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Autore: _twilight_loverr_    03/06/2013    2 recensioni
Come andrebbe la storia se Bella fosse il vampiro e Edward l'umano?
Questa è la mia versione e spero che vi piaccia!
Dal primo capitolo:
chiese il nuovo arrivato distraendomi dai miei pensieri.
Genere: Fantasy, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Alice/Jasper, Bella/Edward, Carlisle/Esme, Emmett/Rosalie, James/Victoria
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Twilight
Capitoli:
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                                      DAWN-L'ALBA

POV. BELLA
                                              1. A prima vista

Ecco il momento della giornata in cui non desideravo altro che poter dormire.
Le ore di scuola.
Bè, forse la parola 'dormire' non si addiceva proprio a me. Forse la definizione giusta era 'purgatorio'. Ammesso che espirare le mie colpe fosse possibile, quelle ore andavano conteggiate. Non mi ero mai abituata alla mia costante noia in quelle ore. Ogni giorno sembrava sempre più monotono del precedente.
Immaginavo quello fosse il mio modo di dormire - se vogliamo chiamare sonno lo stato di inerzia tra un periodo di attività e l'altro.
Fissavo le mie mani, torturandomele. Cercavo di concentrarmi su alcune delle voci che mi blateravano in testa come cascate. Volevo sapere un pò di gossip. Ma niente. Niente di nuovo. Sempre le stesse chiacchiere su cose inutili. Neanche i miei fratelli e sorelle pensavano niente di nuovo.
Rosalie pensava sempre a se stessa e a cosa si poteva comprare alla prossima seduta di shopping a che Alice stava programmando per quel fine settimana, dopo essere andati a caccia. Alice pensava  unicalmente a Jasper e alla giornata di shopping.    Emmett pensava se cacciare un orso o un puma. Stupido. La mente di Jasper era sempre stata la mia preferita. Era sempre nuova e interessante. Peccato che quel giorno l'avevo già esplorata tutta. Decisi di cercare una mente che avesse qualcosa di nuovo, ma niente. UFF!
Isabella Cullen.
Come un riflesso mi voltai verso i miei fratelli per vedere chi di loro mi avesse chiamato. Odiavo quando qualcuno mi chiamava con il mio nome completo. Nessuno dei miei fratelli mi aveva chiamata. A quel punto mi accorsi che qualcun altro mi aveva chiamato. Riconobbi la 'voce' di Mike. Mike Newton
Ovviamente sta già perdendo la testa per le Cullen.
Mi voltai e per un momento che mi sembro eterno i miei occhi incontrarono quelli verdi di un umano. Lo conoscevo, malgrado non di persona. L'avevo incontrato in quasi tutte le menti umane quel giorno. Il nuovo alunno, Edward Anthony  Swan. Edward. Aveva già corretto chiuque l'avesse chiamato con il suo nome completo...
Ben gli sta. Non è neanche carino. Chissà perchè Angela lo sta fissando così... anchè Jessica.Continuò Mike.
Mi bloccai al nome di Jessica. Jessica Stanley. Ragazza di media popolarità e sua ultima conquista. Non gli stava prestando la più minima attenzione. Non perdeva d'occhio il nuovo alunno. Ciò aggiunse un che di perfido nei pensieri di Mike che si sforzava di essere gentile con il nuovo arrivato, mentre gli raccontava una sfilza di luoghi comuni sulla mia famiglia. Evidentemente il nuovo alunno gli aveva chiesto di noi.
“ Mike Newton sta sparlocchiando sulla nostra famiglia con il nuovo arrivato, il figlio di Swan“ avverti Rosalie per distrarmi. Lei soffoco una risata. Spero non si sia perso i particolari, scherzo lei mentalmente.
“ Poca fantasia, solo un po di scandalo. Neanche un grammo di orrore, sono un pò delusa“ la informai con una piccola smorfia. E il nuovo ragazzo?E deluso anche lui?Penso lei.
Cercai di concentrarmi per trovare i pensieri del ragazzo ma non riuscivo a sentirlo. Sentivo sempre le stesse voci. Mi girai un attimo a guardarlo per concentrarmi meglio anche se non era mai stato necessario. Niente. Non riuscivo a sentirlo. Restai concentrata per un pò ma niente. Mi rabbuiai. Mi ricordai che dovevo rispondere alla domanda di Ros solo quando mi scosse un braccio con un punto di interrogazione in faccia.
“'Non lo so...'“ sussurrai,ma ero sicura che tutti i miei fratelli mi avessero sentito. Ne avessi la conferma un secondo dopo.
“' In che senzo non lo sai?A che cosa sta pensando in questo momento?Mi spaventi cosi!'“disse Rosalie in un sussurro per non farsi sentire da qualche umano curioso. La guardai in faccia prima di riabbassare lo sguardo sulle mie mani.
“'Non lo sò e basta... ne riparliamo a casa, Okey? Per favore!'“dissi visibilmente più irritata io da questo che lei.                     Mi senti due occhi addosso e mi girai per vedere chi fosse. Appena mi accorsi chi fosse a fissarmi girai velocemente la testa, facendo volare i miei lunghi capelli color cioccolata. Mi piacevano un sacco i miei capelli. Mi ricordavano tanto i miei occhi da umana e quelli di mia madre. Scossi la testa per togliermi quel ricordo dalla testa, quello non era nè il momento nè il posto adatto per diventare improvvisamente triste e fragile. Quello era quello che quei ricordi mi facevano diventare, triste e fragile.
