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Autore: LilithJow    03/06/2013    2 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 25
"Sacrifice"


Si pensa alla morte come qualcosa di troppo remoto per riguardarci. Una scura e crudele mano nera che trascina chissà dove le persone, ma rimane lontano dai nostri interessi, dalle nostre menti.
Si pensa alla morte come qualcosa che tocca sempre e solo gli altri, gente sconosciuta con la quale non abbiamo mai parlato, della quale non sentiremmo la mancanza, in ogni caso. Ed ecco perché è così devastante: è sempre inaspettata, sebbene tutti siano a conoscenza del suo inesorabile avvenire.

 

«Simon Clarke, te l'ho già ripetuto. Sì, sì, ho chiamato quel numero, ma è inesistente. No, non... Dici? Non credo che... No, non ci sono altri familiari. Sì, va bene, attendo».

Il mio assistente sociale era una donna bruna, vestita con un tailleur grigio di almeno due taglie più grande, il che la costringeva a tirarsi su la gonna praticamente ogni secondo. Era al telefono da quelle che erano ore. O forse di meno, forse di più: non avevo scandito bene il tempo.
Non avevo fatto un bel niente, in realtà, a parte stare seduto immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto. Non avevo parlato, né gesticolato. Mi avevano mosso loro, come un fantoccio, cambiandomi i vestiti e pulendo la mia pelle, facendola tornare immacolata, priva di ogni traccia di rosso.
Un paramedico aveva sussurrato le parole “shock post-traumatico”. Non era la prima volta che mi capitava di averne uno, solo che ero pressapoco sicuro di non aver mai raggiunto quei livelli, così catastrofici. Non ero nemmeno stato in grado di chiamare aiuto, come se la vista di tutto quel sangue mi avesse reso muto.
Era stato il portinaio a chiamare aiuto, oppure i ragazzi delle pulizie. Non ne avevo idea. Tutto si muoveva attorno a me, nella sede centrale della polizia di Chicago, ma io non riuscivo ad interagire con nulla. Non sentivo nemmeno il calore della tazza di tè che mi avevano dato e che stavo tenendo in mano, senza avere l'intenzione di bere.

«Simon? Simon!».

Venni scosso delicatamente dalle spalle e solo allora riuscii a interagire di nuovo col mondo o, perlomeno, una parte di esso. Due mani dalle dita sottili raggiunsero il mio viso e mi accarezzarono lievi le guance; poi, vidi due occhi verdi che mi fissavano, sgranati. Si leggeva la preoccupazione in essi.

Hazel mi stava di fronte. La guardai, schiudendo appena le labbra. Cercai di dire qualcosa, ma, in un primo momento, quasi smisi di respirare.

«Ehi» sussurrò lei. Mi tolse la tazza di tè dalle mani e la ripose a qualche centimetro da me, sulla panca di legno su cui ero bloccato.

«Ti ho chiamata» riuscii a biascicare e dubitai che avesse compreso qualcosa, ma andai avanti lo stesso. «Ho detto il tuo nome ad alta voce o forse... Forse l'ho solo pensato, non lo so, però ti volevo al mio fianco e tu non c'eri e... E allora ho aspettato che tornassi, io ho aspettato, l'ho fatto e anche... Anche lei ti ha aspettato e lei... Lei... Lei è morta e... E io... Io...».

«Shh». Hazel mi strinse tra le sue braccia e io poggiai la testa sul suo petto. Solo allora piansi. Le lacrime, prima di quel momento, non avevano osato fuoriuscirmi dagli occhi. Erano rimaste intrappolate. Pensai avessero paura di colarmi sulle guance.

«Mi dispiace, Simon. Mi dispiace così tanto» la sentii sussurrare. Io non replicai: non sapevo cosa avrei potuto dire e nemmeno ne avevo la forza. Lei continuò a stringermi a sé, cullandomi, come fossi un bambino, e io chiusi gli occhi, sperando che quel gesto riuscisse a calmarmi, a farmi ritrovare almeno un briciolo di serenità, sebbene fosse impossibile.

