Buonasera sempre mitico
fandom!
Per prima cosa, i dovuti
ringraziamenti a chi ha recensito, letto o anche solo aperto la storia
precedente. Un grazie dal profondo del cuore, davvero,
risponderò a tutti prestissimo!
Ritorno con una one-shot che mi ha rubato un bel po’ di
pomeriggi, aiutandomi molto
a distrarmi da un po’ di pensieri. Spero tantissimo che sia
di vostro
gradimento!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!
S.
*
Le mani
di Sherlock sembrano danzare,
su quel violino.
Le dita reggono l’archetto con la stessa grazia con cui io
sfiorerei il volto
di un bambino, con la stessa delicatezza che lui stesso riserva alle
fragili
provette di cristallo del suo set nuovo di zecca. Le corde
più grandi vibrano,
sotto la carezza di quelle tese di lungo crine, scivolando senza
attrito e
producendo i primi albori di una melodia a me fin troppo familiare.
E’ Bach,
non ho dubbi. Chiudendo gli occhi, posso addirittura distinguerne le
note, così
da poter facilmente indovinare quale
brano stia suonando.
E’ l’Allemande,
per l’esattezza.
Dalla partita n°1 in Sol Minore. Ancora ricordo lo sguardo
minaccioso e
sbigottito che mi aveva rivolto, tempo fa, quando avevo osato
pronunciare
quella parola a me sconosciuta con un orrendo e troppo spiccato accento
francese. Non sono mai stato bravo con certe cose, neppure a scuola.
Non mi piace. Non l’ho mai sopportato, sin dalla prima volta
che l’avevo
ascoltato. Ad esser sincero, il mio odio per questa musica è
addirittura
triplicato, forse –probabilmente- anche a causa di Moriarty.
Trovo assurdo che Sherlock
possa tollerare un continuo rimando a quei giorni, incredibile
la sua indulgenza nei confronti del mare di ricordi che
–nonostante lui lo neghi- inevitabilmente lo sommerge ogni
volta.
Ho ascoltato questo movimento tante di quelle volte da perdere il
conto.
Guardare Sherlock imbracciare il suo violino e sfogliare –con
veemenza, sempre-
le partiture di Bach stampate in inchiostro sbavato, era sempre
equivalso –nel
personale linguaggio di Sherlock- ad uno sfogo in piena regola, quello
che in
una persona normale in preda alla frustrazione avrebbe comportato
grida, urla
ed epiteti di vario genere verso il mondo e verso la propria orribile
esistenza.
Non ho bisogno di chiedere a Sherlock cosa sia successo, per capire.
Non abbiamo
notizie l’uno dell’altro da un bel po’ di
tempo. A volte mi domando se non dia
per scontato il mio elemosinare informazioni da Scotland Yard, ogni
qual volta continua
ad ostinarsi nel suo mutismo.
Sono in casa da dieci minuti, comunque, e lui non si è
voltato verso di me
nemmeno una volta. Finge di non avermi visto ma non è bravo,
o almeno, non lo è
più. Sta perdendo colpi, forse, col passar del tempo. O
forse qualcosa ho
davvero imparato, dalla nostra lunga amicizia.
E’ arrabbiato con me. So che non si volterà per i
prossimi dieci minuti ancora,
come so che non mi confesserà mai i suoi pensieri nemmeno
sotto tortura. Si
limiterà a farmi sentire in colpa, come fa ogni volta. Come
sempre, poi, non mi
metterà al corrente delle mie colpe. Secondo lui, il peccato
non è mai importante
quanto l’insistenza del
peccatore nel perseverare nei suoi sbagli.
Ho smesso di chiedermi quale sia l’esatto ordine delle sue
priorità. Ho smesso
di domandarmi se ne possedesse davvero uno il giorno in cui aveva
ringraziato calorosamente un
assassino –con tanto di
stretta di mano- per avergli permesso di saltare una noiosissima cena
con suo
fratello.
La notizia della nascita del mio nipotino non lo aveva scalfito un
minimo. Neppure
accompagnata da mille scuse, da mille ‘A Mary
sarebbe piaciuto tanto,
è sua sorella’,
da milioni di ‘giuro che
sarò con te la
prossima volta’. Nemmeno il mio ‘sai quanto
mi costa, dirti di no’ aveva sortito
l’effetto desiderato. Eppure, era
stata l’affermazione più sincera
di
tutte quante. Questo lui non lo sa.
Non parlo né annuncio la mia già palese presenza,
dirigendomi verso la cucina a
passo spedito. Apro e chiudo la credenza, tirando un sospiro di
sollievo di
fronte all’evidente mancanza di moncherini umani, poi afferro
il bollitore già pieno
d’acqua, girando la manopola del gas. Tiro fuori il contenuto
della mia tasca,
assicurandomi che la scatoletta non abbia subito gravi danni, e
l’appoggio sul
ripiano in formica, versando uno strato abbastanza alto di foglie scure
sulla
base della teiera sbeccata. Sherlock ancora si ostina a non volerla
sostituire.
La musica dal salotto si ferma, una frazione di tempo così
minuscola da non
poter essere quantificata, per poi riprendere un momento dopo. Sembra
quasi che
Sherlock abbia ceduto, in un attimo di debolezza, alla
curiosità di dedurre
–senza degnarmi di uno sguardo- cosa io stia facendo.
Quando l’acqua bolle, cercando in ogni modo di non sorridere
alla testardaggine
dell’uomo in salotto, la verso nella teiera, lasciando che
l’aroma pungente
delle foglie le doni il suo sapore caratteristico.
Sherlock si ferma di nuovo e io sorrido di rimando, percependo la sua
difficoltà nell’ignorarmi
ancora. La
musica ricomincia, dopo la brusca interruzione, ma è un
continuo di suoni
distorti e lamentosi, come se Sherlock abbia inspiegabilmente
dimenticato il
modo corretto di impugnare il suo archetto. Provo un piacere quasi
colpevole,
all’idea di essere l’artefice di quella piccola disfatta.
Quando, alla fine, la melodia lineare si trasforma in un gracchiare
fastidioso
degno di uno studente di violino alle prime armi, la musica cessa
definitivamente e un tonfo, probabilmente il violino gettato malamente
sul
divano, mi avvisa dell’imminente arrivo di Sherlock in cucina.
La sua figura alta e austera fa capolino sulla soglia nel giro di un
istante,
limitandosi a lanciarmi un’occhiata veloce prima di sedersi
–più che altro
stravaccarsi- su una delle sedie di legno. Quella scricchiola
sinistramente,
sotto il suo –seppur lieve- peso.
Senza parlare sollevo la teiera, ignorando il calore quasi bollente che
arrossa
le mie dita, versandone il contenuto nelle due tazze e osservando le
graziose
volute di vapore creare piccole gocce di condensa sui bordi di ceramica.
Sherlock ancora non mi guarda. Sembra trovare i ghirigori astratti del
vapore
incredibilmente più interessanti di me.
Afferra la sua tazza nello stesso momento in cui io stringo la mia,
portandola
alla bocca. Assapora il primo sorso della bevanda bollente, dopo aver
opportunamente
soffiato sulla superficie torbida e cosparsa di piccoli rimasugli di
foglie, chiudendo
gli occhi e godendosi –impossibilitato a nasconderlo- il
sapore pungente e
aromatico dell’infuso.
E’ il suo preferito. Vaniglia.
L’ho
comprato apposta per lui, prima di venire qui.
Fa sempre un piccolo versetto compiaciuto, quando beve una tazza di the
preparata da me. Niente a che vedere con l’espressione piatta
o disgustata di
quando lo prepara da sé o è costretto ad
accettare una gentile offerta da parte
di un cliente o di suo fratello. Nulla a che vedere con qualsiasi altra
al
mondo. E’ uno dei miei piccoli, enormemente soddisfacenti
vanti personali.
Quando la tazza è vuota e l’espressione
compiaciuta scema dal suo volto, il
rumore acuto della ceramica che sbatte contro il legno mi costringe a
rivolgere
nuovamente l’attenzione verso di lui, che smonta le mie
fantasticherie come
piccoli pezzi di un puzzle.
“Mi hai distratto” lui dice, pulendosi una traccia
di the dall’angolo della
bocca con la manica del pigiama.
“Certo” dico io, senza il cuore –e la
volontà- di contraddire qualsiasi cosa
abbia da dire.
Lui annuisce, come se avesse bisogno di rassicurare se stesso sul fatto
che
avesse effettivamente ragione, che io fossi davvero in torto, che
perdonarmi quell’affronto
non avrebbe fatto altro che
spronarmi a sbagliare di nuovo.
Alla
fine, proprio mentre sembra raggiungere un solido accordo con la sua
coscienza,
vacilla di nuovo.
“Non ti ho perdonato” afferma di nuovo, e la sua
voce è simile ad un balbettio.
