alle mie quando nulla mi farebbe più felice, e credimi Sherlock, che sentire la tua voce all’altro capo del filo”.
Non posso guardarlo. Mi vergogno, nonostante non ne abbia motivo.
“Odio non sentirti per tanto tempo. Odio ogni momento in cui non ci sei e mi rendo conto di non poterti cercare. Non sopporto il fatto che tu sparisca da un momento all’altro comportandoti come se io non fossi mai esistito, senza degnarti nemmeno di dirmi che stai bene, che tornerai presto o che, probabilmente, sarai impegnato ancora per qualche giorno. Ti ho sempre fatto pesare il tuo continuo mandarmi messaggi, anche per le cose più stupide. Sono stato io, lo stupido. Quello che davvero mi fa sentire male adesso, male come nemmeno ti immagini, è non sentire più quel suono snervante, seguito dalla certezza di una tua parola, anche la più sciocca. Mi sarebbe bastato anche uno solo di quei messaggi. Solo quello, e non ti avrei chiesto nient’altro”.
Ho bisogno di prendere fiato.
“E, alla fine di tutto, odio aver messo da parte Mary. Odio aver imposto su di lei la tua immagine, ho disgusto di me stesso per averla lasciata semplicemente andare. Per aver sempre e solo, anche dopo la sua morte” Se potessi, se solo avessi la capacità di farlo, catturerei nei miei polmoni tutto l’ossigeno presente in questa stanza. “…voluto te al mio fianco, prima di chiunque altro. Prima di lei. Quasi trovando sollievo nella sua scomparsa, un modo per far sì che le cose tornassero come prima”.
Voglio parlare, adesso che ho trovato la forza, il coraggio. Mi sono messo in gioco e accetterò qualunque verdetto. Perdere non mi spaventa. Non ho più nulla, in fondo.
Sherlock non ha distolto per un secondo gli occhi da me. Il microscopio ha perso ogni interesse, così come la piccola tabella scarabocchiata a penna, alla stessa maniera di qualunque altra cosa nella stanza non sia io.
Mi guarda come mi aveva guardato quella prima volta in questo stesso luogo, con la stessa curiosità mista ad interesse che avevo letto nei suoi occhi quel giorno. Mi fissa come se mi ritrovasse oggi dopo vent’anni di lontananza, mappando ogni particolare del mio corpo come per valutare quanto io fossi cambiato durante tutto quel tempo. Ogni tratto del suo volto è pregno d’insicurezza –i suoi occhi sono socchiusi, quasi intimiditi-  e allo stesso tempo di un’emozione a me sconosciuta.
Sembra un’altra persona rispetto all’uomo distaccato e arrogante di poco fa. Sembra uno Sherlock del tutto nuovo, un se stesso che non ho mai conosciuto e che vedo adesso per la prima volta, che nulla più conserva di quello vecchio se non il corpo e le fattezze.
“Oh, John” Sorride. “Tu non hai idea di quanto io odi te, quasi allo stesso modo”.
La sua risposta è raggelante, inaspettata, troppo forte perché io possa incassarla senza alcuna reazione. Non è quello che mi sarei aspettato, nemmeno lontanamente.
E’ il sentimento sbagliato, non quello che avrei desiderato ci accomunasse, non certo uno di quelli che avevo sempre sperato avremmo condiviso.
Voglio sapere. Allo stesso tempo però, è l’ultima cosa che desidero.
Lui si avvicina. Una nota acidula appena accennata ha preso il posto del profumo dolciastro e costoso che indossa sempre. Mi chiedo quando abbia deciso di cambiarlo. Non so più davvero niente, di lui.
“Io, John” lui finalmente parla, poggiato al bancone più vicino ma comunque ben lontano. “Io odio il tuo odio”.
La lingua è nuovamente sulle labbra, adesso. In altri tempi mi sarebbe piaciuto pensare di avergli passato io quella piccola mania. C’è ghiaccio nei suoi occhi, ma non freddezza. E’ tutto stranamente caldo, adesso. La cosa mi spiazza ma non riesce a confortarmi, neanche un po’, praticamente per niente. Ho paura.
Parla. Finalmente Sherlock mi sta parlando e io sono troppo spaventato per essere sicuro di reagire come una persona razionale. Sono un fottuto idiota.
Sherlock è più vicino. Non mi sono nemmeno accorto dei suoi passi.
