Avevo visto questa poverina in metropolitana, con la valigia e mi sono detto "perché non raccontare la storia che racconta?" ed è nato per sbaglio tutto questo...
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Ho incontrato la viaggiatrice molte volte, lei, la donna, la valigia, i
vestiti, lo spirito, l’anima. Stava lì,
guardandosi attorno, cercando qualcosa, che cosa? Il suo sguardo
gridava aiuto, stava scappando da qualcosa, qualcosa che lei sapeva e
io no, ma la guardavo tentando di dirle che l’aiuto che
avrebbe cercato io l’avrei potuto dispensare con somma gioia;
ero catturato da quello sguardo e mi faceva sentire impotente e stronzo
proprio il fatto di non sapere cosa dirle, cosa fare.
Scese una fermata prima di me quando la vidi la prima volta, ero nel
pieno dei miei pensieri, stavo contemplando come al solito la cartina
del metrò di Milano, contavo sulle dita le fermate e le
ripetevo una dietro all’altra a menadito: Villa San Giovanni,
Sesto Marelli, Sesto Rondò, Sesto FS...
Lei guardava verso un bambino capriccioso con occhi di rimprovero che
cadevano nel baratro della solitudine, chiedevano aiuto fino al momento
in cui sul suo volto calò una smorfia dura: doveva scendere
e fermarsi in un’altra tappa della sua vita. La guardai
uscire da quelle porte lentamente tirando la sua valigia, poi via di
nuovo, velocemente, come al solito, verso il capolinea.
Quante volte ho incontrato lei non lo so, forse tante, ma non era lei
in persona, era il suo spirito, il suo spostarsi, era dentro una coppia
di cinesi turisticamente attivi nel centro di Milano, era in un ragazzo
vicino a me che aveva trasvolato l’oceano per imparare una
lingua che mai avrebbe compreso, era in me stesso in quella magnifica
estate.
Ho visto lei insidiarsi nei mobili, nei vestiti, nelle piante, nei
cibi, era in tutto quello che si fosse spostato almeno di un metro o un
centimetro o un micron dalla posizione originale. Lei era ovunque. Era
nella musica che ascoltavo, era nelle parole che dicevo, era nelle mie
dita, era in me.
Avevo voglia di salutarla la seconda volta che l’ho vista;
stava davanti ad una colonna con incise le spoglie e le memorie di
tanti studenti di passaggio che avevano voglia di farsi sentire, di far
sentire lei. Lei era in tutta quella gente che vedevo, ma la vista del
suo corpo snello mi faceva impazzire e non per quanto lei fosse
affascinante, ma per un misterioso fatto che mi faceva pensare a lei
come una persona straordinaria.
Il suo nome? Non lo so.
Lei stava innanzi a me aspettando il treno e la valigia era con lei,
sempre, era leggermente sporca di terra d’ocra, aveva qualche
chiazza di fango, ma lei la trascinava con orgoglio.
E giorni dopo era davanti a me, seduta su quella poltrona verde
smeraldo tutta rattoppata, il suo sguardo era stanco ma leggermente
sollevato, la testa un po’ reclinata verso sinistra. Stava
guardando fuori dal finestrino il treno che passava nella campagna e io
la fissavo tramite quel riflesso; sarei arrossito se si fosse girata,
ho quasi temuto che mi insultasse per il fatto che la guardavo con
quella veemenza, lei invece era dolcemente coinvolta da quel cullare
brusco del treno. E continuava a guardare il verde, il marrone e
l’azzurro della Brianza alla fine dell’inverno,
quando ancora non si può chiamare primavera.
Alla mia stazione ho alzato la mano per salutarla mentre passavo per il
vagone e mi accingevo a scendere e lei mi ha sorriso con la stessa aria
di una madre che contempla la sua creazione miracolosa, il proprio
figlio.
“Sono figlio dello spirito del viaggiare” pensai e
subito mi ritrovai a correre con la mente pensando a dove sarei finito
col viaggio, in America o in Giappone, in Norvegia oppure non lontano
da casa e poi ho visto il treno correre di nuovo verso la stazione
successiva.
Lei stava sempre nei miei pensieri, involontariamente, io ne ero
innamorato ormai, anche se i miei gusti erano differenti, non era una
bellezza lampante, era una donna normale con qualche ruga, i capelli
sempre raccolti di uno sfavillante castano e gli occhiali con una
montatura trasparente che quasi nascondevano i suoi occhi piccoli e
furbi di un castano intenso.
Mi immaginavo di vederla comparire in mezzo alla strada trascinando con
leggerezza quella valigia così pesante e continuare a
camminare sotto il caldo sole di agosto, mentre le macchine le
sfrecciavano accanto.
Un giorno lei mi vide dall’alto del finestrino di una
carrozza sulla quale era salita, era lì che guardava fuori
mentre io aspettavo che scendesse dal treno mia sorella, sotto quella
torrenziale pioggia e lei guardava verso il mondo, sì, il
mondo, non quella scena piccola, lei poteva vedere tutto quello che ci
stava intorno, tutto, tutto...
C’erano le nuvole e c’erano delle correnti
d’aria pazzesche, era la fine dell’inverno rigido,
era l’inizio della rincorsa alla nuova stagione, alle nuove
gemme e io correvo verso la mia nuova libertà e vedevo
solamente una persona che mi amava, ma forse non così tanto
come pensavo.
E lei era lì, la vidi passare di fianco a me con la sua
Samsonite blu, era affaticata forse, poi corse nella folla e la vidi
sparire e intanto di fronte a me una tragedia già annunciata
si stava compiendo. Piansi amaramente il fatto di non aver accolto
un’occasione importante rimandandola e rimandandola e
rimandandola...