Alzo le spalle, come per fargli silenziosamente comprendere che ho
capito, che
non mi aspettavo nulla di diverso.
“Lo so” asserisco, annuendo. “Lo so
benissimo”.
Lui solleva un sopracciglio e mi guarda attentamente, come per capire
meglio se
lo stessi prendendo in giro o se davvero credessi nella mia ammissione
di
colpa.
Vorrei che oggi qualcosa si muovesse.
Vorrei che trovasse il coraggio di dirmi quello che non mi ha ancora
detto, da
quando è tornato. Vorrei che finalmente parlasse e non si
limitasse a darmi colpe
che in fondo non ho ma che accetto per non deluderlo, per non rompere
quel
debolissimo filo che ancora ci unisce.
Tutto ciò che chiedo, è sicurezza:
un
gesto, una parola, uno sguardo che mi faccia davvero credere in
ciò che ho
sempre e solo supposto e mai
davvero visto.
Forse, però, non serve a niente. Più lo guardo e
più mi convinco che forse non
ho mai visto nulla perché non c’è mai
stato niente
da vedere.
Non vengo esaudito. Ci ho fatto l’abitudine ormai,
così tanta da non
prendermela nemmeno più, anche se ne avrei tutto il diritto.
“Grazie” però sussurra, e sento il cuore
salirmi in gola. “Ma non cambia
niente” aggiunge ancora, rendendomi di nuovo chiaro
ciò che pensa, ciò in cui
crede e non crede. Si appropria di
un
altro pezzettino di me, da aggiungere alla sua personale collezione. Mi
chiedo
cosa se ne faccia, di tutti quei piccoli frammenti, se non vuole
più avermi
nella mia interezza. Forse non lo capirò mai.
Si solleva dalla sedia e torna in salotto, dove prende di nuovo in mano
il
violino portandolo al mento e appoggiandovisi con la dolcezza di un
amante. Mi
soffermo a guardarlo e a pensare se abbia mai davvero toccato qualcuno
nel modo
in cui sfiora il legno d’acero e abete del suo strumento. Mi
chiedo se sia stata
Irene, la prima e l’unica. Mi domando se invece sia stato un
uomo, tanto tempo
fa, magari all’Università. E’ un
pensiero che non mi piace e non mi ci soffermo
più di qualche istante. Quando imparerò ad
allontanare certe immagini da me,
non sarà mai troppo presto.
Comincia a suonare di nuovo, ma non la stessa melodia di poco fa. Mi
basta un
istante per riconoscere la Partita
n°1 in
si minore. Questa è peggio di quella precedente.
Non so se riuscirò a restare qui ancora per molto.
Non è successo nulla nemmeno oggi. Solo un altro giorno,
altre ventiquattro
ore, altro tempo sottratto alla mia vita non più plasmata
sulla sua.
Un altro giorno da sbarrare sul mio calendario, con la penna a
inchiostro scuro
che ben si adatta al colore di giornate come questa. Un’altra
croce, un altro
numero che domani diverrà illeggibile, così come
quello dopo e quello dopo
ancora.
Forse dovrò riempire fogli, con quell’inchiostro.
Probabilmente, non lascerò
mai libera nessuna casella.
Non mi guarda. Non mi segue, non si volta a lanciarmi
un’ultima caustica sentenza.
Non mi grida di andare all’inferno e non tornare mai
più, almeno.
E’ una magra consolazione.
Non gli permetto di vedermi andar via comunque, sgattaiolando lungo i
diciassette gradini d’ingresso con
l’agilità di una volpe.
E’ uno di quei giorni dove vorrei non saper più pensare.
Non mi ha mai chiesto
perché non fossi tornato, dopo la morte di Mary.
Non ha mai nemmeno accennato a domandarlo, lasciando che mi crogiolassi
nella
convinzione che non avesse alcuna intenzione di saperlo, in fondo.
Il giorno del funerale, avevo creduto fino all’ultimo che non
sarebbe venuto. Non
gli sono mai piaciuti molto i funerali, in fondo. Ha sempre avuto un
rapporto
unicamente professionale con la
morte
e mai, nemmeno per suo padre, ha fatto eccezioni. Quando lo avevo
visto,
seminascosto dietro il largo tronco di un abete, avevo faticato a
credere ai
miei occhi.
Si era avvicinato a cerimonia conclusa, mentre io ero intento a
contemplare lo
strato di terra umida e fredda sotto cui mia moglie giaceva, quando
ormai il
resto della folla era già tornato alle auto per tornare a
casa. Non avevo
organizzato alcun party. Mi è sempre sembrato orribile
onorare la scomparsa di
una persona con gozzoviglie simili.
Non c’erano state pacche sulle spalle, né sorrisi
di comprensione, né esortazioni
a tirarmi su di morale. Nessun ‘ti
riprenderai’, ‘vedrai
che andrà
meglio’ o ‘adesso
è più felice’.
Neppure un misero ‘mi dispiace’.
Non gliel’avevo fatto neppure notare, allora. In
verità, non avevo alcun
bisogno della sua finta pietà, in quel momento.
Mi aveva guardato, ma senza alcun calore negli occhi. Mi era sembrato
quasi felice per un momento,
esibendo per un
fugace istante un’espressione di puro sollievo. Ancora oggi
mi domando se non
fosse stata davvero contentezza, quella nei suoi occhi. Ancora adesso
mi chiedo
se non l’avessi riconosciuta come tale già allora,
decidendo inconsciamente di ignorarla.
Mi sento uno stronzo, ogni
volta che ci penso.
“Non torno” avevo poi detto, senza che lui avesse
chiesto nulla.
Sherlock non aveva risposto e si era limitato a fissare la lapide di
mia moglie
con sguardo vacuo, come se non la stesse davvero guardando. Si era
stretto nel
suo cappotto per poi rivolgermi un’occhiata dura, cruda,
spietata. Avevo
sentito il gelo dei suoi occhi pervadermi completamente, raggelandomi
il
sangue, impedendomi ogni movimento o replica. Poi era andato via.
Nulla è più tornato come prima, da allora.
Il salotto del 221B è silenzioso e disordinato come al
solito, ma non ci faccio
più caso, ormai. Mrs Hudson ha insistito perché
salissi a controllare, per
premurarmi che il mio ex coinquilino non avesse combinato qualcosa di
troppo
grave (“Lui ascolta solo te, John!”) come
l’ultimo piccolo
incidente con una delle poltrone. Vorrei tanto che fosse
ancora così. Mrs Hudson, forse, non si è ancora
accorta di nulla. Forse, tiene
troppo a noi per accettare ciò che sta accadendo.
In giro non c’è nulla di troppo pericoloso, o
tossico, o corrosivo. Un piccolo
contenitore tupperware pieno di zampe di topo troneggia sul tavolino da
caffè,
ma è lì da così tanto tempo da non
rappresentare una minaccia immediata.
Accanto ad esso, poi, sono impilati una decina di vecchi libri, alcuni
dei
quali presentano pagine ingiallite e macchiate dal tempo.
Tra le pagine martoriate, strappate e legate alla bell’e
meglio con cotone da
sarta di infima qualità, fanno bella mostra di loro stessi
ritagli di giornale,
fotografie ridotte in mille pezzi, schegge di legno e vecchie bacchette
cinesi
recanti il logo del vicino take-away.
Sherlock non ha perso nemmeno
quell’abitudine.
Ho sempre odiato la sua mania di usare qualsiasi cosa come segnalibro.
Gli
avevo ripetuto più di una volta quanto ritenessi sacri i libri, quanto mi facesse male al cuore vedere con quanta gratuita
cattiveria egli vi si accanisse,
trattandoli a quel modo solo per non perdere cinque minuti del suo
tempo a
cercare un segnalibro. Sherlock aveva risposto quasi sempre sbuffando,
dandomi
del fissato, esortandomi a calmarmi e a pensare a qualcosa di davvero
importante piuttosto che al modo in cui lui trattava i suoi preziosi
tomi
scientifici.
Oggi lo ha fatto apposta. Sarei pronto a mettere la mano sul fuoco con
la piena
sicurezza di trovarne le braci tutt’altro che ardenti. Sapeva
che sarei
arrivato. E’ come con Bach, l’ultima volta.
Sherlock gode nel farmi male. Peccato che io mi ostini, spinto da
qualcosa che
ancora non so ma che mi fa star male come mai in vita mia, ad ignorare
il suo
accanimento. Mi sento ancora colpevole di una colpa non mia ma che
ormai
ritengo tale. Artefice della rottura di un rapporto unico che per me
aveva
sempre significato tantissimo.
Sherlock sbuca fuori dalla sua stanza senza che nemmeno me ne accorga e
gira
l’angolo senza un saluto, salvandosi da un mio rimprovero
solo grazie ad un
gesto appena accennato del capo.
