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Autore: E m m e _    30/05/2013    2 recensioni
Per secoli è stata tramandata l’esistenza di un’entità buona e di una malvagia.
Ed una volta era così:
Lucifero e Dio, l’eterna lotta tra il Bene ed il Male.
Ma ora non più.
Eravamo abituati a parlare di Dio come una presenza buona, genuina.
I nostri genitori, i nostri amici, preti e suore
ce lo hanno presentato come la Salvezza.
Ma si sbagliavano, si sbagliavano tutti.
Perché è a causa sua che la più grande di tutte le guerre si è abbattuta sulle nostre terre, sulla nostra gente.
E sta cercando i suoi Angeli, tra noi, quelli che lo hanno tradito, che lo hanno oltraggiato nel nostro mondo…
E se anche tu pensavi che Dio ti avrebbe risparmiato, ti sbagliavi.
Ora né Dio né nessun altro potrà salvarci.
STORIA SCRITTA A DUE MANI DA MIRIANA (ME) E ANGELICA (ENGI)
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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                                                                                         Capitolo 7
          Solo un vetro appannato (ENGI)
Mikael

Osservai l’uomo che, borbottando e lanciando maledizioni a qualcuno, tentava in tutti i modi di aprire la porta, posta al centro di una parete color panna. Prima girava la maniglia con forza, poi, non vedendo i risultati, prendeva un passo di rincorsa e, con una spallata, provava a sfondare il legno, e, subito dopo, sbatteva i pugni, sicuramente sperando di essere udito.
- Possibile che nessuno passi mai per questo corridoio?
Domandò a voce alta, come se oltre la porta ci fosse qualche orecchio di passaggio. Si piegò in avanti e, chiudendo un occhio, guardò dentro la serratura.
- Credo che se qualcuno fosse stato là fuori, ti avrebbe già aperto.
Mi sentii in dovere di dirgli. L’uomo si voltò, sorpreso dalla mia voce.
- E tu, da quanto sei sveglio?
- Da abbastanza tempo per assistere al tuo pietoso tentativo di aprire la porta.
Gli occhi diventarono due sottili tagli luminosi nel suo volto. Non mi stavo guardando con rabbia, o fastidio per ciò che gli avevo appena detto, ma come se cercasse di leggere un libro scritto in una lingua sconosciuta.
Spostai lo sguardo sulla porta, confuso.
- Sei un Angelo… Come può una porta resisterti?
A fatica mi alzai dal letto bianco. Il bruciore alla schiena non era ancora del tutto scomparso, ma il lungo sonno aveva fatto sì che le ferite cominciassero a rimarginarsi. Perché il mio corpo guariva da solo, senza il bisogno di cure esterne. Ero una macchina da guerra, creato con il preciso compito di rialzarmi finché ne avessi la forza, finché la morte non mi avesse sconfitto.
- Co… Cosa fai?
Il corpo dell’uomo s’irrigidì. Mi avvicinai alla porta e feci scorrere la mano sulla sua superficie liscia e scura. I miei occhi scivolarono sugli stipiti, preziosamente e abilmente intagliati a creare una cornice di piume che vorticavano tutt’intorno. Poi guardai la serratura in oro.
Ripensai a ciò che ero stato in grado di fare a quei due Angeli, e nuovamente sentii quel suono sordo che avevano fatto le loro teste sbattute una contro l’altra. Un formicolio mi percorse le mani. Ero stato io a volerlo, desideravo con tutto me stesso che accadesse.
Chiusi gli occhi e, nella mente, visualizzai i diversi meccanismi della serratura. Immaginai una chiave che, girando nel buco, li azionava. Sentii un clack, nella testa, e, quando aprii gli occhi, la porta stava cigolando.
L’uomo non proferiva parola, continuava a guardarmi, sbigottito.
- Come ci sei riuscito?
Un mezzo sorriso mi incurvò le labbra. Feci spallucce e gli voltai le spalle, pronto a varcare la soglia e uscire da quella stanza.
- Aspetta… Dove pensi di andare conciato…
Mi girai e, lanciandogli un’occhiata, attesi che terminasse la frase.
- Insomma, la tua schiena… Non penso sia il caso che giri per i corridoi così.
Disse, facendo un cenno nella mia direzione. I nostri sguardi rimasero incrociati, finché non lo distolse per primo.
- Beh, non ho nulla con cui coprirmi.
- Vieni.
Con gli occhi sempre rivolti al pavimento, mi passò affianco e fece strada lungo i silenziosi corridoi.
- Ma questo posto è deserto?