«Possiamo andare!». Un'altra voce sopraggiunse, d'improvviso. Attesi qualche secondo prima di sollevare le palpebre e scorsi Martha, in piedi, di fronte a noi. Aveva un'espressione tranquilla, rilassata, come al solito. «Non posso andarmene» mormorai, alzando di poco il capo. «Non ho... Parenti stretti da cui andare, a parte mio padre, ma è lontano, chissà dove e io non...».

«Oh, non essere sciocco» mi interruppe la bionda «Hai me!».

«Cosa?».

«Già. Sono la tua nuova zia».

«Tu... Come...».

«Ho i miei trucchi. E amici nella polizia e nell'assistenza sociale. Un giorno ti spiegherò tutto».

Razionalmente, a mente lucida, l'avrei riempita di domande pressoché logiche che spiegassero con fatti concreti e soddisfacenti ciò che stava accadendo; tuttavia, il mio stato confusionario ed emotivamente sconvolto mi portò ad annuire e basta, senza obiettare su quanto fosse una vera pazzia.

Nemmeno loro dissero più nulla.

Lasciammo la centrale di polizia, sviando ulteriori pratiche burocratiche, almeno per quella sera. Per strada, mi bastò chiudere per un istante gli occhi e stringere la mano di Hazel per ritrovarmi al centro del salotto di casa di Martha. Quest'ultima, si allontanò quasi subito da noi due, come del resto faceva sempre, con la sua intenzione di lasciarci soli. Probabilmente, quello era uno degli unici momenti in cui davvero avevamo bisogno di restare da soli.

«Dovresti riposare un po'» sussurrò lei e le sue mani raggiunsero lentamente il mio viso. Scossi appena la testa. «Non riesco a dormire, non... Non posso» biascicai.

«Posso aiutarti io. Ti va?».

«No. Non...». Lasciai la frase in sospeso e strizzai gli occhi, trattenendo ulteriori lacrime che già sentivo affiorare. «Devo fare qualcosa, Hazel» mormorai. «Io devo. L'ha uccisa e lei... E lei non sapeva niente di tutto questo, non... Credevo di averla protetta abbastanza e invece non... Non...».

Dalla mia bocca uscivano frasi spezzate, sconnesse. Era ancora l'effetto dello shock.

«Lo so» disse lei, sfiorandomi le guance con i pollici. Alla fine, le mie difese erano crollate ancora una volta e stavo piangendo, ancora. «So che è stato lui e ti giuro che la pagherà per questo, ma ora come ora, tu non puoi fare nulla. Finiresti solo col farti uccidere e non credo di riuscire a sopportarlo»

«Cosa devo fare, allora?».

«Niente. Fidati di me e basta. Dobbiamo aspettare e poi, insieme, risolveremo tutto. Te lo prometto, d'accordo?».

Di nuovo, la mia reazione fu quasi meccanica. Annuii solamente, mordendomi piano il labbro inferiore. Hazel si sollevò sulla punta dei piedi, per baciarmi delicatamente in fronte e, successivamente, sullo zigomo sinistro. Mi prese per mano, poi, e io fui di nuovo un fantoccio, lasciandomi guidare nella “nostra” camera da letto. L'installazione era spenta, c'erano solo pareti pallide attorno a noi.
Hazel mi aiutò a mettermi a letto, davvero quasi fossi un bambino, togliendomi di dosso gli indumenti che bastavano per permettermi di stare comodo sotto le coperte, che rimboccò con cura. Un po' come faceva mia madre.

«Dormi un po', okay?» mi sussurrò e posò un altro delicato bacio su una delle mie guance. Abbozzò un sorriso, del tutto privo d'entusiasmo, e fece per andarsene. Tuttavia, nello stato in cui mi trovavo, se lo avesse fatto, molto probabilmente mi sarei definitivamente deteriorato, senza modo di tornare indietro.
Così allungai una mano e afferrai un suo braccio, trattenendola. «Resta qui con me» biascicai. Lei non obiettò. Forse, nemmeno aveva il coraggio di farlo. «D'accordo» mormorò e salì sul materasso, sdraiandosi al mio fianco. Mi rifugiai tra le sue braccia e sentii un suo lieve bacio sui miei capelli.