Raccolgo i suoi –nostri-
libri e
piego leggermente un’estremità di ogni pagina per
tenere il segno, limitando i
danni a quell’unica linguetta di carta. Raccolgo le
cianfrusaglie sparse tra le
pagine e le getto direttamente nel cestino della spazzatura, sperando
che lui
finalmente parli, anche dicendomi di smettere, di farmi gli affari
miei, di
tornarmene da dove sono venuto.
Sherlock però mi raggiunge, abbandonandosi alle lusinghe del
morbido divano e
osservandomi sgobbare come uno schiavetto senza alzare neppure un dito
in mio
aiuto. Mi guarda con un’espressione indecifrabile in volto,
lungi dall’essere
rilassato.
“Sei uno sciocco” esclama, rompendo il silenzio e
facendomi pentire di aver
desiderato che parlasse. “Non è più
casa tua”.
E’ vero e non è vero. Chiamo casa
un
altro posto adesso, e non potrebbe essere più diverso da
questo. Le pareti
color rosa antico del mio appartamento a Chelsea nulla hanno a che
vedere con
la fantasia bicromatica di quelle di Baker Street, né sono
accomunate da altri
dettagli, seppur minimi. Sono due cose talmente diverse che mi chiedo
come
avessi fatto ad accettare tanto drasticamente il cambiamento, un anno
fa. Ho
smesso di farmi domande sulle decisioni prese durante la lontananza di
Sherlock. Non riuscirei a trovare una risposta coerente, adesso che
è di nuovo
insieme a me. Metaforicamente.
“Non m’importa” io rispondo
perché non voglio dire altro se non la verità.
“Per
certi versi sei il mio punto fermo”
continuo, guardando la piccola catasta di cianfrusaglie che ho raccolto
nel cestino.
E’ un complimento, quasi. Mi chiedo perché io lo
faccia, ma come al solito, non
trovo risposta.
Indico la pila di libri e fogli.
“Non sei cambiato di una virgola” dico poi,
sforzandomi di sorridere come davanti
alla scherzosa marachella di un ragazzino.
Lui non parla, ma la sua espressione contrita è
più che eloquente. Si arruffa
leggermente i capelli con una mano e affonda nel morbido cuscino del
bracciolo,
osservandomi con aria strafottente.
“Tu sei
cambiato” Sherlock mi dice, e
la sua lingua pare quasi sibilare. “Abbastanza per tutti e
due”.
Non distoglie lo sguardo da me e io incasso l’ennesimo colpo,
rassegnandomi
alla mia totale impotenza di fronte ai suoi insulti e alle sue
recriminazioni.
Sono un uomo abituato a
lavorare con la vita e la morte, un uomo capace di distinguere
un’arma da
un’altra senza aver ricevuto alcun insegnamento se non
dall’esperienza. Sono capace
di uccidere a sangue freddo e in
grado di colpire evitando
accuratamente ogni organo vitale, col solo scopo di recare
più male possibile. Eppure,
Sherlock mi annulla.
Penso in continuazione al suo atteggiamento nei miei confronti e
all’apatia con
cui io rispondo al suo attacco. Non ho mai desiderato fargli del male,
per
quanto avessi cercato di provare
rancore verso di lui. La mia tolleranza è forse peggiore
dell’odio, in qualche
maniera.
Mi pongo di nuovo una domanda, quella che ormai chiamo la mia domanda.
Perché non mi chiede di tornare?
La risposta non tarda ad arrivare. Non lo fa mai.
‘Lui non ti vuole’
una voce, la
solita, picchietta nella mia testa come il becco di un uccello
fastidioso.
Per lungo tempo, la risposta di quella vocina era stata
un’altra. Mi sembra
così lontana che a volte fatico a credere di aver addotto
quella motivazione
come scusa.
‘Sarebbe orribile nei confronti di
Mary’
mi ero detto. ‘Un affronto alla sua
memoria’.
Non so esattamente quando io sia diventato così cinico e
irriconoscente nei
confronti della mia defunta moglie. Fatto sta che ad oggi, il pensiero
di Mary riguardo
questo argomento non mi sfiora più, nemmeno un
po’, neppure minimamente.
Tutto quello che voglio è che Sherlock parli con me, e non
per impormi di
seguirlo in un caso o per chiedermi di prenotare –solo per
lui- un tavolo da
Angelo perché troppo occupato a pensare.
L’ho seguito, ogni volta che mi ha chiesto di farlo,
accettando il drastico
cambiamento anche in quel determinato rapporto lavorativo,
accettando il suo mutismo e il suo tenermi accanto per
semplice vezzo, perché ormai troppo abituato alla mia
presenza per poterne fare
a meno. Mi sento uno stupido giocattolo, ogni volta che mi tratta in
quel modo.
Non sa nulla nemmeno di questo e, forse, non lo saprà mai.
Finora, non mi ha mai accontentato. Da quando Mary è morta,
discorsi più lunghi
di un semplice botta e risposta potrebbero essere contati sulle dita di
una
mano. Sarebbe così facile, in fondo. Basterebbe un niente,
un po’ di coraggio,
quello che ostenta in qualunque occasione ma che non ha mai abbastanza
fegato
di mostrare con me.
Non so perché ma gli sorrido, come se non avesse appena
mosso una dolorosa accusa nei miei
confronti.
Annuisco e rinuncio alla possibilità di restare con lui
questa sera, magari
proponendogli di comprare qualcosa al nuovo Thai aperto
all’angolo. Mi
allontano da lui rinunciando ad un’altra serata fatta di
silenzi e di sguardi
che nessuno dei due avrebbe mai ammesso di aver lanciato verso
l’altro, ad
un’altra nottata da passare sullo stesso divano ma a
chilometri di distanza,
fissando figure nel televisore che nessuno dei due avrebbe davvero
guardato.
Eppure, mi sembra ancora un’occasione mancata.
“Buonanotte, Sherlock” mi limito a dire, nemmeno ad
alta voce. Tanto,
probabilmente, non mi risponderà comunque.
Lui mi guarda, poi china lo sguardo. Bisbiglia qualcosa tra
sé e sé, tenendo
gli occhi bassi. La sua voce è così bassa che non
riesco a carpire neppure una
parola di senso compiuto, in quel borbottio.
“Ciao, Sherlock” dico di nuovo e non so neppure
perché io ci provi ancora.
L’aria della notte è fredda, molto più
degli altri giorni. Una volta mi piaceva
sentire le folate pungenti contro il mio viso, consapevole che una
volta
tornato a casa le mie guance arrossate avrebbero fatto ridere Sherlock,
spingendolo a prendermi un po’ in giro.
Adesso, mi accontenterei anche del più misero sorriso.
Non lo ricordo più, il suo sorriso.
Il televisore davanti a me
è spento ma io continuo a guardarlo, senza un motivo
apparente. Sembra quasi
che, riflesso sulla superficie piatta dello schermo, ci sia qualcosa –cosa, non saprei- che
mi
impedisce di distogliervi lo sguardo.
Una fugace immagine di me e Mary intenti a scegliere quel televisore al
negozio, millenni fa, attraversa la
mia mente a velocità folle, scomparendo in un battito di
ciglia. Ciò che quel
ricordo mi lascia, nulla ha a che vedere con la nostalgia, il
rimpianto, il
desiderio di poter tornare indietro.
E’
una fitta alla testa, lancinante, come quella provocata dal sibilo di
un
proiettile che ti sfiora appena ma che non ti colpisce. E’
fastidioso e bruciante,
come quando urti uno spigolo con un piede e il dolore è
tanto forte da
lasciarti senza fiato, senza nemmeno la forza di urlare. Più
mi dico di non
pensarci, più la mia mente si sofferma su certe immagini. Ma
forse, è solo il
John di una volta che si ribella di fronte all’essere
vigliacco e senza cuore
che sono adesso. Probabilmente è solo la mia coscienza che
non riesce più a
guardarmi in faccia senza aver voglia di colpirmi,
per essermi macchiato del crimine più orribile di tutta la
mia esistenza.
L’indifferenza.
C’era stato un troppo
breve
momento, quando tornato a casa mia ero stato accolto da un silenzio
quasi
irreale, in cui avevo creduto di non poter sopportare ancora una volta
ciò che
avevo –in maniera diversa- affrontato con Sherlock mesi e
mesi prima. La rabbia
iniziale era andata via via scemando, col passare incessante dei
giorni,
lasciando spazio al dolore –rapido anch’esso- e ad
un sentimento che ancor oggi
non saprei affatto definire. Troppa frustrazione,
avevo pensato all’inizio. Troppo poca,
ero stato costretto ad ammettere a me stesso, dopo.
Solo in seguito poi, era arrivata la consapevolezza che nulla stava
andando
come sarebbe dovuto andare.