“'Chi è quella con i capelli marroncini?'“ chiese il nuovo arrivato distraendomi dai miei pensieri. Speravo che ascoltando la sua voce sarei riuscita a individuare il tono dei suoi pensieri, ma niente da fare. Non c'era.
Ah! Buona fortuna idiota!Penso Mike prima di rispondergli.
'“ Lei è Isabella Marie Cullen, ma si fa chiamare Bella. E' davvero uno schianto,lo vedi...“' ,Mike non riuscì a finire di parlare che Jessica si intromise come al solito.
“'Ma non ci perdere tempo, a quanto pare qui non gli piace nessuno!'“ disse, speranzosa che lui si accorgesse di lei, senza nessun risultato. Lui continuava a guardarmi con la punta dell'occhio o a guardare il suo vassoio quasi vuoto.
Mike e i suoi compagni non sapevano quanto fossero fortunati a non piacermi. Una volta mi era venuta in mente l'idea di andare da Mike e spiegargli cosa sarebbe successo se la mia bocca, e i denti che essa racchiudeva, si fosse avvicinata troppo a lui. Sorrisi al pensiero della sua reazione.
Non vedevo l'ora che anche quella giornata finisse, così da poter andare a casa a suonare un pò il mio adoratissimo piano. Casa. Pensai a cosa significasse essa per me. Quello era l'unico posto in cui non dovevo nascondermi. L'unico posto dove potessi essere quello che sono senza aver paura. Un posto dove potevo stare con chi mi voleva bene per quello che sono. Dove posso vivere tranquillamente la mia giornata, se la mia si può chiamare vita.
Quella era una casa per me.
Sentì dei pensieri molto cattivi riguardo al nuovo arrivato, da parte di Mike. Mi stava stranamente dando più fastidio del solito. Anche se i suoi pensieri mi avevano sempre dato fastidio, questi me ne davano ancor di più.Non sapevo perchè, ma avevo tanta voglia di mettermi tra di loro, proteggere quello strano ragazzo dai pensieri lugubri di Mike, ai quali era ancora ignaro. Mi voltai un ultima volta verso il ragazzo per osservarlo un ultima volta. Perchè da lui non sentivo altro che silenzio? Perchè?
“'Andiamo?'“ chiese Jasper, riportandomi alla realtà. Molto probabilmente aveva sentito il dubbio e il tormento in me e voleva distrarmi. Lui era sempre stato molto apprensivo nei miei confronti, anche se può sembrare spaventoso.
Distolsi lo sguardo dal ragazzo e mi sentì sollevata. Jasper trattenne un sorriso, pensando 'di niente Bella!'. A volte era proprio uno stupido!
Uscimmo velocemente dalla mensa e ci fermammo un attimo fuori per parlare prima che iniziassero le lezioni.
Emmet, Rosalie e Jasper si fingevano studenti dell'ultimo anno e si diressero verso le loro classi. Io e Alice ci dividemmo per andare a lezione. Avevamo corsi diversi. Camminai nel corridoio fino ad arrivare finalmente alla mia classe di biologia. Non mi piaceva un gran'che ma ero molto brava- non solo per il fatto che avevo passato il liceo un sacco di volte. Entrai e mi sedetti al mio tavolo. Era in prima fila, vicino la finestra. Nessuno si era mai seduto accanto a me o ai miei fratelli. O eravamo seduti da soli, o eravamo seduti insieme. Quando mi sedetti poggiai i libri sul tavolo e controllai nella mente del professore cosa aveva in programma per noi quel giorno. Una gara. Una gara di conoscienza sulle cipolle. Bleah! Odiavo le cipolle da sempre. Avevano un odore orribile!
L'aula si riempì lentamente mentre i ragazzi tornavano dalla pausa pranzo. Un nome mi catturò.
Edward.
Mi girai e lo vidi enrare. Mi guardai un attimo intorno per capire dove si sarebbe andato a sedere. Poveretto. L'unico posto libero era accanto a me. Sgombrai con un braccio la sua parte del banco per lasciarle posto. Non si sarebbe sicuramente sentito a proprio aggio, seduto lì accanto a me. Forse, però, standogli così vicina sarei riuscita a sentire finalmente i suoi pensieri, che al momento mi erano ancora oscuri.
Mentre camminava verso il mio banco, Edward Anthony Swan si fermò un attimo verso il getto d'aria, e il suo profumo mi catturò.
 Non c’è immagine violenta abbastanza da incapsulare la forza di ciò che mi accadde in quel momento.
Diventai tutt’altra cosa, rispetto all’essere umano che ero stata; ogni travvia dell’umanità in cui avevo cercato di confondermi svanì.
Ero predatrice. E lui, la mia preda. Non c’era altra verità al mondo.
Nell’aula non c’erano testimoni – nella mia mente, erano già tutti vittime collaterali. Dimenticai persino il mistero dei suoi pensieri. Non me ne importava più nulla, perché presto avrebbe smesso di pensare.
