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Autore: Magnet    03/06/2013    3 recensioni
Alice è una diciassettenne dai capelli rosso fuoco, perennemente distratta e immersa nelle pagine dei libri che le tengono compagnia in una stanza disordinata quanto i suoi pensieri. Sogna di diventare una scrittrice, di poter cambiare la vita di qualcuno con le proprie parole e al tempo stesso vorrebbe che qualcuno cambiasse la sua. Beatrice sopporta disperatamente i suoi diciannove anni, come se ad ogni respiro qualcuno le scagliasse contro una pietra e aspetta rassegnata la fine di quella che per lei non è vita. Esiste, ma non vive. Alice e Beatrice sono una la salvezza ed il completamento dell'altra. Sono destinate ad incontrarsi, proprio come un fiocco di neve è destinato ad incontrare il terreno, ad abbandonarsi ad esso, a sciogliersi.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Come la neve 3 Capitolo 3.

Beatrice, nel momento in cui le dita di Alice sfiorarono le sue, aveva avvertito una sorta di scossa. Qualcosa che da tanto tempo sembrava incapace di riuscire a provare. Interesse, forse? Curiosità? Ad ogni modo, non era qualcosa che poteva permettersi di aggiungere ai suoi pensieri.
Lasciò che la ragazza dai capelli rossi e le mani curatissime si allontanasse con la sua amica, poi decise di tornare anche lei in quella che avrebbe dovuto definire la sua casa.  Alice le aveva chiesto, quella mattina, se avesse freddo. Ripensandoci, un leggero sorriso spuntò sulle sue labbra, lasciando che s'intravedesse la schiera di denti regolari e bianchi.
Tutt'intorno, la folla di alunni si era quasi del tutto dispersa. Restava lei, nel silenzio e nel candore dell'inverno. Il terreno, disseminato di impronte grigiastre, produceva un suono ovattato ad ogni suo passo. Voltandosi verso la strada percorsa soltanto da un paio d'auto, vide una madre tenere per mano sua figlia, che insisteva per restare a giocare con la neve. Sentiva in modo poco distinto le lamentele della donna, che, esasperata, si vergognava di dare nell'occhio così tanto. Un ragazzo con una sciarpa bianca ed un giubbotto verde era appena uscito dalla porta di casa, in mano un guinzaglio e sul viso l'aria annoiata di chi porta il cane a fare i bisogni.
Camminò verso il bar più vicino. Non voleva davvero tornare a casa. Avrebbe voluto vivere semplicemente come le persone viste poco prima. Avrebbe desiderato giocare con quella bambina piuttosto che sgridarla e sarebbe stata ben contenta di portare a spasso il suo cagnolino.
Entrò in un locale nel quale era stata più volte e si aspettò di sentire il rumore della porta cigolante che la infastidiva tanto. Sorprentemente, nessuno scricchiolio turbò il suo udito. Sorrise al proprietario del bar, con il quale aveva ormai un buon rapporto. Si poteva dire che Giorgio fosse quello che per lei si avvicinava di più al concetto di amico, sebbene avessero circa venticinque anni di differenza.
"Finalmente ti ho dato retta ed ho aggiustato quella maledetta porta. E' più carino così, vero?" l'uomo, dai capelli leggermente brizzolati, gli occhi piccoli e vispi ed un principio di barba, le rivolse ad alta voce quelle parole, impegnato a pulire dei bicchieri.
Beatrice annuì e godette per un attimo del tepore della stanza. Non aprì bocca se non per chiedere un the caldo.
Seduta sull'alto sgabello che dava sul bancone, osservava il bar. Era un posto un po' squallido, dopotutto. Oltre a lei, il proprietario e tre vecchietti seduti in un angolino a litigare su chi avesse vinto quella mano di chissà quale gioco di carte, non c'era nessun altro. Come sempre.
Ogni cosa era la stessa. Il the che sorseggiava era troppo zuccherato, ma non le piaceva lamentarsi. Prendeva le cose così come le venivano offerte.
Detestava il suo accontentarsi, eppure non sapeva fare altro. Si sentiva la persona più debole del mondo, incapace di reagire, di ribellarsi, di desiderare davvero di prendersi ciò che le spettava e non farsi privare della sua stessa vita. Certo, lamentarsi per un the dolce fino al nauseante era una sciocchezza a confronto, ma era qualcosa da cui partire.
