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Autore: Matt Brendan    15/12/2007    3 recensioni
Non è che odio il Natale, è che a volte trovo così falso che le persone sorridano pensando che sia il periodo più bello dell'anno. Ho conosciuto una persona e ho deciso di scrivergli e dedicargli un racconto per far capire a chi legge cosa si prova ad essere soli... [Ah, la poesia di apertura è mia, non me la sentivo di rovinare quella di qualcun altro ~]
Genere: Malinconico, Poesia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Addobba tu l’albero

Addobba tu l’albero
che puoi e vuoi
e vivi nel perfetto
mondo della santità.

Riempilo di colori,
di sfide, di preoccupazioni,
apparenze e spiriti.

Addobba tu l’albero
e cogli la pace
della neve che non verrà.

Lascia posto per i doni,
lascia posto alle glorie
di una vita che si spende
nella devozione aurea.

Addobba tu l’albero,
attendi che la candela
si consumi e
nasconda i tuoi peccati.

Lacrime di Cenere

Trascina i piedi stanco nella neve e si rende conto di essere abbastanza solo al mondo. Tutta la sua città è spenta, nella vigilia di Natale; tutti i suoi amici sono al centro commerciale a fare spese, tutti i genitori saranno ancora a sistemare l’abete o a pulire il muschio in eccesso sul presepe e lui è lì, solo, che cammina.
Si porta una mano alla bocca e sbadiglia: il giorno più bello dell’anno, per tutti gli altri, arriverà in poco meno di dodici ore. Aprendo il cancello guarda l’anziana signora del terzo piano sbirciare facendo la maglia; si avvicina lentamente al portoncino sul retro e lo spinge con forza cercando di fargli male, ma nulla di questo potrà renderlo felice.
È in quell’istante, salendo le scale, che capisce che qualcosa non sta andando. Sì, la festa più amata arriva, la festa più amata.
La festa più amata da sua madre, la festa più amata da suo padre, da suo fratello, ma di questi tre sembra non esserci più nessuno.
Aprendo la porta di casa non prova nessun cambiamento di temperatura: evidentemente sono tutti partiti quella mattina senza accendere il riscaldamento e ora toccherà a lui. Toccherà a lui rigirarsi le maniche e fare un bel fuoco nel camino cercando di non pensare alla giornata passata vedendo tutti i ragazzi felici di vivere la pausa scolastica.
Eppure lui non è così diverso da loro, ma loro...
Si prende un momento di pausa dopo aver buttato le chiavi nel portaoggetti a lato della porta e guarda se qualcuno ha lasciato messaggi in segreteria.
Sì, due.
Incomincia il nastro gracchiando e ricordandogli quante volte non l’ha cambiato e ha detto “domani lo farò”, poi la voce di suo fratello gli ricorda che si vedranno solamente la mattina dopo per il pranzo dagli zii, che lui dorme dalla ragazza della sua vita.
Ecco, il primo esempio di solitudine; anche se non si sono mai sopportati, sono fratelli. Così come terra e luna non hanno spazi in comune, loro vivono in orbita tra loro, ma il piccolo satellite naturale si è appena scontrato con la fascia di asteroidi.
Guarda fuori dalla finestra e nota che ogni tanto il cielo sembra mandare raggi di luce particolari che lasciano trasparire immagini nelle nuvole che prima d’ora non ha mai guardato.
Preme il pulsante della cancellazione e ascolta il secondo messaggio.
Papà è con mamma - così dice - fino alla sera per alcune cose per Natale.
Mamma.
Perché deve abituarsi a chiamare mamma quella  donna, che forse di mamma ha poco niente per lui?
Ogni volta che si sentiva sotto pressione per questo fatto, tirava fuori dallo scaffale la foto di sua madre regalata a tutti i cari quando era arrivato il momento della sua dipartita e suo padre capiva che forse era ora di lasciare per qualche momento fuori casa quella donna che stava cercando di volere bene a figli non suoi.