“Sai cosa non sopporto, John? Che tu ti sia limitato a detestare Bach. Che tu sia rimasto ad ascoltarmi senza dire niente, sorridendo quando avresti dovuto gridarmi contro di smetterla. Che tu sia venuto da me con la tua tazza di the, accettando la mia ennesima porta in faccia senza minimamente opporti” Sherlock dice, a ruota libera, cercando i miei occhi ogni qual volta li distolgo dai suoi. Il mio respiro si fa più stentato, affaticato, come quello di un vecchio a cui ormai pesa anche il minimo sforzo. Anche il semplice reggersi in piedi.
“Odio che tu non mi abbia fatto veramente capire quanto tenessi ai tuoi libri, limitandomi a darmi un buffetto sulla guancia come avessi due anni. Odio che tu non mi abbia chiamato stronzo, figlio di puttana, bastardo insensibile al telefono dopo aver capito chi io fossi, dopo esserti reso conto del fatto che fossi io ogni maledetta volta. Odio che tu non mi abbia cercato in lungo e in largo, John, per la tua sciocca paura di ferirmi. Odio i tuoi falsi sorrisi, la tua ipocrisia, il tuo ostinarti a volermi compiacere nella speranza di un perdono di cui non hai alcun bisogno”.
Respiri. Il mio e il suo, all’unisono. Non so cosa dire. Non so come dirlo. Non so se riuscirò davvero a dire qualcosa, alla fine di tutto questo. Non sento più il cuore. Solo un dolore al centro del petto, che non sembra accennare a diminuire.
“Non sopporto che tu non mi abbia mai accusato di averti distrutto la vita, John. Che tu non mi abbia mai fatto davvero star male per il modo in cui ti ho trattato, ignorandoti quando sei stato il motivo principale di tutto ciò che ho fatto, rifiutandoti di scavare a fondo nel motivo del mio gesto. Odio che tu abbia soltanto voluto cancellare quello che è successo, esigendo da me che tutto tornasse come prima, come se niente fosse. Odio che tu mi abbia permesso di trattare tua moglie, la donna che ti ha salvato, così come ho fatto, come la mia indole ha inevitabilmente dovuto fare. Odio che tu non abbia voluto che io rispondessi, quella volta al suo funerale. Detesto che tu non mi abbia costretto a dirti questo molto ma molto tempo fa”.
Mi chiedo se riesca davvero a fare a meno di respirare. Mi chiedo se io ne avrò mai più bisogno, d’ora in avanti. Mi sento morire, pian piano, crollare pezzo dopo pezzo come un palazzo senza più stabili fondamenta. Vorrei dire così tanto, ma non trovo le parole neppure per dire a me stesso di resistere, di non cedere proprio adesso.
“Odio il senso di colpa che mi ha quasi ucciso, per tre anni interi. Odio il fatto che, al mio ritorno, tu mi abbia ascoltato quasi con disinteresse, come se non fosse successo niente, come se la mia lontananza non avesse minimamente scalfito la tua vita come invece aveva fatto con me. L’importante per te era tornare alla nostra vecchia vita, fare come se nulla di grave fosse successo, e per quanto mio fratello mi abbia più volte esortato a prenderla come un segno positivo, io non ci ho mai visto niente di buono nella tua indifferenza. Mi hai spinto a pensare che in realtà non te ne sia mai davvero importato di me. Della nostra amicizia. Di quello che c’è sempre stato tra di noi ma che non abbiamo mai davvero visto. Mi hai costretto a credere che se me ne fossi andato un’altra volta, per altri tre anni o anche di più, a te non te ne sarebbe importato, a patto che prima o poi sarei comunque tornato a ristabilire i tuoi equilibri. Anche a costo di fingere per il resto delle nostre esistenze. E’ questo che odio, John. E’ questo il motivo di tutto. Questa l’unica ragione che ha reso quest’ultimo anno un inferno quasi più dei precedenti”.
Ha smesso di parlare. La sua voce rimbomba nelle mie orecchie come l’eco di un violento colpo di gong, come un grido lanciato in un’enorme stanza completamente vuota. Ogni sua parola, ogni frase, ogni minuscola sfumatura del suo tono profondo riempie il mio cervello confondendolo e inasprendo il dolore alle tempie, costringendomi a riascoltarle in continuazione come il nastro inceppato di una vecchia cassetta.
E’ chiaro, lampante, ovvio nella sua complessità. Forse la verità, l’unica e sola, è sempre stata davanti ai miei occhi. Forse, io sono sempre stato troppo impegnato a fingere di desiderarne un’altra, per poterla vedere come è realmente.