Ero la vampira, e lui aveva il sangue più dolce che avessi mai odorato in ottant’anni.
Non avevo mai creduto che un simile profumo potesse esistere. Se lo avessi saputo, sarei andata a cercarlo anni prima. Avrei rastrellato il pianeta, per lui. Chissà che sapore…
La sete mi bruciava la gola. Sentivo la bocca secca, carbonizzata. Nemmeno il fiotto di veleno fresco riuscì ad ammorbidire quella sensazione. Lo stomaco si contorceva per la fame, eco della sete. I muscoli, contratti, si prepararono a scattare.
Non era passato neanche un secondo. Procedeva verso di me, lungo il percorso che l’aveva portato sottovento.
Nel momento in cui posò il piede per terra, i suoi occhi sgusciarono verso di me, ovviamente nel tentativo di farsi notare. Il suo sguardo incontrò il mio, e mi vidi riflessa nel grande specchio delle sue pupille.
La sorpresa del volto che vi notai gli salvò la vita, per qualche spinoso istante.
E lui non fece nulla per aiutarmi. Quando decifrò l’espressione sul mio viso, il sangue tornò a inondargli le guance, e diede alla sua pelle il colore più delizioso che avessi mai visto. Il profumo era una nebbia impenetrabile tra i miei pensieri. Li articolavo a malapena. Erano furiosi, incontrollabili, incoerenti.
Accelerò il passo, come se avesse colto la necessità di scappare. La fretta lo rendeva goffo, vulnerabile, debole. Fin troppo, rispetto agli altri umani.
Cercai di concentrarmi sul volto che avevo visto nei suoi occhi e riconosciuto con ribrezzo. Il volto del mostro che viveva in me – quello che aveva scacciato dopo decenni di sforzi e disciplina ferrea. Con quale facilità era rispuntato in superficie!
Il profumo mi assalì di nuovo, scompigliandomi i pensieri e costringendomi quasi a balzargli addosso dal mio posto.
No.
Afferrai con forza il bordo del tavolo, nel tentativo di restare seduta. Il legno non era abbastanza resistente. Ne sbriciolai uno spigolo con la mano, nel palmo della quale non mi rimasero che pochi brandelli di legno; sul banco era rimasta incisa la sagoma delle mie dita.
Distruggere gli indizi. Regola fondamentale. Polverizzai subito il bordo del bando con le unghie, finché non rimasero un buco e un mucchietto di segatura sul pavimento, che disparsi con il piede.
Distruggere gli indizi. Vittime collaterali…
Sapevo cosa sarebbe dovuto succedere. Il  ragazzo si sarebbe seduto la mio fianco, e io avrei dovuto ucciderlo.
I testimoni innocenti della classe, altri diciotto ragazzi e un uomo, no avrebbero avuto il permesso di andarsene, dopo aver visto ciò che stavano per vedere.
Trasalii, al pensiero di ciò che sarei stata costretta a fare. Nemmeno al mio peggio avevo mai commesso una simile atrocità. Non avevo mai ucciso un innocente, in più di otto innocenti. In quel momento, invece, progettavo di massacrarne venti in un colpo solo.
Il viso riflesso del mostro si prese gioco di me.
Nel momento in cui una parte di me soccombeva, spaventata dal mostro, l’altra progettava la strage.
Se avessi ucciso per prima il ragazzo, avrei avuto quindici o venti secondi a disposizione, prima che gli altri umani reagissero. Forse un po’ di più, se non si fossero accorti subito di me. Non avrebbe avuto tempo di urlare né di sentire dolore; non gli avrei inflitto una morte cruenta. Almeno questo potevo concederlo, allo sconosciuto dal sangue tragicamente irresistibile.
Ma a quel punto avrei dovuto impedire agli altri di fuggire. Le finestre non erano un problema, troppo alte e strette per costituire una via di fuga. Soltanto la porta – sbarrata quella, e sono in trappola.
Sarebbe stata un’operazione più lenta e difficile, cercare di fermarli nel momento del panico, del disordine, del caos. Non impossibile, ma ci sarebbe stato troppo rumore. Troppo tempo per le urla. Qualcuno li avrebbe sentiti.. e io sarei stata costretta ad uccidere altri innocenti, in quel momento nero.
Alle prese con gli altri avrei lasciato che il suo sangue si freddasse.
Il profumo mi assalì, avevo la gola tanto secca da sentirmi soffocare…
Perciò, prima i testimoni.
Visualizzai una pianta della classe. Io ero al centro dell’aula, l’ultima fila stava alle mie spalle, Avrei iniziato da lato destro. Stimavo di poter spezzare quattro o cinque colli al secondo. Senza far rumore. Il lato destro era il più fortunato: non mi avrebbero visto arrivare. Spostandomi prima di fronte a me e poi sul lato sinistro, avrei impiegato, al massimo, cinque secondi per annichilire i presenti.
Abbastanza perché Edward Swan capisse, di sfuggita, cosa stava per succedergli.
Abbastanza perché provasse paura. Abbastanza, ammesso che la sorpresa non lo inchiodasse sul posto, per lanciare un urlo. Un urlo debole che non avrebbe fatto accorrere nessuno.