«Tu sei tutto ciò che mi resta» dissi, in un sospiro. Sollevai appena il capo, per incrociare i suoi occhi smeraldo. «Non... Non mi lasciare, okay? Mai, non... Non mi lasciare».

«Non ti lascio, Simon. Non vado da nessuna parte».

«Me lo prometti?». Oltre che a sembrare un bambino, in quel momento, mi comportai addirittura come tale, ma non potei farne a meno. La parte più infantile di me necessitava di sicurezze, di piccole rassicurazioni, per quanto potessero essere veritiere o lontanamente razionali.

«Te lo prometto» sussurrò Hazel. La guardai per qualche istante e mi morsi forte il labbro inferiore, rischiando di farlo sanguinare. Volevo evitare che il mio volto si riempisse ulteriormente di lacrime. Tornai a poggiare la testa sul suo petto e chiusi gli occhi. Lei prese ad accarezzarmi delicatamente il capo e poi cantò, una delle sue ninne nanne, che pian piano, mi fecero scivolare in un sonno profondo.


***


Sognai mia madre. Hazel scelse di farmi sognare lei: i suoi abbracci, le sue carezze, le sue favole della buona notte. Tutta quell'armonia passata che mi faceva stare bene. E fu così: nel sonno, stetti bene. Non c'era confusione, non c'era dolore, non c'era panico: solo armonia, gioia, felicità, dolcezza.

Quando aprii gli occhi, tuttavia, ogni cosa svanì. Ero solo, in quel grande letto dalle lenzuola blu scuro. Mi trascinai fuori dalle coperte, scompigliandomi i capelli con le dita e passandomi una mano sul volto. Indossai distrattamente le scarpe e la felpa nera, sperando di non avere un aspetto eccessivamente devastato. Abbandonai la camera da letto e, a passo lento, mi diressi verso il salotto. Ero sul punto di entrare in quella stanza, ma qualcosa mi bloccò: delle voci, quelle di Hazel e Martha. Stavano parlando ed ero pressapoco sicuro che io fossi il principale argomento della loro conversazione.

«Non devi farlo» esclamò l'ultima. Il suo tono sembrò quasi isterico ed era strano, da parte sua. Io rimasi nascosto dietro alla porta, sperando che non si accorgessero della mia presenza.

«Sì che devo» replicò Hazel «devo farlo, se vogliamo che questa storia finisca».

«Possiamo trovare un altro modo, Haz, noi p...».

«Non c'è un altro modo, Martha. Tamara gli avrà riferito ogni minimo particolare e lui starà già architettando qualcosa di diabolico». Fece una breve pausa e la sentii sospirare. «Ho bisogno che tu faccia una cosa per me».

«Cosa?».

«Devi dargli questa, dopo... Sai cosa».

«Una lettera? Credi che una lettera possa rimediare tutto?».

«Può spiegargli tutto, il motivo per cui lo sto facendo».

«No. No, scordatelo. Non sarò io a dargliela».

«Perché?».

«Perché non voglio essere io quella che gli spezza il cuore».

«Si sveglierà tra poco, Martha, ti... Ti prego».

«Non pregarmi! Io non farò proprio niente e nemmeno tu dovresti! Lo sai benissimo che è una follia!».

Hazel avrebbe replicato, ma, a quel punto, mi decisi a interromperle, anche perché non ero riuscito a seguire bene il discorso e volevo chiarimenti. «Cosa è una follia?» chiesi, muovendo qualche passo nel grande salotto. Vidi sussultare entrambe e Hazel si girò verso di me. Finse un sorriso e mi accorsi chiaramente di quanto fosse nevrotico e privo di ogni convinzione. «Ehi» disse, ignorando la mia domanda.

Avanzai ancora e mi fermai a meno di un metro da lei. «Cosa è una follia?» ripetei.

«Niente, non... Non preoccuparti».

«Dovresti dirglielo» si intromise Martha. L'amica la guardò in malo modo per un istante e le fece cenno di tacere. Io, ovviamente, fui più che confuso. «Dirmi cosa?» esclamai.