"Allora, Bea, come vanno le cose?" Giorgio si era preso una pausa, dopo aver messo da parte i bicchieri luccicanti, e si era seduto proprio di fronte a lei.
Era una domanda di circostanza. Beatrice avrebbe detto bene e Giorgio avrebbe intuito che quella in realtà era una menzogna, ma non avrebbe fatto ulteriori domande. Come sempre.
"Come al solito." rispose lei, con una voce incolore.
Mentre teneva gli occhi bassi sul the e si concentrava nei movimenti circolari del cucchiaino, percepiva lo sguardo di Giorgio fisso su di lei. Sentiva che a breve le avrebbe posto la fatidica domanda, quindi decise di risparmiargli la fatica di pensare a come chiedere una cosa tanto privata senza sembrare invadente.
Sollevò gli occhi gelidi verso di lui e lasciò il cucchiaino, mentre la bevanda disperdeva la forza che la faceva ruotare ancora attorno al metallo della posata.
"So che hai paura di chiedermelo, ma sì, l'ha fatto. Mi ha picchiata di nuovo." come prima, la voce di Beatrice non lasciava trasparire alcuna emozione. Era brava anche in quello, lei; tenersi dentro ogni cosa in modo da rendere il proprio viso una maschera d'indifferenza era la sua specialità. Spesso però, le persone si rivolgevano a lei con tono quasi impietosito. Beatrice immaginava solo che il suo aspetto facesse loro pensare ad una ragazza disagiata e questo spingeva l'essere ipocrita che è l'uomo, ad assumere quel tono.
"Dio mio, Bea." disse Giorgio, lo sguardo ancora fisso nei suoi occhi e una voce abbastanza grave.
Beatrice non riuscì più a sostenere lo sguardo dell'amico. Le dita iniziarono a tremarle e se avesse aperto bocca, anche la sua voce si sarebbe spezzata. Prese lentamente la tazza e se la portò alle labbra, finendo di bere quel thé ormai raffreddatosi.
"Se lo denuncio sarebbero solo ulteriori guai. Giò, le cose si sistemeranno, ma non così." sbrigativa, la ragazza dai capelli neri fece per scendere dallo sgabello.
"Almeno lascia che ti medichi quel taglio. Vieni, forza." la voce del barista era rassegnata. L'argomento 'denuncia' era qualcosa che Beatrice davvero non voleva toccare.


Giorgio condusse la giovane al piano superiore, dove alloggiava. Era un posto squallido quanto il bar. Pareti povere e annerite dal fumo, stanze altrettanto spoglie. In quelle camere c'era soltanto l'arredamento essenziale e dalle finestre non entrava altro che un filo di luce. La ragazza sapeva che da quando era morta sua moglie, il barista aveva perso qualsiasi interesse nella cura della propria casa e passava la maggior parte del suo tempo al piano inferiore. Una volta pianse proprio davanti a lei, ricordando la donna che aveva sposato. "Si chiamava Beatrice, proprio come te" disse quel giorno. Forse fu proprio in quel periodo che i due legarono così tanto.
"Siediti qui, vado a prendere l'acqua ossigenata." premurosamente, Giorgio spostò una sedia e la fece sedere rivolgendole un bel sorriso. Sebbene sembrasse una persona triste e cupa fuori, quell'uomo sapeva ancora come infondere tranquillità e sicurezza a chiunque ne avesse bisogno. Sotto quel punto di vista, Bea lo invidiava.
Mentre Giorgio era alla ricerca di ovatta e disinfettante, la diciannovenne si prese del tempo per cercare di scacciare tutti i brutti pensieri che le stavano vorticando nella mente.
Suo padre, la bottiglia di vino spaccata per terra, la puzza di fumo concentrata in quel buco che definiva casa, lo sguardo vuoto di sua madre.
Spezzoni delle giornate precedenti le apparivano sempre più frequentemente e la vista sembrava quasi annebbiarsi, il respiro si mozzava, l'aria diventava rarefatta, le mani tremavano. Non poteva, non voleva tornare da loro. Sarebbero stati solo più guai per lei.