Feci un sospiro profondo, il profumo era un fuoco che correva nelle mie vene asciutte, mi esplodeva nel petto e consumava qualsiasi mio tentativo di autocontrollo. Si stava voltando. Ancora pochi secondi, e si sarebbe seduto a pochi centimetri da me.
Il mostro nella mia testa sorrise, impaziente.
Qualcuno, alla mia sinistra, chiuse una cartelletta, rumorosamente. Non alzai lo sguardo per capire quale dei predestinati fosse. Ma quel movimento bastò a soffiare un refolo d’aria normale, non profumata, sul mio volto.
Per un breve istante riuscii a pensare con lucidità. In quel prezioso istante, visualizzai due volti, uno accanto all’altro.
Uno era il mio , o meglio, lo era stato: il mostro dagli occhi rossi che aveva ucciso così tante persone da aver perso il conto. Omicidi giustificati, razionali. Assassina di assassini, assassina di altri mostri, meno potenti. Un complesso di superiorità degno di un dio, certo – decidere chi meritasse la sentenza di morte. Ero scesa a compromessi con la mia natura. Mi ero nutrita di sangue umano, ma la definizione era vaga. Le vittime, con i loro passatempi malvagi, non erano tanto più umane di me.
L’altro volto era quello di Carlisle.
I due visi non si somigliavano. Carlisle non era mio padre in senso strettamente biologico. Non avevo preso niente da lui. Il pallore che ci accomunava era il risultato di ciò che eravamo; tutti i vampiri avevano quello stesso colorito diafano e freddo. Il colore degli occhi aveva un’altra origine – rifletteva una scelta comune.
Eppure, malgrado la somiglianza non fosse lampante, immaginavo che il mio volto avesse iniziato a riflettere il suo, in un certo senso, nei settanta e più anni trascorsi da quando avevo imitato la sua scelta e seguito il suo cammino. I tratti del miei tratti somatici non erano cambiati, ma sentivo che un po’ della sua saggezza aveva segnato la mia espressione, e pensavo che un po’ della sua compassione si potesse leggere nella forma delle mie labbra, anche se le mie più gonfie, che le mie sopracciglia mostrassero un po’ della sua pazienza.
Ognuno di quei piccoli miglioramenti andava perso, di fronte al mostro. Pochi istanti, e non sarebbe rimasto più niente a testimoniare gli anni che avevo passato con il mio creatore, il mio mentore, quello che in più di un frangente era stato davvero mio padre. I miei occhi avrebbero brillato, rossi come quelli di un diavolo; tutte le somiglianze sarebbero sparite per sempre.
Gli occhi di Carlisle che visualizzavo non mi giudicavano. Sapevo che mi avrebbe perdonato un gesto così terribile. Perché mi voleva bene. Perché mi giudicava migliore persino di se stesso. E mi avrebbe voluto bene anche se avessi dimostrato che aveva torto.
Edward Swan si accomodò sulla sedia accanto a me, rigido e goffo (per la paura?) e il profumo del suo sangue sbocciò in una nuvola irresistibile mi circondò.
Avrei dimostrato a mio padre che su di me si sbagliava. La miseria di quel gesto bruciava quasi quanto il fuoco che sentivo in gola.
Rimasi a distanza, nauseata, disgustata dal mostro che moriva dalla voglia di prenderlo.
Per quale ragione era giunto proprio qui? Perché esisteva? Perché era venuto a rovinare quel poco di pace che avevo conquistato nella mia non-esistenza? Perché questo irritante essere umano era nato? Mi avrebbe condotto alla rovina.
Mi voltai per non vederlo, invasa da una sensazione di odio, orgogliosa e irragionevole.
Chi è questa creatura? Perché proprio io, proprio ora? Perché mi tocca perdere tutto per colpa della sua decisione di piombare in questa cittadina improbabile?
Perché proprio qui!?
Non voglio essere il mostro! Non voglio uccidere un’aula intera di ragazzi indifesi! Non voglio perdere tutto ciò che ho guadagnato con una vita di sacrifici e di rinunce! Non volevo. Non poteva costringermi in quel modo.
Il problema era il profumo, il profumo del suo sangue, così disgustosamente appetitoso. Se solo avessi trovato un modo per resistere… Se solo un altro regolo d’aria fresca mi avesse ripulito la mente.
Edward Swan spostò una ciocca dei suoi capelli rossicci, corti e folti, verso di me.
Era pazzo? Così non faceva che stuzzicare il mostro! Lo provocava.
Nessun gentile sbuffo d’aria arrivò a cacciare via il profumo. Presto, tutto sarebbe andato perso.
No, non c’erano spifferi ad aiutarmi. Eppure non ero costretta a respirare.
Arrestai la circolazione dell’aria nei polmoni; il sollievo fu istantaneo, ma parziale. Conservavo ancora il ricordo del profumo, il pensiero di quel sapore sul palato. Non sarei stata in grado di resistere a lungo. Per un’ora, forse, si. Un’ora. Il tempo sufficiente a uscire da quell’aula piena di potenziali vittime, vittime non predestinate. Se solo fossi riuscita a resistere per una sola, breve, ora.