Abbiamo combattuto una guerra senza accorgercene, io e lui. La stessa guerra, da avversari convinti di essere invece schierati nella stessa fazione. Abbiamo lottato per lo stesso obiettivo, perseguendo il desiderio di avvicinarci e, invece, allontanandoci ancora di più.
La colpa più grande, in fin dei conti, è solo mia.
Quando lo avevo rivisto, un anno fa, ero stato talmente felice di riaverlo con me che la paura di poterlo perdere ancora aveva prevalso su qualunque altro sentimento. Il sollievo aveva offuscato la rabbia, il risentimento, la frustrazione dovuta a quell’apparente mancanza di fiducia, a quella –almeno in superficie- manifesta dimostrazione di indifferenza verso di me e i miei sentimenti. Avevo deciso di tacere, di non dare mai sfogo a quella domanda che ogni tanto sovveniva alla mia mente e che ogni volta mi affannavo a scacciar via dai miei pensieri; avevo deciso di cancellare quel ‘gli sarà mai importato davvero qualcosa, di me?’ dal mio cuore e dal mio cervello.
Non avevo chiesto, convincendomi di non voler sapere la risposta. Ero venuto a patti con la mia coscienza, costringendomi a resistere, a non sottoporgli quel dubbio che aveva tormentato per tre lunghi anni la mia vita e quella di mia moglie.
E il mio comportamento, che tanto avevo ritenuto opportuno, giusto, il mezzo con il quale avrei ripreso in mano le redini della mia vita, aveva invece sortito l’effetto opposto.
Lui aveva cercato in ogni modo di farmelo capire, lasciando che leggessi tra le righe qualcosa che non ero riuscito a scorgere, gridandomi in faccia il suo dolore e la sua rabbia con piccoli -significativi- gesti che io non avevo inteso. Aveva atteso che io afferrassi il suo polso e lo costringessi a lasciare incompiuta quella melodia tanto odiosa. Aveva fortemente voluto che io gli lanciassi dietro uno di quei famosi libri, esattamente come aveva desiderato che io gli gridassi di parlarmi, a quel telefono, non accontentandomi di ulteriore silenzio. Aveva desiderato con tutto se stesso che, quel pomeriggio al cimitero, io gli domandassi come mai non avesse reagito alle mie parole, come mai non avesse risposto alla mia domanda con un’altra, com’era sempre stato solito fare. Aveva voluto fino all’ultimo che io mi destassi dal mio coma, da quel dormiveglia in cui mi ero rifugiato e che mi stava lentamente logorando, annebbiandomi le idee e influenzando il mio pensiero coerente.
Ed io, mi sono svegliato soltanto adesso.
“Hai capito, John?” Sherlock mi chiede, e il mio sguardo corre immediatamente a cercare il suo. “Lo vedi, ora?”.
Lo vedo. Vedo il contorno di una verità nuova ma sempre esistita. E’ così nitida, vera, reale, che mi costringere a chiudere gli occhi per un istante. La vedo pian piano diventare più solida, riempirsi di immagini, parole, fatti. Di voci, ricordi, sensazioni.
Mi sembra di essere tornato indietro nel tempo, come se fino ad ora avessi solamente sognato, come se nel mio torpore io avessi soltanto immaginato quella che sarebbe stata la mia vita. Questa stanza è diventata improvvisamente il centro del mio Universo, il fulcro su cui tutta la mia vita potrebbe incentrarsi senza farmi rimpiangere mai nessun’altro posto al mondo.
Tra le file di microscopi e scaffali, c’è tutto quello di cui ho, ho avuto e sempre avrò bisogno.
“Sì, Sherlock” gli rispondo, finalmente. “Vedo ogni cosa”.
E Sherlock, finalmente, sorride di nuovo. Non c’è ironia, né distacco, né qualunque altro sentimento mirato a ferirmi. C’è solo il sorriso di uno Sherlock felice.
Non lo stesso sorriso che aveva addolcito i suoi tratti dopo un caso brillantemente risolto, una corsa a perdifiato per beccare l’ultimo treno della metro o dopo aver inventato un insulto particolarmente creativo per Anderson.
E’ il sorriso che mi aveva regalato dopo il concerto di musica classica alla Royal Albert Hall in cui lo avevo trascinato facendogli credere –piccolo vanto personale- fosse un’esibizione del mio gruppo rock preferito. E’ l’identico sorriso che mi aveva rivolto quando avevo inavvertitamente sfiorato la sua mano, seduti sulle poltroncine dell’elegante Sala Concerti, e lui mi aveva visto arrossire furiosamente. La serata più bella di tutta la mia vita. Anche di quella del mio matrimonio, cento, mille volte più bella.