Poi però era cresciuto e così suo padre aveva capito che non c’era più nulla da fare, che erano solamente scene programmate per farlo sentire male, per farlo sentire un bastardo traditore.
Cancellando anche il secondo messaggio lascia andare un sospiro e si butta sul divano. Si copre gli occhi con un braccio: starà così per molto? Crede di sì. Potrebbe anche addormentarsi senza dare spiegazioni a nessuno.
Sente il cellulare muoversi nella sua tasca e controlla se è la sua speranza, ma si accorge che è solo l’ennesimo messaggio su come mandare gli auguri gratis per tutte le vacanze.
Eppure una volta c’era la magia nei suoi occhi, in quelle sere, sdraiato sul tappeto, davanti al camino a guardare i pacchi dono e seguire distrattamente il concerto di Natale in televisione con mamma e - pochissime volte - papà; una volta c’era la passione di un bambino senza troppe preoccupazioni.
Ride del suo passato. Quando era piccolo era così stupido da dover nascondersi in camera per non innervosirsi pensando ai pacchetti sotto l’albero da aprire e a tutte quelle cose che lo aspettavano. Quando era piccolo pensava anche che sarebbe rimasto per sempre abbracciato alla madre come in una lunga favola di Natale. Poi è successo quel che è successo e si sono ritrovati in tre a crescere insieme.
In un momento di follia accende di nuovo l’albero e controlla che tutte le luci si accendano correttamente come sua madre voleva che fosse; si mette a fischiettare una delle tante canzoni di Natale che avevano coronato le vigilie della sua infanzia e capisce quanto solo può sentirsi un uomo quando la propria famiglia si spezza - certo, involontariamente - e quando ormai tutto non ha più senso.
Si accorge di tante piccolezze che i suoi amici non guarderanno mai, che non proveranno mai. Eppure sono sempre loro ad avere delle storie a casa difficili, perché suo padre (che vive con lui un giorno al mese quando va bene) non si presenta mai a parlare con i suoi professori e non sanno tutto quello che ha provato e che ha dovuto provare; ma gli altri...
Ha un momento di invidia per quegli altri: in un gesto brusco prende una delle palline alla base dell’albero, una delle tante di troppo, e la butta per terra. Non contento la calpesta, cerca di sbriciolarla. Il Natale, per lui, non ha senso.
Guarda quei piccoli pezzetti di plastica rossa e pensa a quante volte l’avrebbe voluto fare. Forse con la testa di quello seduto davanti a lui in classe che si reputava il più sfortunato perché suo padre e sua madre non lo lasciavano andare in discoteca ogni sabato, oppure quel bastardo della prima fila che non soffre a vedere i suoi genitori divorziati perché lui stesso non ha sentimenti verso i suoi genitori, ma usa quei due poveri diavoli litiganti come la scusa di tutti i suoi mali e di tutte le materie insufficienti.
E lui non può aprire bocca, lui deve essere perfetto in tutto. Sempre.
Pensa a tutte quelle volte in cui è stato zitto mentre il professore di meccanica ha parlato alla classe come il Cristo redentore e ha deciso che tutti si meritano un aiuto per le loro medie, tranne lui. Perché lui non ha i genitori ammanicati, non ha delle persone sopra la sua testa pronte a garantire dei fondi per l’istituto privato in cui va.
Suo padre gli ha scelto quella scuola perché così gli insegneranno l’educazione che lui non può insegnarli. E grazie tante.
Guarda le luci ad intermittenza e nota che tra le fronde sintetiche dell’abete c’è una pallina argentata, piccola, indifesa e sola.
Sola, di nuovo. Sola come lui quando si lascia andare dallo sconforto.
Guarda il cappotto che sta per cadere dal divano sul quale era sdraiato e lo porta in camera mentre un silenzio glaciale lo avvolge; perché il camino non scalda abbastanza l’ambiente come dovrebbe? Perché non può dare amore?
Appoggiato all’appendiabiti, il cappotto cade per due volte e per due volte viene rimesso dove deve stare. Lancia le chiavi sulla scrivania e colpiscono una cartelletta che cade a terra.