Trattenere il respiro mi dava una sensazione sgradevole. Il mio corpo non aveva bisogno di ossigeno, ma il movimento per me era istintivo. Nei momenti di pressione, mi fidavo dell’olfatto più che di ogni altro senso. Mi guidava durante la caccia, era il primo segnalatore di pericolo. Raramente mi capitava di incontrare qualcosa che fosse pericoloso quanto me, ma l’istinto di sopravvivenza era forte, nella mia razza, quanto quello di un normale essere umano.
Fastidioso, ma sopportabile. Più di quanto non fosse sentire il suo odore senza affondare i denti in quella carne delicata, trasparente, fino al pulsare caldo, umido… Un’ora! Soltanto un’ora. Non dovevo pensare né al profumo né al gusto.
Il ragazzo, silenzioso, si nascondeva dietro il ciuffo di capelli, chino in avanti. Non riuscivo a guardarlo in faccia, né a leggere le emozioni nei suoi occhi luminosi e profondi. Era quella ragione per cui aveva lasciato che la ciocca ci dividesse? Per nascondermi i suoi occhi? Per paura? Timidezza? Per celarmi i suoi segreti?
L’irritazione che avevo provato in precedenza, quando non ero riuscita a penetrare i suoi pensieri silenziosi, impallidiva, di fronte all’istinto (e alla sensazione di odio) da cui mi sentivo posseduta. Perché odiavo il fragile ragazzo (bambino che mi stava seduto a fianco, lo odiavo con tutto il fervore con cui mi tenevo stretta alla mia vecchia identità, all’amore per la mia famiglia, ai sogni di diventare migliore di quanto non fossi…
Odiarlo, odiare la reazione che mi provocava – era un piccolo aiuto. Si, l’irritazione che avevo sentito era debole, ma era pur sempre un aiuto. Mi attaccai a qualsiasi emozione potesse impedirmi di fantasticare quanto fosse buono…
Odio e irritazione. Impazienza. Sarebbe mai trascorsa, la fatidica ora?
Passata quella… lui se ne sarebbe andato. E io, cos’avrei fatto?
Mi sarei presentata. Ciao, mi chiamo Isabella Cullen. Bella per gli amici. Posso accompagnarti alla tua prossima lezione?
Lui avrebbe risposto di sì. La reazione più educata. Benché già terrorizzato da me, come sospettavo che fosse, avrebbe rispettato le convenzioni e camminato al mio fianco. Guidarlo nella direzione sbagliata sarebbe stato un giochetto. Avrei potuto dirgli che avevo dimenticato un libro in macchina…
Qualcuno avrebbe ricordato di averlo visto assieme a me? Pioveva, come al solito; due giacche a vento scure che procedono nella direzione sbagliata non avrebbero acceso particolare curiosità, né mi avrebbero incastrato.
Peccato che quel giorno non fossi l’unica alunna ad essersi accorto di lui (benché nessuno bruciasse della mia stessa consapevolezza. Jessica Stanley, in particolare, seguiva ogni suo piccolo spostamento irrequieto sulla sedia ) si sentiva a disagio, così vicino a me, come chiunque nei suoi panni, come avevo previsto, prima che il suo profumo facesse a pezzi ogni mia velleità di gentilezza. Se fossimo usciti dalla classe insieme, Jessica Stanley se ne sarebbe accorta.
Per un’ora ce l’avrei fatta, ma per due?
Trasalii, arso dalle fiamme.
Sarebbe tornato a casa, solo. L’ispettore Swan lavorava tutto il giorno. Conoscevo la sua casa, come tutte le abitazione della cittadina. Era annidata ai margini di una foresta fitta, senza vicini nei paraggi. Avesse avuto il tempo di urlare, ipotesi ridicola, nessuno l’avrebbe sentito.
Quella sarebbe stata la maniera più responsabile di gestire il piano. Avevo rinunciato al sangue umano per sette decenni. Trattenendo il respiro avrei resistito per altre due ore. E quando fossi riuscita ad affrontarlo da sola, nessun altro avrebbe rischiato di farsi del male. E niente mi avrebbe messo inutilmente fretta, disse il mostro nella mia testa.
Con un po’ di sforzi e pazienza avrei potuto risparmiare la vita a diciannove esseri umani, ma pensare che tale rinuncia mi avrebbe reso meno mostruosa era un sufismo, di fronte all’assassinio di un ragazzo innocente.
Malgrado lo odiassi, sapevo che era odio maldisposto. La vera vittima del mio odio ero io stessa. E ci avrei odiati entrambi molto di più, dopo la sua morte.
Trascorsi l’ora in quel modo – visualizzando il modo migliore di ucciderlo. Cercai di non immaginare il gesto vero e proprio. Sarebbe stato troppo; rischiavo di perdere la battaglia e di uccidere chiunque mi capitasse a tiro. Perciò mi limitai alla strategia, e niente più. Mi aiutò a far passare il tempo.
Quando mancava una manciata di minuti alla fine dell’ora, mi lanciò un’occhiata da dietro il muro fluido dei suoi capelli. Incontrai di nuovo il suo sguardo, ed ecco riesplodere l’odio cieco ( lo vedevo riflesso nei suoi occhi spaventati. Prima che potesse tornare a nascondersi, le sue guance si tinsero ancora di sangue, e io fui sul punto di cedere.