Due giorni dopo incominciò il diluvio che mise a soqquadro i
miei piani, la mia vita e il mio modo di pensare; goccia a goccia
speravo di vedere lei apparirmi anche solamente in sogno per darmi
qualche consiglio, ma niente, ero di nuovo solo, ero solo tra la folla,
solo in quel mondo sconosciuto che pensavo di aver già visto
e vissuto, ma in realtà nulla era stato vissuto.
Dimmi che l’amore è finto, dimmi che il mondo non
è vero, dimmi che l’istante della nostra vita
viene dimenticato; mi ero scordato di nuovo di me e volevo cancellare
quello che avevo fatto, ero di nuovo caduto in una battaglia sbagliata.
Non so cosa fece, non so dove sparì, non so nulla, non so
neppure se era amicizia da parte sua, non so.
Il giorno dopo decisi che dovevo dimenticare e di nuovo tornai nel
grigiore di Milano a sentire la vita, il respiro della gente...
sentirmi vivo per un attimo, fuggire dal mondo, scappare da qualcosa...
Non ero neppure sul treno, ero davanti allo specchio, venti minuti
prima di salire, a guardarmi dentro, a guardarmi fuori, a guardare
intorno, a tentare di non vomitare, di non scappare, di starmene in
disparte, poi pensai al mondo che mi aveva dato vita e che mi stava
uccidendo, strangolando, smorzando, sbiadendo e ancora...
E non ne potevo fuggire.
La vidi nei miei occhi, vidi passare in piccolo quella valigia e lei
dietro che si affacciava e mi sorrideva, così mi decisi a
prendere tutto e partire per quegli istanti di respiro di smog e di
vita, di pensiero e di diversità.
Ero tornato cambiato e tutti se ne stavano rendendo conto,
così mi accorsi di quante opportunità mi stavo
creando in quei giorni, di quali verità riuscivo a scoprire
pensando un po’ a me stesso e poi...
Pioveva a dirotto, giornata poetica. Lei era di fianco a me, era
davvero lei, la donna del viaggio, la viaggiatrice; era vicino a me
mentre si lasciava accarezzare dalla pioggia con lo sguardo assente e
apatico.
Era lì da ore, credo, l’avevo vista arrivare con
me e non era più ripartita; poi mi avvicinai per coprirle la
testa col mio ombrello, mi aspettai una reazione qualsiasi, ma nulla;
la guardai, era gesso.
«Scusi? Ha qualche problema?» le chiesi quasi
freddamente; ero stranito dalla situazione, in me la paura che stesse
per morire.
«Ho...»
Balbettava, non riusciva a parlare; colpa della pioggia.
«Ha...?» chiesi per farle continuare la frase; ero
impaziente di sapere.
«Ho perso il treno.»
La guardai stranito: “Il treno?”, pensai.
«Ma guardi che ogni trenta minuti ne passa uno!»
Poi compresi di aver detto una sciocchezza, ricordai una citazione da
un film: se avesse preso quel treno; in questo mi ricordai di lei,
della viaggiatrice: aveva perso QUEL treno, quello di
un’ennesima occasione, il treno che si aggiungeva agli altri
che aveva preso che l’avevano portata per il mondo e le
avevano fatto cambiare aspetto ogni volta che la guardavo.
E poi capii: era in un meccanismo di precisione.
Una volta avevo visto un corto di quel genere: vi era un uomo e una
donna, marito e moglie, entrambi preparavano qualcosa, l’uno
completava l’opera dell’altro e così via.
Dopo due minuti vi era la ripresa della stessa situazione, il giorno
dopo. L’unica cosa cambiata era la ventiquattrore del marito
caduta. Grazie a questo, lui perse circa dieci secondi per riprenderla
e...
Finiva? Succedeva qualcosa di brutto? Non ricordavo. E lei era come
lui, lui era come lei e ora con la valigetta per terra a lei mancava
qualcosa che era importante.
La riaccompagnai a casa sua, dopo che me l’ebbe indicata e la
sistemai davanti al camino dopo averlo acceso, era fradicia; le
preparai qualcosa di caldo e nel frattempo ebbi modo di vedere cosa
stava nella valigia per riporlo nei cassetti, mi stupii di quello che
vidi...
Erano fogli e parole e situazioni e persone; racconti, cose, animali,
storie inventate, fatti buffi, eventi accaduti, storie scoordinate...
Souvenir da paesi di tutta Europa che mi fecero capire quanto la vita
l’avesse coinvolta. C’erano foto di lei e un lui,
di lei e di altra gente, di baci rubati, di speranze, di...
Tornai da lei ogni giorno, continuai a controllare quello che stava
accadendo, quello che le passava; incominciai a prendermi cura di lei,
il nome l’avevo letto sulla carta
d’identità, lei non parlava, lei ammiccava e
annuiva.
Lei era speciale, avevo sentito la sua voce per poche parole e ora?
Nulla.
Per mesi le feci assistenza, chiamai la guardia medica, la nutrii e mi
trasferii a casa sua.
Lei appassiva velocemente come un fiore nel freddo invernale,
cosicché, mentre la primavera risvegliava il giardino, lei
si addormentava, anzi, era già volata, in qualche modo, era
già sparita, era...
Mi lasciò la casa, mi lasciò molte cose senza
saper nulla di me; avevamo più cose in comune io e lei che
chiunque altro, ma la cosa che mi aveva sorpreso, che mi aveva lasciato
e che mi faceva sentire amato era ciò che era stata lei
prima di conoscermi.
La viaggiatrice mi lasciò la sua valigia.