«Avanti, Hazel, svelagli il tuo piano». La Divoratrice bionda non era il tipo da prendere ordini, lo avevo sempre saputo. Sorrise ironicamente, incrociando le braccia, mentre Hazel scuoteva appena la testa, maledicendola con gli occhi.

«Hai un piano?» le chiesi, cercando il suo sguardo. Lei annuì, distrattamente. «Sì» biascicò «ce l'ho».

«E quale sarebbe?».

Esitò, mordendosi il labbro inferiore e portandosi una ciocca di capelli dietro ad un orecchio. Era come se stesse cercando le parole chissà dove ed esse non esistessero. Me ne accorsi dal modo in cui cercava inesorabilmente di evitare che i nostri occhi si incrociassero. «Ho intenzione di... Rubare il pugnale a Sebastian e... E usarlo, contro... Di lui» disse, alla fine.

Feci una smorfia e Martha sorrise, allo stesso modo di poco prima.

La sua frase era incerta, ma per un momento, dei frammenti di secondo, le credetti. «Rubargli il pugnale?» esclamai.

«Sì».

«E come facciamo?».

«Non “facciamo”. Lo farò io, da sola».

«Cosa? No, non... Non puoi farlo da sola! Tu...». Mi interruppi e, d'istinto, cercai lo sguardo di Martha. Mi bastò osservare i suoi occhi azzurri per un solo istante per capire tutto.
Purtroppo.

La sua espressione preoccupata, come mai l'aveva avuta, mi comunicò di più di ciò che le parole avrebbero fatto.

Tornai a fissare Hazel. Anche sul suo viso era stampata una maschera d'angoscia, mista di sensi di colpa. «Questo è il tuo piano?» mormorai. «Una missione suicida?». Lei non rispose. Fu Martha a farlo. «Quello è esattamente il suo piano» disse.

Avrei voluto dire tante di quelle cose, allora. Avrei voluto addirittura fermare il tempo per parlarle, però sembrava scorrere così in fretta che nulla riuscì ad uscirmi di bocca, se non un retorico «Perché?».

Hazel abbozzò un sorriso, amaro, e fece un passo avanti, per ritrovarsi in piedi a pochi centimetri di distanza da me. «Perché è giusto che sia così» sussurrò. «Tutto questo casino è scoppiato per colpa mia. Sono stata egoista e ho messo in pericolo troppe persone. Ho ferito troppe persone. Se voglio rimediare, questo è l'unica maniera per farlo».

«Vuoi... Vuoi rimediare permettendo a Sebastian di ucciderti?».

«Sebastian vuole uccidere sia me che te ormai, Simon, ma non sa che se uccide prima me, il sacrificio non funzionerà. Esso nasce dall'amore che un umano prova per un Divoratore, ma se il Divoratore cessa di esistere, questo non vale più. Non puoi amare una persona morta».

«Questo non è vero. Il vero amore non smette di esistere se uno dei due scompare, altrimenti amore non era e io sono assolutamente certo che il nostro lo sia e non... Tu non puoi farlo».

«Simon...».

«No!». Urlai. Ero fuori di me. Ero arrabbiato e triste allo stesso tempo e una marea di altre sensazioni erano entrate in conflitto dentro alla mia testa. «No, no, no, questo è... Questo è egoista! Tu che mi lasci dopo che ti ho supplicato di non farlo!».

«Credi che io voglia lasciarti?!». Urlò anche lei. Gli occhi di entrambi si erano fatti lucidi, ma nessuno dei due stava piangendo. Non ancora. «Io vorrei tanto stare con te per sempre, amore mio». Quella frase la sussurrò. «Però preferisco saperti felice, con una vita normale, e non in perenne pericolo a causa mia. Mi piace immaginarti mentre cresci e fai tutte quelle esperienze che un umano necessita di fare. A volte ti immagino adulto, con un bambino in braccio, identico a te, e tu gli sorridi, pieno di gioia, facendo comparire quelle due fossette che odi, ma che in realtà ti rendono il mio ragazzo carino. E' questo che voglio più di tutto il resto. E' questo ciò di cui non voglio privarti, per nulla al mondo».