Ma la campana suonò. Salvata in corner, come si dice. Fu la salvezza di entrambi. Lui sfuggì alla morte. Io, ancora per poco, dalla prospettiva di diventare la creatura d’incubo che temevo e disprezzavo.
Sfrecciai fuori dalla classe, incapace di camminare con la lentezza desiderata. Se qualcuno avesse badato a me, avrebbe sospettato che nel mio modo di muovermi ci fosse qualcosa di strambo. Invece nessuno mi notò. I pensieri umani giravano ancora tutti attorno al ragazzo che avevo condannato a morire di lì a un’ora.
Mi nascosi sulla mia auto.
Non mi piaceva essere costretta a nascondermi. Era un gesto da codardi. Ma era senza dubbio la scelta migliore.
Mi era rimasta troppo poca disciplina per confondermi con gli umani. Sforzarmi con tutta quell’energia di non uccidere uno di loro mi aveva privato delle difese per resistere agli altri. Sarebbe stato uno spreco. Se era il momento di cedere al mostro, che almeno ne valesse la pena.
Ascoltai un cd di musica che di solito mi calmava, ma servì a poco. No, ciò che più mi aiutava era l’aria fresca, umida, pulita che la pioggia leggera che entrava dai finestrini aperti portava con sé. Benché ricordassi il profumo di Edward Swan con precisione assoluta, respirare aria pulita era come disinfettare il mio corpo dall’interno.
Ero di nuovo sana. In grado di pensare. E di combattere. Contro ciò che non volevo essere.
Non ero costretta a seguirlo fino a casa. Né a ucciderlo. Ovviamente, ero una creatura pensante, razionale, e potevo fare una scelta. C’era sempre una scelta.
In classe non mi ero sentita così... ma ormai ero lontano da lui. Forse, se avessi badato con molta, molta attenzione a stargli lontano, non avrei avuto bisogno di cambiare vita. Mi andava benissimo, così com’era organizzata. Perché lasciare che un ragazzo nessuno, irritante e delizioso, mi mandasse a monte?
Non ero costretta a dare un dispiacere a mio padre. Né a far subire a mia madre tensione, preoccupazioni… dolore. Si, anche la mia madre adottiva ne sarebbe rimasta ferita. Per di più, Esme era una persona così gentile, tenera e delicata. Infliggere del dolore a una come lei sarebbe stato davvero un gesto privo di giustificazioni.
Per ironia della sorte, avevo desiderato proteggere quel ragazzo umano dalla minaccia meschina, vuota, dei pensieri maliziosi di Mike Newton. Ero l’ultima persona al mondo che avrebbe potuto proteggere Edward Swan. Di tutte le minacce che incombevano su di lui, la più pericolosa ero io.
All’improvviso sentii il bisogno di Alice. Non mi aveva visto uccidere il figlio di Swan in una moltitudine di maniere diverse? Era talmente assorta dai problemi di Jasper da non avere notato questa possibilità ancora più tremenda? Ero più forte di quanto pensassi? Sarei davvero riuscita  a non torcere un capello al ragazzo?
No. Sapevo che non era così. Alice, probabilmente, stava dedicando tutta sé stessa a Jasper.
La cercai nella direzione in cui sapevo di poterla trovare, nella palazzina delle aule di inglese. Non mi ci volle molto per individuare la sua 'voce' familiare. Non mi sbagliavo. Tutti i suoi pensieri riguardavano Jasper, filtravano ogni minima scelta del ragazzo con grande scrupolo.
Desiderai di poterle chiedere aiuto, ma allo stesso tempo fui felice che non sapesse cos’avrei potuto combinare. Che fosse ignara del massacro che avevo preso in considerazione un’ora prima.
Sentii una fiamma nuova scottare nel mio corpo, quella della vergogna. Nessuno di loro doveva sapere niente.
Se avessi evitato Edward Swan, se fossi riuscita a non ucciderlo, a questo pensiero il mostro ebbe un fremito e digrignò i denti, esasperato, avrei potuto tenermi tutto per me. Se fossi riuscita a tenermi lontano dal suo profumo…
Non avevo motivo di non provarci, almeno. Fare la scelta giusta. Cercare di essere ciò che Carlisle pensava io fossi.
L'ultima ora di scuola stava per finire. Decisi di mettere subito in pratica il mio nuovo piano. Sempre meglio che restare seduto in auto nel parcheggio, dato che lui avrebbe potuto passarmi sotto il naso e rovinare il tentativo. Sentii di nuovo l'odio ingiustificato per il ragazzo. Odiavo il fatto che esercitasse quel potere inconscio su di me. Che potesse trasformarmi in qualcosa per cui provavo disgusto.
Attraversai alla svelta, forse un po' troppo alla svelta, ma non c'erano testimoni, il piccolo campus, diretta alla segreteria. Non c'era motivo che Edward Swan incrociasse il mio cammino. Per me era la peste, e come tale l'avrei evitato.
L'ufficio era vuoto, c'era soltanto la segretaria con cui volevo parlare.
Non si accorse della mia entrata silenziosa.
