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Autore: Blackbird_    02/06/2013    3 recensioni
Sono passati sei anni da quando Celeste è stata sedotta ed abbandonata da Don Juan Tenorio. Molte cose sono cambiate col tempo, tante sono rimaste esattamente le stesse.
Spin-Off della storia ¿Cuàntos dìas empleàis en cada mujer que amàis?
(http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1773270&i=1)
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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Questa storia è uno spin-off della storia
¿Cuàntos dìas empleàis en cada mujer que amàis? (www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1773270&i=1)



Ero intenta a cucire nella sala appositamente allestita per me quando udii un certo trambusto nel piazzale del palazzo. Mi sentii improvvisamente inquieta. Poggiai sul mobile la stoffa che stavo minuziosamente lavorando poco prima e corsi alla finestra. Lo stalliere si stava occupando di un cavallo bianco dalla lunga criniera. Sorrisi e mi affrettai a correre giù per la scalinata del palazzo, diretta verso il portone principale.
Ed era lì. Ancora intento a togliersi di dosso il mantello, proprio di fronte all’entrata, c’era mio marito.
“D-Diego” balbettai, incapace di pronunciare qualsiasi altra parola.
Erano passati molti anni dall’ultima volta che ero corsa incontro a qualcuno…
Si voltò verso di me con naturalezza, sfoggiando uno dei suoi sorrisi inconfondibili. Adoravo i suoi sorrisi, quelli belli e genuini, quelli che riuscivano a contagiare chiunque, in qualunque momento. I suoi occhi scuri, così profondi, trasmettevano null’altro che semplice felicità. Spalancò le braccia, in segno di avvicinarmi. Non me lo feci ripetere due volte. Col passo più veloce del dovuto mi catapultai fra le sue braccia, stringendolo in un forte abbraccio. Era passato un mese da quando era partito per Siviglia per volere del Re. Un lunghissimo, maledettissimo mese. E mi era mancato infinitamente, come manca l’aria quando ci si trova in fondo al mare.
Mi diede un bacio sulla fronte, mi accarezzò i capelli biondi e, finalmente, il nostro abbracciò scemò. “Non avrei mai potuto desiderare un’accoglienza migliore” pronunciò soddisfatto. “E’ bello rivedervi” sospirai con felicità, arcuando le labbra in un sorriso. Nonostante fossimo sposati già da quasi sei anni, ancora non riuscivo a rivolgermi a lui dandogli del tu. Era una mia fissazione stupida, a sua detta, ma quella di parlargli in quel modo era un segno di rispetto, sebbene fosse una cosa minuscola. Un rispetto sincero e profondo nei suoi confronti, che per me aveva fatto così tanto.
Tanto, forse troppo…
“Sarete molto stanco dopo tutto questo viaggio, provvederò immediatamente a far preparare la nostra stanza affinché possiate riposare un poco” lo avvertii e, senza attendere una sua risposta, mi precipitai verso una delle stanze adiacenti all’entrata. Lì Alfonso attendeva impaziente mie indicazioni sul da farsi. Lui era sempre lì, sempre ad attendermi affinché gli dessi ordini. Spesso era una situazione frustrante, e quasi rimpiangevo il caro Anton. Anton, la sua mania di gironzolare continuamente e di ficcanasare in giro, quel castello, la mia casa. Erano anni che mi ero trasferita nella tenuta di Don Diego nei pressi di Granada ma ogni giorno provavo nostalgia per la mia vecchia casa, quella dove ero nata e cresciuta.
Dopo aver affibbiato un bel po’ di compiti all’entusiasta Alfonso, tornai all’ingresso dove mio marito si stava intrattenendo con alcuni uomini della servitù, raccontando loro del lungo viaggio e del nuovo Re di Spagna.
“Ho chiesto di far preparare un bel bagno caldo. Per quando avrete fatto sarà pronta anche la stanza da letto” assicurai. Diego mi sorrise, ringraziandomi tacitamente. Lo ricambiai e tornai ad affaccendarmi affinché il suo rientro a casa fosse perfetto. Era davvero il minimo che potessi fare per lui.
