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Autore: GiadaGrangerCullen    28/05/2013    2 recensioni
Il destino di una rosa è legato a quello di una bambina di dieci anni, che imparerà il valore delle cose e dovrà constatare che niente è per sempre, le cose cambiano e svaniscono, così come lei dovrà crescere.
Dalla storia:
"Le sue spine, però, non bastarono a proteggerla: la mano di una bimba gioiosa accostò ad essa una forbice che recise il suo stelo dal roseto."
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il sole sbucava timido da dietro le case imporporando il cielo mattutino, mentre la rosa, fiera della sua bellezza, schiudeva piano i suoi preziosi petali. Era raro trovarne una così bella: non era di uno di quei banali rosa, rosso o bianco, non aveva una di quelle tinte finte come il blu, ma riluceva nel suo intenso giallo-aranciato con ai bordi delle sfumature rosso sangue. Vederla dava una sensazione di calore, tanto che pareva una fiamma.

Le sue spine, però, non bastarono a proteggerla: la mano di una bimba gioiosa accostò ad essa una forbice che recise il suo stelo dal roseto. Nessuna compagna poté piangere la scomparsa della fiamma del giardino...

 

 

Debora era scesa dallo scuolabus e percorreva la breve strada fino a casa canticchiando, tanto era entusiasta della mattinata appena trascorsa: nessuna verifica, ricreazione particolarmente lunga, la consapevolezza di aver preso “Ottimo” nel compito di grammatica e, soprattutto, il sorriso che la maestra le aveva riservato quando le aveva portato quella rosa che con molta cura aveva raccolto nel suo giardino. Era la prima della stagione, di un tipo insolito però, e aveva aspettato con trepidazione che quel bocciolo si trasformasse in un fiore stupendo e quel giorno era finalmente arrivato; era sbocciato.

Una volta arrivata scaricò lo zaino davanti al portone d'ingresso e non si curò nemmeno di salire per il pranzo, suonò due volte il campanello per avvisare sua madre che era tornata e si precipitò a chiamare i suoi amici per giocare. A poco serviva che la madre la pregasse di presentarsi a mangiare, quando iniziavano le belle giornate Debora viveva per giocare in giardino e sua madre, per far in modo che non si nutrisse solo dei frutti acerbi che rubacchiava dagli alberi, doveva sempre portarle giù qualcosa che potesse condividere anche con i suoi amichetti. Dall'alto dei suoi dieci anni, Debora dettava legge, soprattutto d'estate. Per sua madre era un'eterna lotta farle fare i compiti: doveva chiudere la porta e nascondere la chiave appena lei rientrava momentaneamente in casa e solo dopo pianti e capricci la bambina si decideva a fare il suo dovere alla bell'e meglio: aveva troppa fretta di tornare a divertirsi. Inspiegabilmente però, i suoi voti erano sempre molto buoni, così i genitori non s'affliggevano della sua indole spensierata ed allegra, anche perché del resto Debora non si era mai dimostrata spericolata o sprovveduta, anzi sembrava possedere un buon senso poco comune per la sua età, tanto che faceva già delle piccole commissioni al supermercato senza che il cassiere antipatico riuscisse mai ad imbrogliarla sul resto e godeva già da un anno del privilegio di restare a casa da sola, quando sua sorella maggiore l'aveva ottenuto solo a dodici anni.

Quel pomeriggio, infatti, mentre con la sua migliore amica riempiva di terra e margherite il piatto nel quale aveva mangiato poco prima, sua madre venne a dirle che sarebbe rimasta sola per un po', ma non prima di averla sgridata per il pasticcio combinato. Poi se n'era andata portandosi via il vassoio della loro torta di fango e, dopo pochi minuti, lei vide l'auto dei suoi genitori allontanarsi. Era ora di trovare un nuovo gioco da fare, delle risate provenienti dal retro della palazzina fece venire loro in mente di fare un'incursione nella zona dei maschi.

“Voglio fare io il capo oggi! Tu l'hai fatto ieri e in più hai strappato la rosa dal giardino! Non ne avevi il diritto, i fiori sono di tutti, non solo tuoi!” fece l'amica impuntandosi.