Quella cartelletta, quella dispensa di dolori e ricordi.
Quando qualche mese prima aveva detto alla persona che amava veramente che forse non era così tanto sicuro dell’amore che c’era tra loro, aveva nascosto quella raccolta di fogli ovunque, ma ogni volta suo fratello gliela spostava per fare spazio ad altro.
La apre con furia, guarda quelle parole scritte e si accosta al camino: un foglio, due fogli, tre fogli... tutte le fotocopie fatte dal quaderno delle poesie dell’amore della sua vita ardono e si spengono diventando lacrime di cenere, solo lacrime di cenere.
Arriva all’ultimo foglio, ma prima di bruciarlo si accorge del titolo della poesia centrale. Addobba tu l’albero.
La legge, più volte, cercando di pensare a qualche giorno prima quando suo padre e suo fratello, facendo l’albero, l’avevano escluso perché era sempre fuori a cercare di socializzare con le ultime poche persone intelligenti del paese.
E gli avevano anche detto di non azzardarsi a toccare la disposizione degli addobbi, che tutto era dove doveva!
Si ricorda perfettamente quando chiese il perché di una poesia così triste, così cinica sul Natale.
“Perché è così, amore mio. - Stavano parlando sul divano di casa sua, intimamente. - Perché a Natale l’unica cosa che esiste è l’apparenza.”
Gli si stringe il cuore pensando a quelle parole e butta anche quel foglio: ora è libero, libero di un altro ricordo di quella persona maledetta che aveva rubato tutta la sua giovinezza.
Sua madre sarebbe stata fiera di lui? Si ricordò quando loro addobbavano l’albero; quando lei lo prendeva in braccio - anche se era fragile e lui paffutello, anche se lei era debole - e lo aiutava ad appendere qualche stella o qualche sfera colorata.
Sua madre... sua madre era scomparsa senza sapere il frutto del peccato che si era innestato in lui.
Si guardò disperato intorno, annaspando: secondo le solite idee e i soliti modi di dire, lei ora lo stava guardando dall’alto. Lei lo aveva osservato e quindi sapeva.
Sapeva di quei baci rubati, di quell’estate torrida, aspettando che i genitori del suo amante sparissero dalla circolazione per farsi qualche chilometro in motocicletta e passare minuti abbracciato, pelle a pelle, con il simbolo della sua vita, con l’immagine più splendente dei suoi ricordi.
Era così fiera, ora? Sua madre poteva aver deciso di non adorare più il suo secondo figlio come una volta faceva, come quando una volta sottovoce gli ripeteva il fatto che lui era il migliore tra i due perché ascoltava sempre la mamma, perché non faceva altro che ubbidire alla genitrice.
Era fiera di lui per tante piccole cose - per quella strana intelligenza maturata da bambino e per quel gusto che aveva già da piccolo nell’abbinare i colori, nell’ammirare i quadri - che non si era mai chiesta abbastanza quanto lo conosceva.
Si stringe nelle spalle guardando mesto le fiamme ardenti e si accorge di aver appena buttato l’unico bel ricordo dell’ennesimo anno da adolescente; un po’ come buttare via del tempo prezioso.
Cerca di ignorare il cellulare che si muove sul ripiano del tavolo all’impazzata e torna a sdraiarsi sul divano guardando prima il soffitto e poi le fiamme d’oro davanti a lui.
Non può essere stata la sua speranza a mandargli un messaggio: è ancora all’estero, a festeggiare con i suoi amici - beata che li aveva -, così lascia stare e torna a dormire sognando un mondo migliore.
Si sveglia dopo ore, guardando il buio da fuori dalla finestra e la brace che tende a spegnersi e controlla, come un impulso, il cellulare.
Si sente male a leggere il mittente e si sente ancora peggio a sapere di essere amato.
Si sente sempre peggio ad aver versato inutilmente lacrime di cenere.
  
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