La sua mano, quasi leggendo nei miei pensieri, sfiora appena la mia ma non la afferra né la stringe. E’ solo un tocco, un saggiare la scabrosità della mia pelle, un accertarsi che io sia ancora qui per davvero.
Io annuisco. Ho capito e mi dispiace non averlo fatto prima. Sono terribilmente amareggiato di aver vissuto con gli occhi bendati fino a questo momento, costringendoci entrambi a quest’attesa.
E’ davanti a me, adesso. Pochi centimetri ci dividono, ma non bruceremo ulteriormente le distanze, stasera.
Sfioro il suo polso, lentamente. Il suo battito è irregolare ma forte, e le vene pulsano contro le mie dita come se mi stessero dettando un messaggio, in un alfabeto morse di sangue e carne. ‘Parla’, sembrano dire. ‘Parla adesso’.
“Ti ho sognato ogni singola notte e ogni singolo giorno, in quei tre anni. Ho passato giornate intere seduto sulla mia poltrona a chiedermi perché lo avessi fatto, a domandarmi se tu avessi mai tenuto davvero a me. Perché tu avessi voluto che io vedessi. Poi al dolore è subentrata la rabbia, Sherlock. Ti ho insultato, svilito, annientato. Ti ho maledetto, persino.”
Chiudo gli occhi.
“E io ti odio, per quello che hai fatto. Ti odio per avermi lasciato solo e per avermi guardato rovinare la vita di un’altra persona senza muovere un dito. Ti odio per non avermi detto niente prima, per non esserti fidato di me abbastanza. Ti odio perché non mi sono mai sentito così, perché ho visto morire tanta di quella gente riuscendo sempre ad andare avanti, ma non con te.
Ti odio perché mi hai reso una persona migliore ma completamente dipendente da te.
Ti odio perché mi sei mancato così tanto che, ogni singolo giorno, ho avuto paura di non farcela²”.
E’ quello che voleva sentire, quello che ha sempre, in cuor suo, desiderato che gli dicessi.
Lo leggo nei suoi occhi. Lo leggo sulle sue labbra e sulla lingua che di nuovo le lambisce, nel respiro irregolare, nelle sue dita che portano indietro i riccioli sulla fronte più spesso del dovuto.
Un respiro. Poi un altro.
“E a me dispiace aver dovuto farlo. Mi dispiace aver dovuto mentire, mi dispiace aver dovuto riporre la mia fiducia in sconosciuti, preferendoli –mio malgrado- a te. Odio me stesso per non aver mai alimentato in te una speranza, per non averti fermato prima del nonostante io fossi là a guardarti, illuso che fosse vera felicità quella sua tuo viso. Mi dispiace di aver preso la decisione più dura di tutte, di essere stato costretto a proteggerti nel modo più drastico e doloroso che esistesse. Mi detesto per essere stato la causa del tuo dolore quando mi ero ripromesso, senza aver coraggio di dirtelo, che non ti avrei recato mai alcun danno. Che ti avrei protetto, sempre e comunque. Ma in tutto questo, di una cosa non riesco a pentirmi, John” la voce è andata via via scemando, arrochendosi e diventando più lieve, rotta da una profonda commozione. “Ed è l’averti conosciuto e permesso, quasi per caso, di diventare parte della mia vita”.
E’ la disfatta. La sconfitta che allo stesso tempo è una vittoria, l’incontro di due Sovrani avversari che gettano in terra le spade raggiungendo una tregua, un patto di non belligeranza. E’ lo scambio equo di doni da parte di due fazioni opposte che si scoprono improvvisamente interessati al medesimo scopo, l’accordo di due eserciti rivali che uniscono le proprie forze per un unico obiettivo. E’ nuova vita, è speranza, è futuro, lì dove non sembrava potercene essere uno.
“E mi manchi anche tu” sussurra, e so per certo che Sherlock non l’abbia mai detto a nessun’altro oltre a me. “Casa nostra è vuota, morta, senza di te. E nulla al mondo mi renderebbe più felice che riaverti con me”.
E’ la domanda che ho cercato, inseguito, desiderato con tutto me stesso sin dal giorno del suo ritorno. Sentirla, finalmente, scandita in un mormorio dalle sue labbra, mi fa dubitare di trovarmi in un sogno dal quale, inevitabilmente, sarà tremendo svegliarsi.
Ma lui è qui e mi sta toccando, le punte delle dita che sfiorano le mie, un minimo contatto che per me equivale quasi ad un abbraccio. E la mia risposta è, nonostante tante volte lo avessi negato in sua presenza, è stata e sempre sarà una sola.