Cedemmo entrambi, senza forse volerlo. Tutti e due stavamo piangendo, guardandoci negli occhi. «E quel che io voglio, non ha importanza?» replicai, stringendo i pugni lungo i fianchi.

«Certo che ne ha, ma è importante anche che tu viva». Fece una breve pausa e si passò una mano sul viso, che riuscì a sbavare ulteriormente il trucco che aveva sugli occhi. «Io l'ho fatto per millenni e... Non è giusto che tu dica addio a tutto così presto».

«Non è giusto che io dica addio a te».

Non replicò a quello. Mi sorrise, sforzando enormemente un briciolo d'entusiasmo. «Martha si prenderà cura di te». Cambiò argomento, drasticamente. «E'... Forte, starai bene con lei, finché non troverai la tua strada».

«Hazel...». L'amica la interruppe, ma non riuscì a proseguire la frase.

«Me lo ha promesso» continuò lei. Ci fu un'altra pausa, un po' più lunga della precedente. Hazel strizzò occhi e mi sorrise di nuovo, però quella volta non si sforzò di fingere euforia. Fece un passo avanti e alzò una mano, per sfiorarmi una guancia.

Io, forse a causa della troppa rabbia, la scansai. Ma non se la prese, continuò a sorridermi dolcemente, come del resto faceva sempre. Indietreggiò, rivolgendo lo sguardo a Martha. Dall'espressione di quest'ultima, si capiva chiaramente come la stesse supplicando di fermarsi.

«Non tenterai neanche di combattere?» biascicai. Hazel tornò a fissare me. In quel momento, indossava una maschera di dispiacere. O forse era pietà, date le mie condizioni.

«Ci proverò» sussurrò. Ovviamente, non era vero. Aveva già deciso il modo in cui tutto avrebbe dovuto svolgersi. Abbozzò un altro sorriso, l'ultimo che avrei mai visto. «Addio, Simon» disse, a bassa voce. Si voltò, pronta a dissolversi nel nulla, pronta a intraprendere un cammino irreversibile verso la morte.

Fu allora che cedetti. 
La rabbia, molto spesso, impedisce alle persone di fare le cose giuste. Non le fa ragionare e svanisce quando ormai è troppo tardi.

E quello era un addio. Che io volessi o meno, lo era, ed io ero arrabbiato, talmente tanto che nemmeno avevo avuto il coraggio di dirglielo per davvero.

Strizzai gli occhi, cercando di cacciare via il pianto. Balzai in avanti, coprendo in una frazione di secondo lo spazio che ci divideva. Afferrai un braccio di Hazel, la tirai verso di me, facendola girare. I nostri corpi sbatterono l'uno contro l'altro, ma non importò. Presi il suo viso tra le mani e poggiai le labbra sulle sue, nel bacio più doloroso che avremmo mai potuto darci.
Lei stritolò tra le dita la mia maglietta. In bocca, percepii il sapore salato delle sue lacrime, miste alle mie. Quando ci staccammo, le accarezzai le guance con i pollici. Avevamo entrambi il fiatone, come se avessimo corso un'intera maratona.

«Torna da me» sussurrai, con voce impastata.

«Sempre» replicò lei, con lo stesso tono. Nemmeno quello era vero, lo disse per lenire almeno in parte le mie ferite e il dolore che in seguito sarebbe sopraggiunto.

Non osai ribattere. Non ne avevo la forza. Mi staccai piano da lei che, dopo solo un battito di ciglia, sparì, lasciando nell'aria solo il suo profumo.

 

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Salve, lettori!
Ebbene sì, si sta avvicinando il finale c.c
A mio parere, è molto strappalacrime, ma lascio valutare a voi.
Nel frattempo, vi linko il gruppo Facebook della storia e, quindi, mio da autrice:

https://www.facebook.com/groups/335947866507523/

Se vi va, dunque, mi trovate anche lì.
Un bacione <3

Susy.

  
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