Raggiunsi la cucina ed ordinai alle cuoche di preparare un banchetto degno. Feci in modo che preparassero buona parte dei piatti preferiti di mio marito. Corsi poi nelle stanze superiori. Il salone per il pranzo andava allestito nel migliore dei modi, pertanto incaricai due ragazzi della servitù di apparecchiare. Corsi infine nella stanza dove mi dedicavo all’arte del cucito. Sistemai in pochi minuti tutto il caos della mattina e, finalmente, fui libera.
Ero euforica ma almeno tutto ciò che avevo da fare era sistemato, in un modo o nell’altro.
Mentre mi dirigevo verso la stanza da letto incontrai un ragazzo della servitù con in mano una grossa brocca di porcellana fumante. Sembrava davvero molto affaticato, ed in difficoltà. “Dove stai andando?” gli domandai, fermandolo. “Nella stanza da bagno. Il padrone ha richiesto dell’altra acqua calda, gliela stavo portando” si giustificò, cercando di darsi di nuovo un tono. Sembrava terrorizzato dalla mia presenza e tremava come una foglia. Da quando in qua avevo iniziato a far paura alla gente? Non mi sembrava di essermi mai comportata male nei confronti della servitù. Gli sorrisi, tranquilla. “Dai pure a me, ci penso io” lo spronai, prendendo in mano la pesante brocca che teneva con fermezza. Titubò leggermente. “Ma Alfonso…” iniziò a balbettare. Era Alfonso ad intimorirlo, allora, non io. “Se ti dice qualcosa digli pure che sono stata io a liberarti del tuo incarico. Se dovesse insistere non farti scrupoli a portarlo da me, d’accordo?”. Annuì silenziosamente, senza mai fissarmi in volto per più di tre secondi di fila. Sussurrò un leggero “grazie” e svanì oltre l’angolo ad una velocità impensabile. Restai immobile per qualche istante a domandarmi per quale motivo quel ragazzetto avesse tanta paura. Il calore dell’acqua all’interno della brocca si stava velocemente espandendo nelle mie mani e, quasi dolorante, corsi verso la stanza dove Don Diego era intento a fare il suo bagno.
Sebbene sapessi perfettamente di non dover disturbare, presi fiato, sospirai, e finalmente bussai lievemente. Non appena udii il permesso dall’interno, entrai, con non poca esitazione.
Mio marito era comodamente sdraiato all’interno della grossa vasca, con gli occhi chiusi. Mi sentii avvampare le gote, un po’ per il vapore proveniente dalla brocca fumante che ancora tenevo in mano, un po’ per l’imbarazzo. Soprattutto per l’imbarazzo. Richiusi la porta alle mie spalle. “Vi ho portato l’acqua calda” mi annunciai, iniziando ad avvicinarmi lentamente. Più mi avvicinavo, più mi sentivo andare a fuoco.
“Celeste?” pronunciò sorpreso Don Diego, riconoscendo la mia voce. Riaprì gli occhi e mi guardò stupefatto, alzandosi a sedere. Mi guardava come se avesse visto uno spettro maligno. Ridacchiai, divertita da quella bizzarra reazione anche se, probabilmente, arrossii ancora di più. “Vi ho solo portato l’acqua che avete richiesto. Non ho alcuna intenzione di uccidervi, o di violentarvi, o di farvi qualsiasi altra cosa” lo tranquillizzai. Improvvisamente una voce molto familiare iniziò a riecheggiare nella mia mente. Ripeteva quelle parole, quelle stesse parole che avevo appena pronunciato. Trattenni il respiro per un attimo.