Mary era scivolata via dai miei pensieri troppo facilmente, troppo
presto,
senza alcuno strascico di nostalgia e rimorso. Senza nemmeno un
briciolo della sofferenza che avevo
sempre creduto mi
avrebbe accompagnato nella mia vita futura senza di lei.
L’avevo lasciata indietro,
procedendo
nella mia vita come se lei non fosse mai esistita, come se non ci
fossimo mai
spinti al di là di un bacio, come se lei fosse stata
soltanto una delle tante.
E’ strano pensare come l’unica
costante della mia vita, prima, durante e dopo di lei, sia sempre stata
Sherlock.
Mi sento ancora adesso uno
stupido, un ingrato, un marito che -da esterno- non avrei esitato a
definire irriconoscente oltre ogni
limite.
Non riesco a cambiare, comunque. Per quanto io m’impegni, per
quanto io cerchi
di porre rimedio al mio errore, tutto è ancora, esattamente, come prima. Senso di colpa,
ma nessuna effettiva
volontà di cambiare
questa realtà.
Non ce la faccio. E’ più forte di me.
Il telefono squilla ed è grazie ad esso che il mio cuore e
il mio cervello
trovano conforto dalla tortura a cui li sto costringendo. Dalla
poltrona su cui
sono seduto afferro la cornetta al volo, quando il trillo è
all’apice del suo
volume, portandola all’orecchio con il sollievo di chi
è alla ricerca di una
qualunque distrazione.
Ma c’è solo silenzio, dall’altra parte.
Non sento nemmeno un rumore, il sibilo di un respiro o un colpo di
tosse
accidentale. C’è un ronzio in sottofondo, un
fruscio sommesso che potrebbe
tranquillamente provenire dal cavo telefonico ma che io so
–senza alcuna ombra
di dubbio- appartenere al vecchio apparecchio a disco del 221B.
Non è la prima volta che succede e sono pronto a
scommettere, anche tutto quello che
possiedo, che non sarà
l’ultima. E’ sempre così. Silenzio, solo
quello. Quando sono fortunato, un
sussurro che neppure riesco a distinguere.
Rimango ad ascoltare e sento la rabbia montare lentamente dentro di me,
ben
consapevole che non potrò sfogarla, che non
riuscirò, che come al solito mi
fermerò esattamente un istante prima di gridargli contro che
è un’idiota, uno
sciocco, un bastardo.
Ascolto quel nulla
dall’altra parte
del cavo e quasi scoppio a ridere nell’immaginarlo trattenere
il respiro, non
trovando neppure così strana la possibilità che
possa davvero trattenerlo tanto
a lungo. Nulla più mi sconvolge,
pensando a Sherlock.
Vorrei dirgli tante di quelle cose, in questo momento. Cose terribili.
Insulti.
Recriminazioni, forse. Non riesco a pronunciare neppure un saluto,
invece.
Desidererei che parlasse, una volta per tutte. Che mi dicesse, anche
attraverso
una fredda conversazione telefonica, quello che aspetto da
così tanto tempo e
che lui non sembra volermi concedere. Vorrei che mi parlasse, prima di
ogni
cosa, con quella sua chiacchiera sciolta, veloce, pungente, come non fa
da
secoli. Anche a costo di subire le sue piccole prese in giro,
l’ennesima
umiliazione o un altro dei suoi bruschi rimproveri sulle mie molteplici
incapacità, io non
desidero altro che
sentirlo nuovamente parlare con me
come in passato. Mi accontenterei. Mi basterebbe per tutta la vita.
Odio quando fa così. Odio che m’illuda, che mi
lasci intravedere uno spiraglio
lì dove non esiste, che mi faccia scorgere una porta
socchiusa alla fine di un
lungo corridoio per poi sbattermela in faccia appena arrivato davanti
alla
soglia.
“Vuoi che venga da te, Sherlock?” la mia voce poi
dice, senza che io le abbia
comandato alcunché. “Adesso, forse?”.
Un respiro che dura un secondo è tutto quello che sento.
Sembra che il fiato
gli si sia mozzato in gola, preso alla sprovvista. E’
stupido, profondamente
insensato da parte mia credere che lui sia ancora
inconsapevole che io sappia chi ci sia, dall’altra parte.
Probabilmente lo sa.
Anzi, sicuramente. E lo fa apposta,
così come premedita il suonare melodie odiose in mia
compagnia o riempire
d’immondizia i miei e i suoi –nostri-
libri per il solo gusto di provocarmi dispiacere.
Non risponde. Nemmeno più quel flebile respiro si degna di
regalarmi. Tace, non
parla ancora, ma resta in linea per quelli che sembrano minuti interi
ma che
non sono altro che una manciata di istanti. Quando qualcosa si smuove,
non
faccio in tempo ad assimilare l’emozione dell’udire
per la prima volta la sua
voce, che tutto finisce.
“No” è tutto quel che dice, prima di
riagganciare.
Rimango con la cornetta tra le mani, ad ascoltare il suono incessante
della
comunicazione interrotta, come se tra quei suoni acuti e cantilenanti
potessi
scorgere ancora un segno della sua presenza. Non
c’è niente, però, ad
aspettarmi. Nessuna possibilità che un nuovo secco fruscio
possa riportare a
galla le mie vane speranze.
Chiudo il telefono violentemente e poco m’importa che si sia
rotto o che abbia
subito chissà quale danno. Se solo potessi, lo calpesterei
con tanta veemenza
da renderlo inutilizzabile.
“Vaffanculo” sussurro tra me e me, mentre afferro i
braccioli della poltrona
per evitare di tramutare quel desiderio in realtà.
Ho smesso di chiedermi perché senta il bisogno di continuare
una battaglia
persa in partenza. Ho rinunciato a comprendere la parte di me stesso
che
continua ad ostinarsi in una lotta ad armi impari che probabilmente
finirà per
uccidermi.
“Stronzo” dico ancora, sfogando per la prima volta
la mia rabbia verso di lui.
“Figlio di puttana”.
Ad ascoltarmi, solo i muri silenziosi del mio salotto. A raccogliere il
mio
odio e la mia collera, solo l’oscurità della sera
filtrata dai vetri delle
finestre, appannati dalla nebbia.
E’ passato un anno.
No, non dalla caduta. Ormai ho smesso –ho fatto forza su me
stesso, sarebbe
meglio dire- di tener conto di quel determinato anniversario. Non
avrebbe comunque
alcun senso, ormai.
Dodici mesi fa, ho sentito l’ultimo respiro di Mary sfiorare
la mia mano, come
chiedendomi fino all’ultimo di raccoglierlo, di custodirlo,
di non lasciarlo
mai andare.
Ho timore che qualcuno possa ancora chiedermi come
fosse, quel respiro. Se sulla mia pelle lo avessi percepito
caldo, freddo, stentato. Ho paura
che
qualcuno possa ancora domandarmi, dopo tutto questo tempo, se Mary
avesse intramezzato
quel soffio di fiato con gemiti incomprensibili e forse nemmeno
destinati a me.
Non ricordo niente, se non il
completo silenzio, dopo quell’ultimo anelito di vita. Non
saprei nemmeno dire
per quanto avessi tenuto la sua mano nella mia, se l’avessi effettivamente stretta o invece lasciata
andare subito dopo, in un moto d’ira e negazione. Non ricordo
nemmeno di aver
visto il colore scemare dalle sue labbra già troppo chiare.
Le lenzuola del mio letto sono umide, bagnate del mio sudore. Sono
quelle di
lino a maglia grossa del corredo di mia moglie, quelle che mi ostino
ancora ad
usare nonostante l’estate ormai alle soglie. Lo vedo come il
dovere di un
marito mai comportatosi come tale.
Per quanto basterebbe questo ricordo a giustificare la mia insonnia,
essa non
dipende dal rimorso, o dal caldo, o
dall’incubo che ha tormentato la mia scarsa
mezz’ora di dormiveglia. Un clacson
dalla strada continua imperterrito a suonare, forse un tassista alle
prese con
un cliente troppo sbronzo, ma anche quello è
l’ultimo dei miei problemi.
Non vedo Sherlock da un mese.
Nemmeno un messaggio, nemmeno due righe, nemmeno quelle sue odiose
‘S.H’ a farmi
sapere che stava bene, che
non avrei dovuto preoccuparmi, che ero il solito idiota senza alcuna
fiducia
nelle sue capacità. Solo silenzio. E da Mycroft, solo porte
in faccia e
innumerevoli ‘è sotto
controllo’.
Peccato che non mi basti. Non riesco più a fidarmi di nulla
senza una prova
tangibile, come un novello San Tommaso.
La convinzione che ogni sua azione sia mirata a provocarmi apprensione
si è
ormai insinuata nel mio cervello e non accenna a volersene andare. La
sicurezza
che il suo comportamento sia strettamente legato alla mia soglia di
sopportazione
non ha più bisogno di conferme o ulteriori dimostrazioni, da
parte sua.