“signora Cope?“
La donna dai capelli di un rosso innaturale alzò la testa e sgranò gli occhi. I nostri piccoli segni di riconoscimento li prendevano sempre in contropiede, non importa quante volte ci avessero già visti.
“Oh!“, esclamò, con un certo turbamento. Si aggiustò la camicia. Sciocca, pensò tra sé. Sapevo che gli piacesse mio fratello Emmet, anche se sapeva che: primo, lui doveva essere più giovane di lei, doveva. Secondo, lui stava con Rosalie. Io non l'avevo mai detto a lui, mi piaceva vedere le sue espressioni e i suoi pensieri.
“Ciao, Isabella. Posso esserti utile?“ Sbatteva le ciglia, dietro gli occhiali spessi.
Mi aveva messo a disagio. Ma sapevo essere seria, quando volevo. Senza fatica, perché coglievo all'istante le reazioni a ogni mio gesto o parola.
Mi sporsi sul banco, e incrociai il suo sguardo, come per cercare qualcosa nel profondo di quegli occhi castani, piccoli e vuoti. Sarebbe stato un gioco da ragazzi.
“Avrei un problemino di orario“, dissi, con la voce suadente che utilizzavo quando non volevo spaventare gli umani.
Il battito del suo cuore accelerò.
“Certo, Isabella. Qual è il problema?“ Non chiedere del fratello, non chiedere del fratello, ripeteva tra sé. E' troppo giovane lui, troppo giovane .Ovviamente si sbagliava. Lui era più vecchio di suo nonno. Certo, stando ai dati sulla sua patente aveva ragione lei.
“Mi chiedevo se fosse possibile scambiare le mie ore di biologia con quelle di una disciplina dell'ultimo anno. Fisica, magari?“
“C'è qualcosa che non va con il signor Banner, Isabella?“
“No, niente affatto, è soltanto che ho già affrontato questo programma...“
“Certo, in quella scuola speciale che hai frequentato in Alaska.“ Ci pensò su, corrugando le labbra. Dovrebbero già essere tutti all'università. Ho sentito gli insegnanti lamentarsi. Medie perfette, mai un'incertezza nelle interrogazioni, mai una risposta sbagliata negli scritti, come se avessero trovato il modo di copiare in tutte le materie. Il professor Varner si inventa le teorie più fantasiose, pur di non ammettere che uno studente è più in gamba di lui... Probabilmente è la madre che gli fa da insegnate... “a dir la verità, Isabella, per fisica non ci sono più posti. Il professor Banner non vuole più di venticinque studenti per classe...“
“Non sarebbe in problema.“
Certo che no. Tu sei un Cullen perfetto.“Lo so, Isabella. Ma non ci sono abbastanza banchi, in questo momento...“
“Posso saltare le lezioni, allora? Potrei sfruttare le ore libere per studiare per conto mio.“
“Vuoi saltare biologia?“ Restò a bocca aperta. Roba da matti. Che fastidio ti dà seguire una materia che già conosci? Dev'esserci qualcosa che non va con il professor Banner. Forse dovrei parlarne con Bob. “Ma così non avrai abbastanza crediti per il diploma.“
“Recupererò l'anno prossimo.“
“Forse dovresti parlarne con i tuoi genitori.“
Alle mie spalle si aprì la porta, ma chiunque fosse, non stava pensando a me, perciò ignorai chi era entrato per concentrarmi sulla signora Cope. Mi sporsi ancora di più, e aumentai l'intensità dello sguardo. Avrebbe funzionato meglio se i miei occhi fossero stati dorati, anziché neri. Il nero, giustamente, metteva paura.
“Per favore, signora Cope...“ Cercai di parlare con il tono più morbido e intenso di cui ero capace, e ne ero capace, altroché. “Non ci sono altre lezioni con cui fare cambio? Senz'altro ci sarà qualche ora disponibile. Biologia alla sesta non è di certo l'unica opzione...“
Le sorrisi, attenta a non spaventarla mostrandole troppo i denti, con un'espressione rilassata.
Il cuore le batteva all'impazzata.
“Posso parlarne con Bob... cioè con il professor Banner. Posso vedere se...“
Un secondo fu sufficiente a cambiare tutto: l'atmosfera nella stanza, il senso della mia missione, il motivo per cui ero china di fronte alla donna dai capelli rossi... Ciò che prima aveva avuto un senso, ora ne possedeva un altro.
In quel secondo, Samantha Wells aprì la porta, e con un gesto frettoloso ripose un modulo firmato nel cestino accanto all'ingresso, per poi andarsene alla svelta, impaziente di fuggire da scuola. In quel secondo la folata improvvisa di vento filtrò dell'entrata e mi colpì in pieno. In quel secondo capii perché non ero stato disturbato dai pensieri della persona giunta in segreteria dopo di me.
Mi voltai, benché non ce ne fosse bisogno, per confermare i miei sospetti. Mi voltai piano, lottando contro i muscoli che si ribellavano.
Ed ecco Edward Swan, in piedi, spalle al muro, accanto alla porta, con un modulo tra le mani. I suoi occhi incontrarono il mio sguardo feroce, disumano, e si spalancarono ancora più del solito.
L'odore del suo sangue riempiva ogni molecola d'aria nella stanza piccola e calda. La mia gola s'incendiò.