Sentivo ancora quell’odore di boscaglia…
La risata di Don Diego mi fece tornare alla realtà. “A dirla tutta, Cel, non mi spaventi granché. E’ che non m’aspettavo di ricevere una tua visita… in questo momento” ammise, indicandosi e guardandosi intorno. Alzai le spalle e m’avvicinai ulteriormente. Con uno scatto si spostò all’indietro, causando un’onda d’acqua che finì rovinosamente a terra. “Siete davvero un disastro” sbuffai, dirigendomi verso l’angolo della stanza dove erano sistemate le stoffe per asciugare a terra. Ne presi un paio e mi sedetti al bordo della vasca, poggiando la brocca poco distante da me. Iniziai a pulire a terra, stando bene attenta a non lasciar cadere lo sguardo oltre il bordo della vasca. Mi vergognavo da morire, tanto da non riuscire nemmeno a guardare in faccia mio marito. Probabilmente mi stava fissando, e per questo avvampai ancora di più. Diventare più rossa di quanto non fossi già era matematicamente impossibile.
Non appena ebbi terminato di sistemare mi alzai. Mantenni gli occhi socchiusi finché non mi voltai. Lasciai cadere gli stracci gocciolanti in un catino di legno sistemato ad un angolo della stanza. Tornai sui miei passi e mi sedetti nuovamente al lato della vasca. Finalmente il mio sguardo incrociò le iridi scure di Don Diego, che sorrideva imbarazzato. “Mi dispiace averti fatto lavorare in questo modo, avresti dovuto chiamare qualcuno della servitù” si scusò. Scossi leggermente la testa, raccogliendo la brocca da terra. “Non vi preoccupate, per me è un onore…” venni interrotta da un sorrisetto malizioso formatosi improvvisamente sul suo volto. Abbassai lo sguardo in un attimo ed iniziai a versare l’acqua bollente nella vasca, cercando di controllare l’immenso imbarazzo. “Celeste!” urlò Don Diego, sobbalzando nuovamente. Dalla vasca usciva un fumo immenso, dovuto all’eccessivo calore dell’acqua che stavo versando. “Scusatemi” mi affrettai a dire, poggiando nuovamente la brocca a terra. “Volevi cuocermi per servirmi a pranzo?” ridacchiò, sciogliendo tutta la tensione che aveva creato con l’urlo di poco prima. Gli sorrisi, grata per aver alleggerito la tensione con quelle poche parole.
Ripresi a versare l’acqua calda, stavolta molto più lentamente. “Come è andata la permanenza a Siviglia?” gli domandai. Sorrise lievemente. “Davvero bene, è una città molto tranquilla. In realtà fin troppo, non ho mai avuto molto da fare, da quelle parti” mi spiegò. Improvvisamente il suo sorriso si rabbuiò. Notandolo mi preoccupai un poco. “Cosa succede?” chiesi, leggermente tormentata dal suo inatteso cambio di umore.
“Il giorno antecedente alla mia partenza è successa una cosa. Penso sia giusto dirtelo…” “Mi state facendo angosciare con tutto questo mistero, Diego. Cosa è accaduto? Ditemelo, vi prego” lo scongiurai, fissandolo negli occhi come non avevo mai fatto da quando ero entrata in quella stanza.
Il suo sguardo s’incupì ancora di più. Mi carezzò leggermente una guancia, bagnandomela appena. In preda all’ansia lasciai a terra la brocca ormai vuota e gli strinsi la mano.
“Ho incontrato Don Juan Tenorio” pronunciò lapidario. Strabuzzai gli occhi, mentre il cuore perdeva un battito e riprendeva a velocità accelerata. “D-Don Juan?” balbettai, incredula. Avevo udito male, non c’era alcun dubbio. Il mio Don Juan Tenorio non poteva trovarsi a Siviglia, non poteva aver incontrato mio marito. Quest’ultimo, però, annuì alla mia domanda. “In realtà non l’ho davvero incontrato. Ero di guardia intorno alla città alta e mi sono imbattuto nel suo funerale…”
La presa sulla sua mano cedette. Continuavo a fissare quei due enormi occhi bruni, incapace di credere a ciò che avevo udito. “Don Juan Tenorio è…” non riuscii a terminare la frase. Non riuscivo più a parlare, non riuscivo più a pensare in maniera coerente. Tutto ciò che avevo in testa in quel momento era la speranza di aver capito male il discorso di Don Diego. Lo scongiurai con gli occhi di smetterla di prendermi in giro, di iniziare a ridere e di dirmi che era tutto uno scherzo. Ma i suoi occhi erano bui. Nessuna ombra di scherzo o di risata si riversava in essi. “Sì, Celeste, Don Juan Tenorio è morto. È stato ucciso da due uomini della sua servitù, a quanto pare era impazzito. Ho sentito dire che aveva iniziato a parlare con le statue degli uomini che aveva ucciso, ne aveva addirittura invitata una a cena” mi spiegò. Non ascoltai nessuna parola al di fuori della prima frase. Non mi interessava il come, il perché, il quando. M’interessava solo di lui, di lui che improvvisamente non c’era più.