Ed io continuo a non reagire, crogiolandomi nella mia indolenza,
continuando a
giustificare le sue azioni come se fossero del tutto normali, come se
io
sentissi di meritare un simile
trattamento. Tutto, nella speranza che lui finalmente parli.
Che, dopo tutto questo tempo, si decida finalmente a
confessarmi quel desiderio che un tempo credevo celasse dentro di lui e
che -probabilmente-
è sempre e solo stato frutto della mia fervida
immaginazione. Mi rifiuto di
credere che abbia voluto troncare ogni rapporto, comunque. Non voglio
nemmeno
lontanamente credere alla possibilità che abbia voluto
tranciare di netto il
filo sottile che ancora ci lega, nonostante sia un misero intreccio di
freddezza,
austerità e seriosa professionalità.
Ho sempre desiderato vivere una vita serena. E’ strano
pensare come proprio le
due persone che avevo creduto sarebbero riuscite ad esaudire il mio
desiderio,
si siano rivelate le artefici del suo completo disfacimento.
Sherlock sa quanto io odi non sapere.
Conosce ogni retroscena della mia avversione, ogni dettaglio, ogni
giustificazione addotta a mille liti, sfuriate e porte sbattute in
faccia. E’
stato quasi più bravo di Ella, nello psicanalizzarmi.
Dopotutto però, è più
bravo di lei in qualsiasi cosa.
Sa del Tenente Miles¹, della spasmodica attesa,
delle ore vissute nel limbo infernale dell’ignoto. Gli avevo
raccontato tutto,
tra le lacrime strascico dell’ennesimo incubo, riguardo
l’attesa del suo
ritorno, la speranza che non fosse accaduto nulla, la stessa che aveva
spinto
me e i miei commilitoni ad interpretare quel silenzio come un buon
segno
piuttosto che come il muto annuncio di una morte ormai certa.
Ero stato felice, allora, delle parole di conforto con cui mi aveva
sorpreso e consolato.
Ero stato contento di aver condiviso un pezzo della mia vecchia vita
con la
persona più importante di quella nuova, lieto che non avesse
liquidato le mie
parole con un invito a crescere e dimenticare. Compiaciuto di non aver
trovato
un muro di austerità ad accogliermi ma un varco,
un passaggio per nulla difficile da attraversare.
Adesso capisco di non esserci mai passato davvero, attraverso quella
barriera.
Solo adesso, con il suo implicito desiderio di farmi vivere ancora un
incubo
come quello di tanti anni fa, mi accorgo che contro quel muro, mi ci
sono schiantato.
Con violenza, brutalità, dolore,
forse. Così tanto da non sentirlo nemmeno.
Mi rendo conto, in questo momento, di come quell’inesistente
via d’uscita io
l’avessi soltanto immaginata, in un’illusione di
salvezza appena prima dell’urto.
Mi accorgo solo ora, mentre le lenzuola ancora bruciano contro la mia
pelle, di
essere probabilmente morto in
quello
schianto.
E’ nel cazzo di laboratorio.
Nemmeno mi guarda. Sta chino sul suo microscopio, giocherellando con la
manopola dello zoom come se io non fossi presente e lui non vedesse
altro che
il mobilio, guardando nella mia direzione. Come se neppure percepisse
la mia
presenza, come se non fossi minimamente importante quanto qualunque
cosa tenga
sotto quel fottuto vetrino illuminato. Io non parlo. Non ho la minima
intenzione di essere quello pronto ad elemosinare un minimo cenno di
saluto. Ha
perso il diritto di esigere da me
una
cosa simile, ammesso che l’abbia mai avuto.
Dopo qualche minuto, chiudo la porta del laboratorio dietro di me
facendo più
rumore possibile, desiderando distrarlo da quanto sta facendo. Nulla mi
soddisferebbe di più che rovinare qualunque cosa si stia
rivelando più
interessante di me in questa stanza, più degno
d’attenzione del suo migliore
amico, di un uomo distrutto che ha costretto a ore –giorni- di pura angoscia, preoccupazione,
ansia per la sua sorte.
La porta sembra sortire l’effetto desiderato. Alza finalmente
lo sguardo, colto
di sorpresa dallo schiocco secco del legno contro legno e rendendosi
conto,
finalmente, di non essere solo nell’enorme stanzone.
Ha saputo di me sin dall’inizio. Ha volutamente deciso di ignorarmi, nascondendosi dietro
l’apparenza dello scienziato
completamente isolatosi dal resto del mondo. Ho imparato a riconoscere
una
menzogna. Anche se magistralmente celata sul volto impassibile di
Sherlock
Holmes.
“John” è tutto ciò che decide
di offrirmi. Il mio nome accompagnato da un
sentimento simile al disprezzo, come se sussurrato a discapito di un
‘lasciami in pace’.
“Sherlock” io rispondo, dovendoglielo. Ha parlato
per primo, dopotutto.
Mi scruta, mi studia, mi osserva come fossi una cavia da laboratorio
particolarmente riottosa e poco incline alla collaborazione. I suoi
occhi
sembrano volermi dilaniare come se muniti di unghie e artigli,
così freddi da
sembrarmi inumani per un momento. Dio, vorrei colpirlo. Con tutta la
forza che
da troppo tempo non trova sfogo.
“Ti sono mancato?” poi lui dice, con il solo e
mirato intento di innervosirmi.
“Sono stato da Molly per un po’”.
Da Molly per un po’. La
prima cosa
che dovrei chiedermi è come mai Molly non me ne abbia
parlato, come mai non mi
abbia avvisato, perché cazzo non abbia accennato
–durante le nostre sporadiche
telefonate- al fatto che Sherlock fosse a casa sua.
Non mi fido più di lei da quando è successo.
Mi ha chiesto scusa, ma ancora non ci riesco, ancora non sono in grado
di
guardarla senza ricordare ciò che ha fatto.
Questo non fa che avvalorare la mia
sfiducia nei suoi confronti. Non ha mai saputo dirgli di no. Nel bene e
nel male.
Mi ripeto di non pensarci per stare meglio, per non infuriarmi tanto da
sentirmi male fisicamente.
Già adesso
il cuore mi martella nel petto, rimbombando nella mia testa con tonfi
sordi e dolorosi.
“Credevo fossi morto” gli dico, ma non gli chiedo
cosa abbia fatto da Molly,
per tutto quel tempo. Non ho intenzione di abbassarmi al suo livello.
Non
voglio che legga dentro di me quanto
invece
vorrei saperlo.
“Una lunga assenza non implica per forza un risvolto
tragico” è la sua fredda
risposta, la sua voce impostata su un tono impersonale e quasi irritato.
“Credevo che per te le due cose andassero di pari
passo” esclamo in risposta.
Affondo il mio coltello, incurante di dove andrà a colpire.
Voglio fargli male,
dove è irrilevante.
Lo sguardo che mi rivolge è tagliente quanto un rasoio
appena affilato sulla
sua coramella. La ferita che i suoi occhi m’infliggono
è quasi pari a quella
che gli ho appena provocato, in una sorta di spietato duello
all’ultimo sangue.
E’ strano, quello che sta succedendo.
Per un anno intero ho sperato che,
dimostrando la mia buona volontà nei suoi confronti, tutto
sarebbe tornato come
prima. Per più di dodici mesi -lunghi quanto dodici anni- ho
tollerato il suo
comportamento insofferente nei miei confronti nascondendomi dietro un
sorriso,
dietro una parola dolce, ostentando una felicità mai
veramente provata. Una
serenità che ha sempre e solo fatto da maschera ad un dolore
profondo e
talmente radicato nel mio essere da sembrare impossibile da estirpare.
Ho pensato che così tutto sarebbe cambiato, che Sherlock
avrebbe finalmente
capito, dimenticando il nostro passato e decidendo di ricominciare una
vita
nuova. Mi sono messo dalla parte del torto, ignorando
l’umiliazione di dovermi
fingere colpevole di un crimine mai commesso per proteggere lui, mai
stato
abbastanza coraggioso da confessare il proprio delitto.
Sono stato uno stupido, ho gettato la mia dignità sotto i
piedi solo per lui.
Senza venir ripagato nemmeno del più insignificante dei miei
sforzi.
“Per l’amor del cielo, John” lui poi mi
dice, scuotendo la testa. “Hai
sopportato tre anni. Credevo fossi in grado di tollerare qualche misero
giorno”.
Sopportare. Lui sembra non aver ben
chiaro il significato esatto di questo verbo, probabilmente credendolo
un mero
sinonimo di aspettare, attendere. Superare,
magari.
Subire, patire, soffrire vorrei
gridargli in faccia, ma senza la forza di farlo per davvero.
Per un istante, mi rendo conto di come questo sia il primo straccio di
conversazione
vera dopo più di un anno, tra noi.