“Sì, Sherlock” rispondo, e non ho più nessun dubbio. “Verrò con te”.
Da qui in avanti, potrebbe succedere qualunque cosa e a me basterebbe solo avere la sicurezza che lui non lascerà mai più il mio fianco, d’ora in poi, per non aver più timore di nulla.
Non so cosa accadrà e mi sorprende pensare a come non m’interessi poi molto, in fondo. Mi sento libero, nonostante siano ancora tanti, troppi, i pesi che sono costretto a portare sulle spalle e da cui forse, prima o poi, riuscirò a liberarmi completamente.
Mi fa ancora male pensare a Mary, ma in questo esatto momento, mentre Sherlock sorride di nuovo, non riesco a non pensare a quanto stia sicuramente meglio dov’è ora. Non l’avevo mai meritata, in fondo, così come lei non aveva mai meritato un matrimonio dettato soltanto da un’affettuosa gratitudine. Non c’era mai stato davvero amore, tra noi. Non avevo dimostrato a quella donna nemmeno il pallido riflesso di quello che sarei stato pronto a donare a Sherlock nella sua totalità. Forse era sempre stato scritto così.
Non so neppure cosa succederà da qui a un’ora, dopotutto. Di quello che accadrà domani, fra un mese o un anno, non ha veramente importanza.
Forse usciremo da qui fra cinque minuti, forse fra dieci, forse chissà. Magari andremo a casa mia, prima, o più probabilmente a casa nostra, che mi manca tanto, troppo, nonostante non ci viva stabilmente da tanto tempo.
Forse parleremo di quello di cui non abbiamo mai avuto il coraggio di parlare. Magari lo faremo seduti al tavolo della cucina, con una tazza di the in mano, o seduti sulle nostre poltrone, occhi negli occhi, bagnati dalla luce calda del pomeriggio.
Forse gli darò un bacio. Forse lui ne darà uno a me.
Magari dopo mi permetterà di sfiorargli il viso, le labbra, i capelli scuri e la curva armoniosa del torace. O forse sarò io a lasciarglielo fare.
Forse dopo mi chiederà di fare l’amore con lui. Di insegnarglielo, magari. O forse prenderò io l’iniziativa. O forse inizieremo entrambi. Lo faremo e basta.
Qualcosa però, so di certo.
So che la prima tazza di the che preparerò al mattino sarà la sua, non più la mia. So che lo costringerò a inviarmi così tanti SMS per rimediare all’antico silenzio che sarò costretto a impostare il cellulare su silenzioso praticamente per l’intera giornata.
So che non troverò mai più pesante raccogliere i suoi fogli da musica dal pavimento, dopo l’ennesima esecuzione del Capriccio n°4 di Paganini o del Concerto in Re maggiore di Tchaikovsky.
So che non rimpiangerò mai più la tranquillità del nostro appartamento, quando arriverà da me trafelato a chiedermi di seguirlo nell’ennesima avventura.
So che, anche se non oggi e non domani, l’amore lo faremo per davvero.
“Ti aspetto, domani?” Sherlock poi mi chiede. “Puoi raccogliere le tue cose, oggi”.
Io annuisco. Ha risposto ad una delle mie domande. Domani è onesto, domani è il giusto equilibrio. Domani è tollerabile.
“Ti chiamerò, domattina” Sherlock mi assicura. “Ti sveglierò?”.
Sorrido. C’è un’altra cosa che so, a proposito.
So che non saranno più gli incubi a svegliarmi all’alba, ogni maledetta mattina. So che, d’ora in poi, la luce del sole negli occhi non sarà più dolorosa ma confortante.
“Svegliami” è quello che voglio, nonostante fino a ieri non avessi desiderato altro che godere di un lungo sonno senza sogni. “A qualunque ora, in qualunque momento. Ma fammi sentire di nuovo la tua voce” dico ancora. Le mie necessità sono cambiate, adesso.
Fa un altro passo verso di me.
Forse mi regalerà un’altra carezza.
Forse non dovrò aspettare ancora molto, per quel bacio.
Forse, ma non so. Può darsi.
Forse, ma adesso non importa.

 

 
*

 

¹ E’ riferito al personaggio (con tutt’altra psicologia) di una bellissima raccolta di one-shots ispirata ai peccati capitali, Seven Deadly Sins di Whitelily_. Ve la consiglio caldamente.

² E’ una citazione leggermente rivisitata dal film ‘Brokeback Mountain’, il mio preferito. Non mi stancherò mai di consigliarlo!


  
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