Mi alzai di scatto, provocandomi un improvviso giramento di testa. “Credo che andrò a controllare che la stanza sia pronta” mi giustificai. Mi portai una mano alla fronte, sperando che in qualche modo servisse a frenare l’improvvisa vertigine. “Celeste” mi chiamò mio marito, preoccupandosi per la mia reazione. “Sto bene, davvero. Vi aspetto in camera, riposatevi pure ancora un poco” tentai di tranquillizzarlo, e a passi veloci abbandonai la stanza.
Fluttuai pesantemente fino al piano superiore. Chiunque incontrassi lungo il cammino non si degnò di rivolgermi alcuna parola, e in un attimo entrai nella camera da letto. L’enorme baldacchino era stato riordinato nel migliore dei modi, così come il resto della stanza. Ignorai però ogni particolare, raggiunsi a grandi passi il letto e mi ci gettai su.
Sentivo la testa pesarmi; sentivo il cuore pesarmi. Affondai il viso nel guanciale, cercando di scacciare via ogni pensiero. Quella sensazione ovattata, però, non fece altro che amplificare ogni emozione all’ennesima potenza e, senza che me ne accorgessi, cominciai a singhiozzare.
Sei anni. Sei maledetti anni erano passati dal giorno in cui Don Juan Tenorio mi aveva sedotta. Sei maledetti anni erano passati dal giorno in cui mi aveva abbandonata. Eppure sentivo il cuore sanguinare ancora da una ferita appena rimarginata. Dimenticarsi di lui era stato difficile. Dimenticarsi di lui era stato impossibile. Nemmeno per un istante avevo smesso di ricordare i suoi meravigliosi occhi verdi, le sue parole, le sue infallibili tecniche di seduzione. Avevo imparato a sopravvivere ai ricordi, dopotutto. Avevo imparato a conviverci, ad ignorarli il più possibile.
Nell’ultimo periodo avevo addirittura iniziato a non pensarci più. A pensarci meno. Avevo iniziato ad apprezzare quello che avevo, ad amare quello che avevo. Mi ero costretta ad odiare quel passato che mi tormentava giorno e notte, ottenendo dei risultati quasi accettabili.
Ma ora, sapere della sua morte mi aveva spiazzata. Dal mio mondo perfetto, dalla mia gabbia perfetta, ero stata nuovamente catapultata alla realtà. La speranza di rivederlo era tornata a vivere, uccisa un attimo dopo dalla consapevolezza non poterlo più vedere. Veramente, questa volta. La morte della speranza era forse la causa maggiore delle mie improvvise sofferenze.
Sentii improvvisamente il letto muoversi. Alzai leggermente lo sguardo dall’oscurità in cui mi ero immersa e vidi due occhi scuri studiarmi con preoccupazione. O era compassione quella che ci si leggeva? Senza rivolgermi alcuna parola, mio marito mi prese per le spalle, allontanandomi dal cuscino ormai zuppo delle mie lacrime, e mi fece affondare il viso sul suo petto. “S-scusa” balbettai con difficoltà. “Scusami tu, Celeste. Non avrei mai dovuto dirtelo in questo modo” sussurrò con un filo di voce, carezzandomi leggermente i capelli.