“Cosa c'entra quella maledetta rosa! La prossima la prendi tu, okay?” rispose e vide l'amica sorridere. “Comunque è giusto che il capo lo faccio* io, sono più grande!”

In quel momento però, un odore strano attirò la loro attenzione, smisero di battibeccare e si guardarono intorno: una lieve spira di fumo iniziava ad innalzarsi dal tetto della palazzina dove entrambe abitavano insieme ad altre quattro famiglie.

“Non dirmi che il signor Verdi ha acceso il caminetto con questo caldo!”

“Ale, nemmeno lui può essere così freddoloso! Secondo me c'è qualcosa sotto... Probabilmente i maschi ci hanno preceduto nell'intento e vogliono attirarci nella loro tana!”

“Deb, non sono così sciocchi da appiccare un fuoco!”

“Potrebbero essere delle pistole spara-fumo...”

“Non dire idiozie, non esistono! Meglio che avvisiamo mia mamma...”

 

 

 

Le sirene dei Vigili del Fuoco avevano smesso di suonare da un pezzo; peccato, a Debora piaceva così tanto quel suono, molto più di quello dell'acqua che dai manicotti si infrangeva sulle mura della casa, molto più della consapevolezza di non averla più, la casa. L'appartamento dei suoi genitori era finito carbonizzato e per fortuna l'incendio non era dilagato in tutta la palazzina. Meno male che lei e Alessia si erano accorte del fumo e avevano avvertito i grandi!

Sua madre e suo padre erano disperati: quella stupida di sua sorella – sì, diceva la parola proibita – aveva lasciato acceso il fornello e da brava incosciente svampita aveva pure rovesciato l'acetone per le unghie poco distante, così una scintilla aveva fatto dilagare le fiamme.

Ora dove sarebbero andati? Cosa ne era delle sue bambole, dei suoi vestiti, di tutte le sue cose? Ciò che non era bruciato probabilmente era affumicato o comunque annaffiato da tutta quell'acqua che serviva a spegnere il fuoco.

Debora fu mandata a dormire a casa di Alessia, mentre gli adulti lavorarono fino a notte fonda per salvare il salvabile dall'appartamento e asciugare tutta l'acqua che, attraverso le pareti, era filtrata anche negli appartamenti ai piani inferiori. Facevano molto rumore e la porta d'accesso doveva restare aperta, così come la luce accesa, perché sul pianerottolo e dalla parte opposta della casa l'elettricità era saltata. In queste condizioni Debora non riusciva a prendere sonno: fissava il soffitto, combattuta fra la tristezza e la sensazione di potere che avrebbe riscosso a scuola raccontando ai compagni quel che era accaduto, sicuramente aggiungendo particolari che l'avrebbero resa eroica. Era sicura che fino al giorno prima si sarebbe comportata proprio così, avrebbe fatto di tutto per attirare l'attenzione e l'ammirazione degli altri bambini, ma ora le sembrava ingiusto sfruttare una situazione del genere per apparire, per suo interesse personale. Fra queste riflessioni si accorse che le persone cambiano e una paura le si fissò nel petto: sarebbe diventata una di quelle bambine frignone? No, no, non poteva. Eppure si sentiva diversa, in qualche modo non era più la stessa bambina che quella mattina aveva condannato a morte prima del tempo una rosa. Era forse cresciuta? Bastava un solo pomeriggio per crescere? Se crescere voleva dire farsi tutte quelle domande, forse, non era una cosa che le piaceva e avrebbe preferito evitarla.

 

 

La fiamma era tornata, il suo impeto aveva sancito la vendetta. E mentre la rosa gialla moriva in un vaso, il fuoco estirpava l'innocenza di una bambina.

 

 

 

 

*Errore volontario, i bambini spesso non parlano correttamente.







Dopo mesi di assenza ho ritrovato una vaga ispirazione. Spero che questa mia storia vi sia piaciuta, anche perché nascosta fra i vari personaggi si nasconde una piccola me.
Spero mi lasciate un commentino.
A presto,
GGC :D

   
 
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