Nello stesso momento in cui Giorgio ritornava nel salotto, le prime lacrime sgorgarono dagli occhi di Beatrice. E, con la stessa forza delle acque che distruggono una diga, queste non potevano più essere ricacciate indietro. Insistevano per colare sul suo viso e lei era troppo stanca, aveva bisogno di liberarsene. I primi singhiozzi iniziarono a scuoterle il corpo e desiderò solo diventare un minuscolo insettino per volare via nel silenzio o, ancora meglio, essere schiacciata e morire in un modo rapido quanto brutale. Velocemente, Giorgio andò verso di lei, posando i medicamenti sul tavolo. Strinse la ragazza in un abbraccio protettivo e caldo. La camicia del barista aveva un familiare odore di caffè. Beatrice la bagnò con le sue lacrime, rifugiandosi nel petto del suo unico amico e tremando come una foglia.
"Io non posso abbandonarla, Giò. Non posso abbandonare nessuno dei due. Eppure vorrei tanto andarmene via..." mormorò tra un singhiozzo e l'altro.
"Hai solo diciannove anni ed il peso di questa situazione sulle spalle. E' comprensibile se non ce la fai più, davvero. Sfogati."
Le braccia robuste dell'amico la facevano sentire protetta e, chiusi gli occhi, cercò di riprendere a respirare regolarmente. Prese un respiro profondo e lentamente ricacciò fuori l'aria. Fece il gesto più volte finché non sentì che anche gli occhi erano definitivamente asciutti. Si scostò piano da Giorgio.
"Mamma peggiora sempre di più. Sembra che stia scomparendo man mano. Il suo corpo è lì, ma non sai se ti sente, se ti comprende. E quando papà torna ubriaco e alza le mani, lei non fa nulla. Rimane seduta a fissare un punto imprecisato della stanza. Io provo a farla reagire, ma ultimamente rifiuta persino gli antidepressivi. Sai come mi sono fatta questo?" si interruppe, indicando il taglio sulla guancia e riprese la parola al cenno di negazione di Giorgio. "Ho urlato a mio padre di smetterla di bere. Gli ho sputato la verità in faccia, cioè che se ha perso il lavoro è colpa sua e del suo essere così immondo, così animale e bere  fino a ridursi il fegato in pappa, non farà in modo che qualcuno venga a bussare alla nostra porta per offrirgli un posto. E lui si è infuriato. Forse me la sono cercata."
Beatrice si alzò dalla sedia e si passò il dorso della mano sugli occhi, poi prese di nuovo la parola.
"Forse è meglio che vada."
"Vuoi tornare a casa?" Giorgio sembrava scioccato.
"No. Per oggi niente casa. Faccio una passeggiata." di nuovo la voce incolore di qualcuno che non ha niente da perdere e niente per cui gioire.
"Se non sai dove rimanere per oggi, puoi tornare qui da me."
Beatrice sorrise e annuì in segno di ringraziamento. Poi gli strinse la mano, in un gesto che voleva comunicargli tutta la sua gratitudine e Giorgio l'accompagnò alla porta.

Dovevano essere circa le tre del pomeriggio. Il cielo era scuro e le nuvole avevano lo stesso colore dello strato di neve ingrigita che Beatrice calpestava con i suoi anfibi neri. Mentre fumava distrattamente una sigaretta, le venne in mente la chioma fiammeggiante di Alice. Chissà cosa stava facendo quella ragazza. Le aveva fatto una strana impressione, quando si era seduta vicino a lei, decisa a conoscerla.
Si fece mille domande su di lei: quali fossero i suoi interessi, com'erano i suoi genitori, il suo ragazzo, le sue amiche. E non appena si rese conto che per tutta la strada percosa non aveva pensato ad altro se non a lei, si diede della stupida e cercò in ogni modo di deviare la sua attenzione su qualcos'altro. I bambini imbacuccati che si tiravano palle di neve. No, poco interessante. Il gatto che stava agilmente passando al di sotto di una recinzione decadente. Neanche. C'era solo lo sguardo da ragazzina di Alice e le sue lentiggini. Qualcosa in lei l'aveva totalmente rapita.