Domandai, guardandomi intorno. Non volava una mosca, non si sentivano nemmeno i generici rumori delle abitazioni. Nulla. Dalle porte chiuse, che si susseguivano lungo la parete, non proveniva nemmeno un suono, anche lieve, di passi. Dalle finestre, attraverso le quali entrava la luce chiara dell’alba, si vedeva gran parte del cortile esterno, costeggiato dagli alberi del bosco, ma privo di anime anch’esso.
- No, affatto.
- Io non vedo nessuno.
Ribattei, gli occhi ancora persi nel verde di quel prato, tra i fili smeraldini d’erba, ondeggiati da un leggero vento. Un uccellino si posò a terra, ma si rialzò immediatamente in volo, perché seguito da un altro. Si rincorsero nel cielo, stagliandosi perfettamente nell’indefinibile colore di cui era tinto. Battevano le loro esili ali con scioltezza, consci di poter andare ovunque, di essere in grado di superare ogni muro e di osservare tutto dall’alto.
Volai assieme a loro, seguendoli con gli occhi. Immaginai il vento sferzarmi il viso e la sensazione dell’altezza sopra e sotto di me. Un brivido mi percorse tutto il corpo, al ricordo delle piume mosse dall’aria.
- Mi stai ascoltando?
Gli uccellini sparirono dalla mia visuale.
- Come?
L’uomo mi guardò.
- Non hai mai sentito parlare della Resistenza?
Scossi il capo. Non mi diceva niente quel nome.
- Beh, avrai sicuramente sentito parlare di una coalizione tra Angeli, la maggior parte Caduti, e Umani. Dopotutto gli Altri non fanno altro che parlare di questo.
Annuii.
- Ma gli Umani cosa centrano?
Domandai, non capendo fino in fondo lo scopo di quel luogo.
Ci fermammo davanti ad una porta, identica a tutte le altre. Solo il numero inciso sopra lo spioncino, che prima non avevo notato, le differenziava una dall’altra.
- Numero infelice.
Dissi, indicando il 17 un po’ storto. Un sorriso sghembo deformò le sue labbra, e i suoi occhi si fissarono, pensierosi, sul quel numero.
- Il Diluvio universale.
- E anche il giorno della Crocifissione.
Il sorriso gli abbandonò completamente il viso, e, come per fuggire da una simile conversazione, aprì la porta.
Lo seguii, senza dare troppo peso al suo improvviso nervosismo. La stanza era completamente bianca, a parte l’armadio in legno a due ante, posto nell’angolino vicino alla finestra. Anche il letto e il pavimento erano bianchi.
- Scommetto che detesti il bianco.
Ma l’Angelo mi ignorò completamente e si avvicinò all’armadio. Ne estrasse una maglietta a maniche lunghe blu scuro e me la porse.
- Dovrebbe starti.
Prima che potessi infilarla mi fermò.
- Forse non sarebbe meglio che prima ti fasciassi le ferite?
- Sarebbe inutile, ormai sono completamente guarite.
Ma, dall’espressione del suo volto, capii che non era completamente convinto della mia risposta.
- Tranquillo, non te la macchio.
L’uomo arrossì violentemente e distolse lo sguardo.
Come aveva predetto lui, la maglietta mi era giusta sia di maniche che di busto, come fosse sempre stata mia.
- Vabbé, io vado.
Gli voltai le spalle e tornai alla porta.
- Cosa? E dove?
- Boh, pensavo di fare avanti e indietro per i corridoi…
Interdetto mi osservò uscire, ma, prima di chiudere la porta, mi rivoltai.
- Grazie per la maglia,…
- Caliel.
Terminò lui, quando si accorse che cercavo, invano, di ricordarmi il suo nome.
- Caliel.
Ripetei con un sorriso, poi uscii definitivamente dalla stanza, lasciandolo solo.
Appena mi fui chiuso la porta alle spalle, sospirai e mi guardai intorno. Potevo tornare indietro e ripercorrere la strada che avevo fatto insieme a Caliel, o continuare dritto nell’altra direzione.
Proseguii dritto, senza nemmeno valutare ciò che potevo lasciarmi alle spalle. Il sole era sempre più alto nel cielo e la luce sempre più calda.
Lessi i numeri sulle porte, fantasticando fino a che numero arrivassero, e continuai a camminare.
25, 26,27, …
E, improvvisamente, al posto della solita porta in legno, davanti ai miei occhi si piazzò una fredda e grigia porta in metallo. Mi fermai e, sulla superficie dura, cercai il numero 28. Ma questo lo vidi solo nella porta successiva, dalla quale ripartivano poi tutte le altre, ovviamente numerate.