Restammo così, immobili, per qualche istante. Nessuno dei due pronunciò parola. I miei singhiozzi erano l’unica interruzione a quel silenzio disperato. Diego non meritava di vedermi così, disperata per la morte di un altro uomo. Eppure era lì a consolarmi, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Lui sapeva. Lui sapeva ogni cosa. Nei sei anni di vita insieme, ci era capitato di rado di parlare di Don Juan Tenorio. Una, forse due volte. Non c’era stato bisogno di confessioni: mio marito mi conosceva abbastanza per comprendere quanto indissolubilmente fossi legata a quel cavaliere, nonostante non gliene avessi mai parlato. Sapeva leggermi, sapeva capirmi. Aveva intuito fin da subito la mia storia con lui, ma non mi aveva mai giudicata. Aveva anzi saputo amarmi in ogni caso, accettando ogni mio errore e aiutandomi a tenerlo nascosto.
Lentamente le mie lacrime di dolore si trasformarono in lacrime di colpa. Erano passati anni da quando eravamo sposati eppure non ero ancora in grado di amarlo davvero. Gli volevo un gran bene, ero affezionata a lui ed avrei dato qualsiasi cosa purché stesse bene… ma oltre a questo? Improvvisamente piangevo per lui, per i suoi profondi sentimenti. Piangevo per non essere mai stata in grado di amarlo nel modo in cui lui amava me, per non essermi mai mostrata degna della sua bontà. Non ero mai riuscita in nessun modo a ringraziarlo nel modo giusto per essermi stato vicino, per avermi capita ed accolta nel suo cuore.
Istintivamente strinsi entrambe le braccia attorno alle spalle di Diego, stringendolo meglio che potei. Piangevo per l’uomo che anni fa mi aveva promesso di liberarmi dal mio triste destino, eppure trovavo al mio fianco colui che ci era davvero riuscito. Mi aveva liberato dai miei demoni, dalle mie paure, dalle mie angosce. Era l’uomo migliore del mondo e non avevo altri modi per dimostrarglielo se non un tacito abbraccio. Lo sentii sorridere, e finalmente alzai lo sguardo verso di lui. Nonostante la vista annebbiata dalle lacrime, riuscivo comunque a scorgere la sua espressione accigliata. Scorgevo anche il suo meraviglioso sorriso, così stonato in quella situazione ma così dannatamente azzeccato.
“Da adesso in poi tutto andrà meglio” disse delicatamente. Ricordai quelle parole, ricordai quanto le avevo odiate la prima volta che le avevo ascoltate. Ma stavolta mi parvero parole di speranza, e non potei fare altro che amarle. Tutto sarebbe andato per il meglio. Il demone che viveva dentro di me da anni sarebbe svanito al vento come le ceneri del corpo del cavaliere che viveva nel mio cuore. Annuii leggermente, cercando di liberare la mente dai pensieri negativi. “Grazie” mormorai a fatica, cercando di riprendere fiato. Mi alzai leggermente per permettere alle mie labbra di raggiungere quelle di Don Diego, che mi accolsero con benevolenza.
Inaspettatamente due colpi alla porta ci fecero sussultare entrambi. Mi asciugai le lacrime che ancora mi rigavano il viso, mentre mio marito si sistemava la maglia. “Avanti” pronunciò con tono autorevole non appena si fu assicurato che avessi assunto nuovamente delle sembianze accettabili. Alfonso fece capolino dalla grande porta di legno scuro. Non si scompose minimamente nel vederci. “Signori, l’insegnante ha terminato la sua lezione ed è andato via. Cosa dobbiamo far fare al signorino?” ci domandò, scrutandoci inespressivo. Diego mi diede un’occhiata fugace, come per chiedermi silenziosamente il permesso di prendere una decisione. Annuii, conoscendo perfettamente il volere di mio marito, e gli sorrisi. Doveva sapere che non sarei più crollata. Non in sua presenza, almeno. “Fallo venire qui, Alfonso” ordinò l’uomo seduto al mio fianco, e il maggiordomo annuì scomparendo oltre la porta.