“Dio, Sherlock” io biascico, trovando appena la
forza di parlare, bramoso solo
di macchiare le mie nocche del suo sangue. “Sei
orribile”.
Lui resta impassibile. Si volta verso il microscopio e lo sposta
leggermente
verso il bordo del tavolo, come se non volesse rischiare di
compromettere il
suo prezioso studio a causa mia.
“Sei pieno di rancore” afferma l’ovvio,
poi. “Mi odi, John?” poi mi chiede,
cogliendomi del tutto impreparato. O meglio, non abbastanza preparato
per la
risposta fin troppo lunga che vorrei dargli.
Vorrei raccontargli di ogni bugia nascosta dietro finti sorrisi. Di
ogni buon
viso a cattivo gioco ostentato solo per fargli piacere, per spingerlo a
sorridere di nuovo, a perdonarmi di essermi rifatto una vita con
qualcun altro.
Nonostante noi una vita insieme non
l’avessimo mai avuta.
Non desidererei altro che parlargli delle domande che avrei tanto
voluto fargli
e che mai mi aveva permesso di porgli, dei mille ‘domani andrà meglio’
che mi ero ripetuto non credendoci mai
davvero.
“No” gli dico poi, e la mia risposta sorprende me
per primo. “Odio quello che
sei diventato”.
Io non odio Sherlock, in fondo. Non odio i suoi occhi azzurri che sono
i più
belli del mondo, non odio le sue mani che sembrano plasmate per
fondersi al suo
violino, non odio il suo modo di alzare il colletto del cappotto per
darsi
un’aria misteriosa. Non odio i suoi capelli, che a volte
accarezzavo senza
nemmeno farci caso, quando si addormentava sulla sua poltrona con la
testa
rivolta verso il divano. Non odio le sue labbra, né lo
sporadico sorriso che
conosco solo io e forse Lestrade.
Sherlock non risponde. I suoi occhi perdono ogni parvenza di durezza,
nell’intervallo di tempo di un istante. Solleva di
più le palpebre e apre leggermente
la bocca, passandosi la lingua sulle labbra come per pregustare
qualcosa che
non riesco a vedere.
Io non voglio aspettare. Ho aspettato fin troppo.
“Odio il fatto che tu non abbia più cercato alcun
dialogo con me, da quando sei
tornato. Odio il fatto che tu mi abbia colpevolizzato di qualcosa che
non ho
mai commesso, che tu mi abbia fatto pesare una vita intrapresa solo nel
tentativo di sopportare la tua mancanza” adesso sto gridando
e forse l’intero
piano può sentirmi, ma non me ne frega niente, non in questo
momento. “Non
sopporto il fatto che tu non mi abbia concesso nemmeno una fottuta
parola di
conforto al funerale di Mary. Detesto Bach e il tuo continuare a
suonarlo in
mia presenza, così come non tollero la tua mania di usare
qualunque cosa per
tenere il segno sui nostri libri. Non sopporto le tue telefonate
silenziose e
il tuo non rispondere mai alle mie quando nulla mi farebbe
più felice, e
credimi Sherlock, che sentire la tua voce all’altro capo del
filo”.
Non posso guardarlo. Mi vergogno, nonostante non ne abbia motivo.
“Odio non sentirti per tanto tempo. Odio ogni momento in cui
non ci sei e mi
rendo conto di non poterti cercare. Non sopporto il fatto che tu
sparisca da un
momento all’altro comportandoti come se io non fossi mai
esistito, senza
degnarti nemmeno di dirmi che stai bene, che tornerai presto o che,
probabilmente, sarai impegnato ancora per qualche giorno. Ti ho sempre
fatto
pesare il tuo continuo mandarmi messaggi, anche per le cose
più stupide. Sono
stato io, lo stupido. Quello che davvero mi fa sentire male adesso,
male come
nemmeno ti immagini, è non sentire più quel suono
snervante, seguito dalla
certezza di una tua parola, anche la più sciocca. Mi sarebbe
bastato anche uno
solo di quei messaggi. Solo quello, e non ti avrei chiesto
nient’altro”.
Ho bisogno di prendere fiato.
“E, alla fine di tutto, odio aver messo da parte Mary. Odio
aver imposto su di
lei la tua immagine, ho disgusto di me stesso per averla lasciata
semplicemente
andare. Per aver sempre e solo,
anche
dopo la sua morte” Se potessi, se solo avessi la
capacità di farlo, catturerei
nei miei polmoni tutto l’ossigeno presente in questa stanza.
“…voluto te al mio
fianco, prima di chiunque altro. Prima di lei.
Quasi trovando sollievo nella sua scomparsa, un modo per far
sì che le cose
tornassero come prima”.
Voglio parlare, adesso che ho trovato la forza, il coraggio. Mi sono
messo in
gioco e accetterò qualunque verdetto. Perdere non mi
spaventa. Non ho più nulla,
in fondo.
Sherlock non ha distolto per un secondo gli occhi da me. Il microscopio
ha
perso ogni interesse, così come la piccola tabella
scarabocchiata a penna, alla
stessa maniera di qualunque altra cosa nella stanza non sia io.
Mi guarda come mi aveva guardato quella prima volta in questo stesso
luogo, con
la stessa curiosità mista ad interesse che avevo letto nei
suoi occhi quel giorno. Mi fissa
come se mi
ritrovasse oggi dopo vent’anni di lontananza, mappando ogni
particolare del mio
corpo come per valutare quanto io fossi cambiato durante tutto quel
tempo. Ogni
tratto del suo volto è pregno d’insicurezza
–i suoi occhi sono socchiusi, quasi
intimiditi-
e allo stesso tempo di un’emozione a me
sconosciuta.
Sembra un’altra persona rispetto all’uomo
distaccato e arrogante di poco fa.
Sembra uno Sherlock del tutto nuovo, un se stesso che non ho mai
conosciuto e
che vedo adesso per la prima volta, che nulla più conserva
di quello vecchio se
non il corpo e le fattezze.
“Oh, John” Sorride. “Tu non hai idea di
quanto io odi te, quasi allo stesso modo”.
La sua risposta è raggelante, inaspettata, troppo forte
perché io possa
incassarla senza alcuna reazione. Non è quello che mi sarei
aspettato, nemmeno
lontanamente.
E’ il sentimento sbagliato,
non
quello che avrei desiderato ci accomunasse, non certo uno di quelli che
avevo
sempre sperato avremmo condiviso.
Voglio sapere. Allo stesso tempo però, è
l’ultima
cosa che desidero.
Lui si avvicina. Una nota acidula appena accennata ha preso il posto
del
profumo dolciastro e costoso che indossa sempre. Mi chiedo quando abbia
deciso
di cambiarlo. Non so più davvero niente, di lui.
“Io, John” lui finalmente parla, poggiato al
bancone più vicino ma comunque ben
lontano. “Io odio il tuo odio”.
La lingua è nuovamente sulle labbra, adesso. In altri tempi
mi sarebbe piaciuto
pensare di avergli passato io quella piccola mania.
C’è ghiaccio nei suoi
occhi, ma non freddezza. E’ tutto stranamente caldo, adesso.
La cosa mi spiazza
ma non riesce a confortarmi, neanche un po’, praticamente per
niente. Ho paura.
Parla. Finalmente Sherlock mi sta parlando e io sono troppo spaventato
per
essere sicuro di reagire come una persona razionale. Sono un fottuto idiota.
Sherlock è più vicino. Non mi sono nemmeno
accorto dei suoi passi.
“Sai cosa non sopporto, John? Che tu ti sia limitato a detestare Bach. Che tu sia rimasto ad
ascoltarmi senza dire niente,
sorridendo quando avresti dovuto gridarmi contro di smetterla. Che tu
sia
venuto da me con la tua tazza di the, accettando la mia ennesima porta
in
faccia senza minimamente opporti” Sherlock dice, a ruota
libera, cercando i
miei occhi ogni qual volta li distolgo dai suoi. Il mio respiro si fa
più
stentato, affaticato, come quello di un vecchio a cui ormai pesa anche
il
minimo sforzo. Anche il semplice reggersi in piedi.
“Odio che tu non mi abbia fatto veramente capire quanto
tenessi ai tuoi libri,
limitandomi a darmi un buffetto sulla guancia come avessi due anni.
Odio che tu
non mi abbia chiamato stronzo, figlio di
puttana, bastardo insensibile
al
telefono dopo aver capito chi io fossi, dopo esserti reso conto del
fatto che
fossi io ogni maledetta volta. Odio che tu non mi abbia cercato in
lungo e in
largo, John, per la tua sciocca paura di ferirmi. Odio i tuoi falsi
sorrisi, la
tua ipocrisia, il tuo ostinarti a volermi compiacere nella speranza di
un perdono
di cui non hai alcun bisogno”.