Era come se quella porta in metallo fosse una sorta di parentesi, una breve interruzione.
Voci attutite, appena percettibili, provenivano dall’interno di quella stanza, oltre l’ermetica porta.
Provai a distinguerle le une dalle altre, e, quando mi resi conto di non esserne in grado, scoprire ciò che stava avvenendo in quella stanza divenne una necessità. Un bisogno tanto impulsivo da spingermi a proseguire dritto, correre fino alla fine del corridoio, dove questo svoltava e continuava, per poi svoltare un’altra volta dritto. Lì, in quella parte dell’edificio, le pareti, invece che da porte, erano interrotte da diversi dipinti, tutti raffiguranti angeli e scene di questi in guerra contro il Male.
Vidi, infondo, dove il corridoio ruotava all’infinito su sé stesso, la porta d’uscita, e prima, incastonata nella parete interna, una finestra. Mi avviai verso di essa, curioso e speranzoso che si trattasse di ciò che pensavo. Uomini e donne, dentro lunghi camici bianchi, parlavano fra loro.
Umani, pensai guardandoli. Non percepivo alcuna vibrazione divina provenire dal loro spirito.
Li osservai. Osservai i loro volti, segnati dagli anni, coperti da mascherine azzurrognole, e i loro occhi tutti rivolti verso il letto bianco, affiancato da altri due dottori. Sopra vi era stesa una ragazza. I lunghi capelli corvini le coprivano la schiena, rivolta verso l’alto. E, lì, proprio dove una volta le possedevo anche io, c’erano le sue candide ali. Lucentissime. Forse le ali più belle che avessi mai visto. Erano luce pura. Non ero in grado di distogliere lo sguardo da tanta magnificenza. Non avevano alcuna sfumatura o screziatura. Semplicemente perfette.
Mi avvicinai al vetro, come se così facendo avessi cambiato prospettiva, e, infatti, così fu, perché vidi come sfioravano il soffitto con le lunghe penne. In quell’attimo desiderai tanto toccarle. Possederle io stesso, per poterne provare la loro forza, la velocità in volo.
I dottori posarono le loro mani inguantate alla radice, dove le ali si fondevano con la pelle.
Deglutii e mi ritrovai letteralmente aggrappato al vetro. Il mio respiro lo appannava, ma non abbastanza da impedirmi di vedere ciò che accadde.

Lia

Non riuscivo a descrivere ciò che provavo, ma non fu liberatorio come pensavo. Dolore. Solo dolore. Così tanto che non riuscivo nemmeno a ricordare il motivo che mi aveva spinto a una tale decisione. Perché mi ero privata di ciò che più amavo? Perché avevo deciso di negarmi, per sempre, del mio dono? Il dono più grande, quello che in tanti bramano ma che non possono avere.
Mi odiai, perché sapevo, lo sapevo perfettamente, che non avrei mai più volato, non mi sarei più librata in aria come un uccello. Mi ero liberata delle catene che mi legavano a un’entità che non amavo, o, per lo meno, non più, per rinchiudermi in quelle che mi trattenevano al suolo, come fossi una semplice umana. Dopotutto come potevano vedere la differenza, se non la possedevo più?
A fatica mi sollevai sugli avambracci. Il dolore era accecante ma, comunque, un lato positivo c’era: la leggerezza. Non mi ero mai sentita tanto leggera in vita mia, se non in volo. Il peso delle ali non gravava più sulla mia schiena, e il dolore della loro perdita sarebbe scomparso, presto o tardi.
Guardai i dottori che mi si avvicinavano. Mi osservavano con i loro grandi occhi, traboccanti di dolore per me.
Muovendomi il meno bruscamente possibile, mi misi in piedi.
Guardai i volti pallidi che mi circondavano, timorosi che potessi cadere da un momento all’altro, e trassi un profondo respiro.
Improvvisamente, il senso di leggerezza di poco prima scomparve, e venne sostituito da un nuovo peso.
Lentamente mi voltai e, oltre il vetro della finestra, al di fuori della stanza, due grandi occhi verdi, come i prati di campagna quando il sole, infuocato, brilla nel cielo, erano posati su di me. Al loro interno non leggevo altro che tristezza. Un’immonda tristezza, come se fossero appena stati privati della più bella visione.
Sbattei le palpebre e, quando le ebbi riaperte, il ragazzo dagli occhi di smeraldo era scomparso. Di lui era rimasto solo un vetro appannato.
   
 
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