“Non è un problema per te, Cel?” mi domandò Diego, dopo essersi assicurato che la porta fosse chiusa. Scossi la testa. “Assolutamente. Non posso negare a nostro figlio di stare un po’ con noi” pronunciai sicura, mentre sentivo gli occhi farsi nuovamente lucidi. Notando il riaffiorare delle lacrime, mio marito mi abbracciò nuovamente. “Ti aiuteremo a superare questo terribile momento, Cel. Te lo prometto” mi sussurrò, mentre una lacrima mi percorreva silenziosamente la gota.
La porta si spalancò creando non poca confusione. Una scheggia si precipitò sul letto con me e Diego. “Papà! Finalmente sei tornato! Mi sei mancato tanto”. Il bambino continuava ad abbracciare e baciare il padre con entusiasmo, continuando ad urlargli contro per dimostrare la sua infinita contentezza. Mi soffermai a guardare mio figlio, con un sorriso triste a dipingermi il volto. Era completamente rapito da suo padre, lo fissava con entusiasmo ed era chiaro che non vedesse l’ora di ascoltare tutto ciò che aveva da raccontagli riguardo Siviglia, il re, la guerra.
Il mio momento di contemplazione venne interrotto quando il piccolo si voltò verso di me. I suoi enormi occhi verdi mi fissavano con curiosità, mettendomi in soggezione. Due occhi verdi inconfondibili. “Papà, perché mamma piange?” domandò innocentemente, tirando la maglia di Don Diego. Aveva a malapena cinque anni, eppure era davvero molto sveglio per la sua età.  “Nadie, ma che domande fai? È ovvio che la mamma stia piangendo perché tu fin’ora non l’hai nemmeno salutata” venne rimproverato scherzosamente. Cercai di eliminare ogni traccia di tristezza dal mio sorriso. Senza farselo ripetere due volte Nadie si tuffò fra le mie braccia, stringendomi fortissimo. “Mamma, non piangere. Io ti voglio bene!” disse, affondando il volto fra il mio collo e la scapola. Lo strinsi a mia volta. Non volevo più lasciarlo andare, non in quel momento.
Solo dopo qualche istante i suoi lamenti mi convinsero a sciogliere l’abbraccio. Non sembrava infastidito dal mio eccessivo affetto, come avrebbe fatto un qualsiasi bambino; semplicemente la curiosità di conoscere ogni dettaglio dell’avventura del padre era divenuta nuovamente la sua priorità.
I suoi occhi erano pieni d’entusiasmo e gioia. Gli occhi del demonio sul suo faccino acquistavano tutto un altro senso. Lui non era il demonio, lui era l’angelo venuto a portarmi amore e serenità. E ci stava riuscendo davvero. Era un bambino buono ed amorevole, esattamente come Diego. Erano molto più simili di quanto potessi anche solo sperare.
“Su, papà, raccontaci quello che hai fatto di bello a Siviglia” intimai mio marito, prendendo Nadie e facendolo sedere sulle mie gambe. “Voglio sapere tutto tutto!” disse annuendo quest’ultimo, accoccolandosi tranquillamente fra le mie braccia.
“Siviglia è una bellissima città, piena di belle persone…” cominciò. “Più belle di mamma?” lo interruppe immediatamente Nadie, curioso. Scoppiai a ridere, mentre Diego si limitò a sorridere prima al bambino, poi a me. “Nessuna è più bella di mamma” ammise, fissandomi negli occhi.
Restituii il sorriso, grata per quel complimento.
“Hai ragione, papà, nessuna è bella e brava come mamma” si accodò il piccolo.
Istintivamente gli diedi un bacio su una guancia.
Quei due erano i miei angeli, e d’ora in poi tutto sarebbe andato bene.
Niente più demoni a tormentarmi il cuore ed i pensieri. D’ora in poi saremmo stati solo noi tre.
Da adesso in poi tutto andrà meglio.

   
 
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