Respiri. Il mio e il suo, all’unisono. Non so cosa dire. Non
so come dirlo. Non
so se riuscirò davvero a dire qualcosa, alla fine di tutto
questo. Non sento
più il cuore. Solo un dolore al centro del petto, che non
sembra accennare a
diminuire.
“Non sopporto che tu non mi abbia mai accusato
di averti distrutto la vita, John. Che tu non mi abbia mai fatto
davvero star male per il modo in
cui ti ho trattato,
ignorandoti quando sei stato il motivo principale di tutto
ciò che ho fatto,
rifiutandoti di scavare a fondo nel motivo del mio gesto. Odio che tu
abbia
soltanto voluto cancellare quello che è successo, esigendo
da me che tutto tornasse
come prima, come se niente fosse. Odio che tu mi abbia permesso di
trattare tua
moglie, la donna che ti ha salvato, così come ho fatto, come
la mia indole ha
inevitabilmente dovuto fare. Odio
che
tu non abbia voluto che io
rispondessi, quella volta al suo funerale. Detesto che tu non mi abbia costretto a dirti questo molto ma molto
tempo fa”.
Mi chiedo se riesca davvero a fare a meno di respirare. Mi chiedo se io
ne avrò
mai più bisogno, d’ora in avanti. Mi sento morire,
pian piano, crollare pezzo
dopo pezzo come un palazzo senza più stabili fondamenta.
Vorrei dire così
tanto, ma non trovo le parole neppure per dire a me stesso di
resistere, di non
cedere proprio adesso.
“Odio il senso di colpa che mi ha quasi ucciso, per tre anni
interi. Odio il fatto
che, al mio ritorno, tu mi abbia ascoltato quasi con disinteresse, come
se non
fosse successo niente, come se la mia lontananza non avesse minimamente
scalfito la tua vita come invece aveva fatto con me.
L’importante per te era
tornare alla nostra vecchia vita, fare come se nulla di grave fosse
successo, e
per quanto mio fratello mi abbia più volte esortato a
prenderla come un segno
positivo, io non ci ho mai visto niente
di buono nella tua indifferenza. Mi
hai spinto a pensare che in realtà non te ne sia mai davvero
importato di me.
Della nostra amicizia. Di quello che c’è sempre
stato tra di noi ma che non
abbiamo mai davvero visto. Mi hai
costretto a credere che se me ne fossi andato un’altra volta,
per altri tre
anni o anche di più, a te non te ne sarebbe importato, a
patto che prima o poi
sarei comunque tornato a ristabilire i tuoi equilibri. Anche a costo di
fingere
per il resto delle nostre esistenze. E’ questo che odio,
John. E’ questo il
motivo di tutto. Questa l’unica ragione che ha reso
quest’ultimo anno un inferno
quasi più dei precedenti”.
Ha smesso di parlare. La sua voce rimbomba nelle mie orecchie come
l’eco di un
violento colpo di gong, come un grido lanciato in un’enorme
stanza
completamente vuota. Ogni sua parola, ogni frase, ogni minuscola sfumatura del suo tono profondo riempie
il mio cervello confondendolo e inasprendo il dolore alle tempie,
costringendomi a riascoltarle in continuazione come il nastro inceppato
di una
vecchia cassetta.
E’ chiaro, lampante, ovvio nella sua complessità.
Forse la verità, l’unica e
sola, è sempre stata davanti ai miei occhi. Forse, io sono
sempre stato troppo
impegnato a fingere di desiderarne un’altra, per poterla
vedere come è realmente.
Abbiamo combattuto una guerra senza accorgercene, io e lui. La stessa guerra, da avversari convinti di
essere invece schierati nella stessa fazione. Abbiamo lottato per lo
stesso
obiettivo, perseguendo il desiderio di avvicinarci e, invece,
allontanandoci
ancora di più.
La colpa più grande, in fin dei conti, è solo
mia.
Quando lo avevo rivisto, un anno fa, ero stato talmente felice di
riaverlo con
me che la paura di poterlo perdere ancora aveva prevalso su qualunque
altro
sentimento. Il sollievo aveva offuscato la rabbia, il risentimento, la
frustrazione dovuta a quell’apparente mancanza di fiducia, a
quella –almeno in
superficie- manifesta dimostrazione di indifferenza verso di me e i
miei
sentimenti. Avevo deciso di tacere, di non dare mai sfogo a quella
domanda che
ogni tanto sovveniva alla mia mente e che ogni volta mi affannavo a
scacciar
via dai miei pensieri; avevo deciso di cancellare quel ‘gli sarà mai importato davvero qualcosa,
di me?’ dal mio cuore e
dal mio cervello.
Non avevo chiesto, convincendomi di non voler sapere la risposta. Ero
venuto a
patti con la mia coscienza, costringendomi a resistere, a non
sottoporgli quel
dubbio che aveva tormentato per tre lunghi anni la mia vita e quella di
mia
moglie.
E il mio comportamento, che tanto avevo ritenuto opportuno, giusto, il mezzo con il quale avrei
ripreso in mano le redini della mia vita, aveva invece sortito
l’effetto opposto.
Lui aveva cercato in ogni modo di farmelo capire, lasciando che
leggessi tra le
righe qualcosa che non ero riuscito a scorgere, gridandomi in faccia il
suo
dolore e la sua rabbia con piccoli -significativi-
gesti che io non avevo inteso. Aveva atteso che io afferrassi il suo
polso e lo
costringessi a lasciare incompiuta quella melodia tanto odiosa. Aveva
fortemente
voluto che io gli lanciassi dietro uno di quei famosi libri,
esattamente come
aveva desiderato che io gli gridassi di parlarmi, a quel telefono, non
accontentandomi di ulteriore silenzio. Aveva desiderato con tutto se
stesso
che, quel pomeriggio al cimitero, io gli domandassi come mai non avesse
reagito
alle mie parole, come mai non avesse risposto alla mia domanda con
un’altra,
com’era sempre stato solito fare. Aveva voluto fino
all’ultimo che io mi
destassi dal mio coma, da quel
dormiveglia in cui mi ero rifugiato e che mi stava lentamente
logorando,
annebbiandomi le idee e influenzando il mio pensiero coerente.
Ed io, mi sono svegliato soltanto adesso.
“Hai capito, John?” Sherlock mi chiede, e il mio
sguardo corre immediatamente a
cercare il suo. “Lo vedi,
ora?”.
Lo vedo. Vedo il contorno di una verità nuova ma sempre
esistita. E’ così
nitida, vera, reale, che mi
costringere a chiudere gli occhi per un istante. La vedo pian piano
diventare
più solida, riempirsi di
immagini,
parole, fatti. Di voci, ricordi, sensazioni.
Mi sembra di essere tornato indietro nel tempo, come se fino ad ora
avessi
solamente sognato, come se nel mio torpore io avessi soltanto immaginato quella che sarebbe stata la
mia vita. Questa stanza è diventata improvvisamente il
centro del mio Universo,
il fulcro su cui tutta la mia vita potrebbe incentrarsi senza farmi
rimpiangere
mai nessun’altro posto al mondo.
Tra le file di microscopi e scaffali, c’è tutto
quello di cui ho, ho avuto e
sempre avrò bisogno.
“Sì, Sherlock” gli rispondo, finalmente.
“Vedo ogni cosa”.
E Sherlock, finalmente, sorride di
nuovo. Non c’è ironia, né distacco,
né qualunque altro sentimento mirato a
ferirmi. C’è solo il sorriso di uno Sherlock felice.
Non lo stesso sorriso che aveva addolcito i suoi tratti dopo un caso
brillantemente risolto, una corsa a perdifiato per beccare
l’ultimo treno della
metro o dopo aver inventato un insulto particolarmente creativo per
Anderson.
E’ il sorriso che mi aveva
regalato
dopo il concerto di musica classica alla Royal Albert Hall in cui lo
avevo
trascinato facendogli credere –piccolo vanto personale- fosse
un’esibizione del
mio gruppo rock preferito. E’ l’identico sorriso
che mi aveva rivolto quando
avevo inavvertitamente sfiorato la sua mano, seduti sulle poltroncine
dell’elegante Sala Concerti, e lui mi aveva visto arrossire
furiosamente. La
serata più bella di tutta
la mia
vita. Anche di quella del mio matrimonio, cento, mille
volte più bella.
La sua mano, quasi leggendo nei miei pensieri, sfiora appena la mia ma
non la
afferra né la stringe. E’ solo un tocco, un
saggiare la scabrosità della mia
pelle, un accertarsi che io sia ancora qui per
davvero.
Io annuisco. Ho capito e mi dispiace non averlo fatto prima. Sono
terribilmente
amareggiato di aver vissuto con gli occhi bendati fino a questo
momento,
costringendoci entrambi a quest’attesa.
E’ davanti a me, adesso. Pochi centimetri ci dividono, ma non
bruceremo
ulteriormente le distanze, stasera.