Specchiandomi nei suoi occhi rividi lo sguardo del mostro, una maschera di malvagità.
La mia mano restò sospesa a mezz'aria sopra il bancone. Senza neanche guardarla, avrei potuto schiacciare la testa della signora Cope contro il tavolo, con forza sufficiente a ucciderla. Due vite, anziché venti. Un buon compromesso.
Il mostro aspettava che lo facessi, ansioso e affamato.
Ma restava sempre una scelta, doveva esserci.
Arrestai il movimento dei polmoni, e fissai gli occhi di Carlisle di fronte ai miei. Tornai alla signora Cope e le sentii sorpresa, a causa del mio cambiamento di espressione. Si allontanò da me, senza esprimere la sua paura con parole coerenti.
Grazie all'autocontrollo perfezionato in decenni di abnegazione, parlai con voce piana e sicura. Mi era rimasta abbastanza aria nei polmoni per un'ultima rapida frase.
“Non fa niente. Mi rendo conto che è impossibile. Molte grazie lo stesso.“
Mi voltai e sgusciai via dalla stanza, sforzandomi di non badare al calore del sangue del ragazzo, mentre passavo a pochi centimetri da lui.
Mi fermai soltanto quando, dopo uno scatto fin troppo svelto, raggiunsi la mia auto. La maggior parte degli umani non era ancora uscita, perciò i testimoni erano pochi. Sentii uno del secondo anno, D.J. Garret, notarmi, ma senza troppa convinzione...
Da dove è uscita Cullen? Sembra spuntata dal nulla... Ci risiamo, io e la mia fantasia. Mamma lo dive sempre...
Mi infilai nella Volvo, sulla quale trovai gli altri che mi aspettavano. Cercai di controllare il respiro, ma l'aria fresca mi faceva tossire, quasi stessi soffocando.
“Bella?“ chiese Alice, in tono allarmato.
Le risposi con un cenno del capo.
“Che diamine ti è successo?“ chiese Emmett, distratto, in quel momento, dal rifiuto di Jasper di accettare la rivincita.
Anziché rispondere, innestai la retromarcia. Dovevo uscire dal parcheggio, prima che Edward Swan mi raggiungesse. Il mio demone privato mi tormentava... Terminai la manovra e accelerai. Prima ancora di uscire in strada raggiunsi i settantacinque all'ora. Girato l'angolo, ero quasi a ottanta.
Senza guardarli, capii che Emmett, Rosalie e Jasper si erano voltati verso Alice. Lei si strinse nelle spalle. Non vedeva cosa fosse successo né cosa stesse per accadere.
Scrutò nel mio futuro. Entrambi analizzammo la sua visione, che ci sorprese.
“Te ne vai?“ sussurrò lei.
Gli sguardi si spostarono su di me.
“Me ne vado?“ risposi, con un sibilo.
In quel momento, la mia risoluzione vacillò, e Alice vide la direzione più cupa in cui mi sarei gettato facendo l'altra scelta.
“Ah.“
Edward Swan, morto. I miei occhi accesi, rossi di sangue fresco. La successiva caccia all'uomo. Il periodo di attesa e di cautela, nascosti, prima di ricominciare da capo...
“Ah“, ripeté. Il quadro si arricchì di dettagli. Per la prima volta vidi l'interno della casa dell'ispettore Swan, vidi Edward dentro una piccola cucina con degli armadietti gialli, me stessa che spuntavo dall'ombra alle sue spalle... Guidato verso di lei dal suo profumo o...
“Basta!“ ringhiai, incapace di sopportare altro.
“Scusa“ sussurrò lei, sgranando gli occhi.
Il mostro esultò.
E la visione nella sua mente cambiò ancora. Un'autostrada deserta, di notte, gli alberi che la costeggiavano, coperti di neve, che scorrevano a quasi trecento all'ora.
“Mi mancherai“ disse Alice. “Anche se torni presto.“
Emmett e Rosalie si scambiarono uno sguardo apprensivo.
Eravamo vicini alla svolta per il lungo sentiero che conduceva a casa nostra.
“Lasciaci qui“ ordinò Alice. “Meglio che parli tu stesso con Carlisle.“
Annuii, e frenai di colpo.
Emmett, Rosalie e Jasper scesero in silenzio; avrebbero chiesto spiegazioni a Alice dopo la mia partenza. Alice mi sfiorò una spalla.
“Farai la scelta giusta“ mormorò. Non era una visione, ma un ordine. “E' l'unico parente di Charlie Swan. Sarebbe come uccidere anche lui.“
“Si“ dissi, d'accordo soltanto con la seconda parte del discorso.
Sgusciò fuori dall'auto per raggiungere gli altri, con le sopracciglia contratte per l'ansia. Si confusero nel bosco, li persi di vista prima ancora di girare l'auto.
Tornai indietro a tutta velocità, e intuii che le visioni di Alice passavano dal buio alla luce con la velocità di una straboscopica. Puntavo verso Forks, a centocinquanta all'ora, ma non conoscevo ancora la mia meta. Veloce come un proiettile, andavo a dire addio a mio padre? O a ricongiungermi con il mostro che avevo dentro?
Perchè doveva diventare tutto così difficile solo per uno stupido ragazzino?
  
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