Sfioro il suo polso, lentamente. Il suo battito è irregolare
ma forte, e le
vene pulsano contro le mie dita come se mi stessero dettando un
messaggio, in
un alfabeto morse di sangue e carne. ‘Parla’,
sembrano dire. ‘Parla
adesso’.
“Ti ho sognato ogni singola notte e ogni singolo giorno, in
quei tre anni. Ho
passato giornate intere seduto sulla mia poltrona a chiedermi
perché lo avessi
fatto, a domandarmi se tu avessi mai tenuto davvero a me.
Perché tu avessi
voluto che io vedessi. Poi al
dolore
è subentrata la rabbia, Sherlock. Ti ho insultato, svilito,
annientato. Ti ho
maledetto, persino.”
Chiudo gli occhi.
“E io ti odio, per quello che hai fatto. Ti odio per avermi
lasciato solo e per
avermi guardato rovinare la vita di un’altra persona senza
muovere un dito. Ti
odio per non avermi detto niente prima, per non esserti fidato di me
abbastanza. Ti odio perché non mi sono mai sentito
così, perché ho visto morire
tanta di quella gente riuscendo sempre ad andare avanti, ma non con te.
Ti odio perché mi hai reso una persona migliore ma
completamente dipendente da
te.
Ti odio perché mi sei mancato così tanto che,
ogni singolo giorno, ho avuto paura
di non farcela²”.
E’ quello che voleva sentire, quello che ha sempre, in cuor
suo, desiderato che
gli dicessi.
Lo leggo nei suoi occhi. Lo leggo sulle sue labbra e sulla lingua che
di nuovo
le lambisce, nel respiro irregolare, nelle sue dita che portano
indietro i
riccioli sulla fronte più spesso del dovuto.
Un respiro. Poi un altro.
“E a me dispiace aver dovuto farlo. Mi dispiace aver dovuto
mentire, mi
dispiace aver dovuto riporre la mia fiducia in sconosciuti, preferendoli –mio malgrado- a
te. Odio
me stesso per non aver mai alimentato in te una speranza, per non
averti
fermato prima del sì
nonostante io
fossi là a guardarti, illuso che fosse vera felicità
quella sua tuo viso. Mi dispiace di aver preso la decisione
più dura di tutte,
di essere stato costretto a proteggerti nel modo più
drastico e doloroso che
esistesse. Mi detesto per essere stato la causa del tuo dolore quando
mi ero
ripromesso, senza aver coraggio di dirtelo, che non ti avrei recato mai
alcun
danno. Che ti avrei protetto, sempre e comunque. Ma in tutto questo, di
una
cosa non riesco a pentirmi, John” la voce è andata
via via scemando, arrochendosi
e diventando più lieve, rotta da una profonda commozione.
“Ed è l’averti
conosciuto e permesso, quasi per caso, di diventare parte della mia
vita”.
E’ la disfatta. La sconfitta che allo stesso tempo
è una vittoria, l’incontro
di due Sovrani avversari che gettano in terra le spade raggiungendo una
tregua,
un patto di non belligeranza. E’ lo scambio equo di doni da
parte di due
fazioni opposte che si scoprono improvvisamente interessati al medesimo
scopo,
l’accordo di due eserciti rivali che uniscono le proprie
forze per un unico
obiettivo. E’ nuova vita, è speranza, è
futuro,
lì dove non sembrava potercene essere uno.
“E mi manchi anche tu” sussurra, e so per certo che
Sherlock non l’abbia mai
detto a nessun’altro oltre a me. “Casa nostra
è vuota, morta, senza di
te. E nulla al mondo mi renderebbe più felice che
riaverti con me”.
E’ la domanda che ho cercato, inseguito,
desiderato con tutto me stesso sin dal giorno del suo ritorno.
Sentirla,
finalmente, scandita in un mormorio dalle sue labbra, mi fa dubitare di
trovarmi in un sogno dal quale, inevitabilmente, sarà
tremendo svegliarsi.
Ma lui è qui e mi sta toccando, le punte delle dita che
sfiorano le mie, un
minimo contatto che per me equivale quasi ad un abbraccio.
E la mia risposta è, nonostante tante volte lo avessi
negato in sua presenza, è stata e sempre sarà una
sola.
“Sì, Sherlock” rispondo, e non ho
più nessun dubbio. “Verrò con
te”.
Da qui in avanti, potrebbe succedere qualunque
cosa e a me basterebbe solo avere la sicurezza che lui non
lascerà mai più
il mio fianco, d’ora in poi, per non aver più
timore di nulla.
Non so cosa accadrà e mi sorprende pensare a come non
m’interessi poi molto, in
fondo. Mi sento libero, nonostante
siano ancora tanti, troppi, i pesi che sono costretto a portare sulle
spalle e
da cui forse, prima o poi, riuscirò a liberarmi
completamente.
Mi fa ancora male pensare a Mary, ma in questo esatto momento, mentre
Sherlock
sorride di nuovo, non riesco a non pensare a quanto stia sicuramente
meglio
dov’è ora. Non l’avevo mai meritata, in
fondo, così come lei non aveva mai
meritato un matrimonio dettato soltanto da un’affettuosa gratitudine. Non c’era mai
stato davvero amore, tra noi. Non avevo
dimostrato a quella donna nemmeno il pallido riflesso di quello che
sarei stato
pronto a donare a Sherlock nella sua totalità.
Forse era sempre stato scritto così.
Non so neppure cosa succederà da qui a un’ora,
dopotutto. Di quello che accadrà
domani, fra un mese o un anno, non ha veramente importanza.
Forse usciremo da qui fra cinque minuti, forse fra dieci, forse
chissà. Magari
andremo a casa mia, prima, o più probabilmente a casa nostra, che mi manca tanto, troppo,
nonostante non ci viva
stabilmente da tanto tempo.
Forse parleremo di quello di cui non abbiamo mai avuto il coraggio di
parlare.
Magari lo faremo seduti al tavolo della cucina, con una tazza di the in
mano, o
seduti sulle nostre poltrone, occhi negli occhi, bagnati dalla luce
calda del
pomeriggio.
Forse gli darò un bacio. Forse lui ne darà uno a
me.
Magari dopo mi permetterà di sfiorargli il viso, le labbra,
i capelli scuri e
la curva armoniosa del torace. O forse sarò io a
lasciarglielo fare.
Forse dopo mi chiederà di fare l’amore con lui. Di
insegnarglielo, magari. O forse
prenderò io l’iniziativa. O forse
inizieremo entrambi. Lo faremo e basta.
Qualcosa però, so di certo.
So che la prima tazza di the che preparerò al mattino
sarà la sua, non più la
mia. So che lo costringerò a inviarmi così tanti
SMS per rimediare all’antico
silenzio che sarò costretto a impostare il cellulare su
silenzioso praticamente
per l’intera giornata.
So che non troverò mai più pesante raccogliere i
suoi fogli da musica dal
pavimento, dopo l’ennesima esecuzione del Capriccio
n°4 di Paganini o del Concerto
in Re
maggiore di Tchaikovsky.
So che non rimpiangerò mai più la
tranquillità del nostro appartamento, quando
arriverà da me trafelato a chiedermi di seguirlo
nell’ennesima avventura.
So che, anche se non oggi e non domani, l’amore lo faremo per davvero.
“Ti aspetto, domani?” Sherlock poi mi chiede.
“Puoi raccogliere le tue cose,
oggi”.
Io annuisco. Ha risposto ad una delle mie domande. Domani è
onesto, domani è il
giusto equilibrio. Domani
è tollerabile.
“Ti chiamerò, domattina” Sherlock mi
assicura. “Ti sveglierò?”.
Sorrido. C’è un’altra cosa che so, a
proposito.
So che non saranno più gli incubi a svegliarmi
all’alba, ogni maledetta mattina.
So che, d’ora in poi, la luce del sole negli occhi non
sarà più dolorosa ma confortante.
“Svegliami” è quello che voglio,
nonostante fino a ieri non avessi desiderato
altro che godere di un lungo sonno senza sogni. “A qualunque
ora, in qualunque
momento. Ma fammi sentire di nuovo la tua voce” dico ancora.
Le mie necessità sono
cambiate, adesso.
Fa un altro passo verso di me.
Forse mi regalerà un’altra carezza.
Forse non dovrò aspettare ancora molto, per quel bacio.
Forse, ma non so. Può darsi.
Forse, ma adesso non importa.
¹ E’
riferito al personaggio (con
tutt’altra psicologia) di una bellissima raccolta di
one-shots ispirata ai
peccati capitali, Seven
Deadly Sins di Whitelily_.
Ve la consiglio caldamente.
²
E’ una citazione leggermente rivisitata dal film
‘Brokeback Mountain’, il mio preferito. Non mi
stancherò mai di consigliarlo!