La ragazza dai capelli rossi, quasi come se avesse percepito di essere l'oggetto dei pensieri di Beatrice, interruppe lo studio e si sdraiò sul letto, un braccio alzato e posto dietro la testa e l'altro sulla pancia. Ripensò a quella mattinata e alle mani fredde e ruvide che aveva stretto. Non riusciva a concentrarsi su nient'altro, quindi, dopo aver trascorso una buona mezz'oretta in balia dei suoi pensieri, si alzò ed iniziò a raccattare sciarpa, cappello e giubbotto.
Dopo essersi vestita, uscì di casa, decisa a fare una bella passeggiata per schiarirsi un po' le idee. Non avrebbe mai potuto immaginare che, camminando nei dintorni del suo liceo, avrebbe incontrato colei il cui viso non dava pace alla sua mente da ore ed ore.
Fissava le punte delle sue scarpe quando sentì una voce vicina che la chiamava.
"Ciao, Alice." Beatrice non usò alcuna intonazione particolare, sebbene desiderasse incontrarla di nuovo senza capirne il motivo.
"Oh, ciao." la rossa le sorrise con evidente imbarazzo, poi riprese "dove stai andando?"
Le orecchie le stavano andando a fuoco, immaginò che si stessero mimetizzando perfettamente con i suoi capelli e probabilmente anche il suo viso tradiva l'agitazione, poiché lo sguardo di Bea assunse un cipiglio interrogativo.
"Facevo quattro passi. Ma sei sicura di star bene?"
"Perché, non dovrei? Non stai andando da nessuna parte in particolare?"
Beatrice si chiese se fosse una sua abitudine quella di ignorare le domande e farne immediatamente altre. Sorrise e affermò che non aveva alcuna meta.
"Allora ti va di farli con me, questi quattro passi?" la domanda uscì così velocemente dalle labbra di Alice, che quasi alla mora sembro di aver capito male. La sua interlocutrice si stava torturando le mani dietro la schiena e mascherava il suo nervosismo dietro un sorriso non troppo tirato.
"Certo." anche le sue labbra si curvarono all'insù e mentalmente continuava a chiedersi perché la rossa fosse talmente imbarazzata.

Dopo aver camminato per un po' in silenzio, Beatrice si disse che quella era l'occasione buona per conoscere qualcosa di più di Alice. C'erano molte cose che le interessava sapere, così decise di invitarla a bere qualcosa di caldo, nonostante avesse già bevuto un the e non avesse voglia di prenderne un altro. La tristezza che aveva provato nel bar di Giorgio era svanita e tutto grazie alla presenza di una ragazza di cui, pensandoci bene, non conosceva altro che il nome.
Proprio vicino al liceo di Alice, c'era un bar piccolo ma grazioso, dove questa spesso si recava quando saltava le prime ore.
Presero posto nell'angolo più tranquillo del locale ed entrambe ordinarono una cioccolata calda.

"Mh, allora, che anno frequenti?" chiese Beatrice, non sapendo come iniziare una conversazione.
"Quarto. Ho diciassette anni. Tu non vai a scuola?"
"No. Mi sono ritirata due anni fa, alla tua età."
"Capisco." Alice, lentamente, si portò alle labbra la tazza e prese un sorso della bevanda.
Non aveva idea di cosa chiedere alla ragazza che le stava di fronte. In realtà nella sua mente c'erano tantissimi interrogativi, tra i quali ne spiccavano alcuni legati al taglio sul viso ed altri al motivo dell'abbandono della carriera scolastica. Ma si disse che quelli non erano affari nei quali poteva permettersi di immischiarsi, non così presto. Si accorse che Beatrice non aveva ancora toccato la sua tazza.
In quell'angolino però, era come se non avessero bisogno di parlarsi. Si stavano conoscendo anche solo lasciando che i loro occhi si incontrassero o che qualsiasi gesto compiuto da una non passasse inosservato all'altra. Era come se si ponessero domande silenziose e il loro guardarsi facesse in modo che le risposte arrivassero così.
La cioccolata di Beatrice ancora fumava e quella di Alice era quasi terminata. Avevano trascorso una mezz'oretta buona sedute a non dirsi nulla, poi Alice sobbalzò sentendo un tuono squarciare la tranquillità pomeridiana. Beatrice si sporse verso la finestra, scoprendo una porzione del collo lungo e latteo. Fu allora che la ragazza dai capelli rossi notò un tatuaggio dietro l'orecchio, ma non riuscì a distinguerne la figura.
"Pare che non usciremo da qui finché non avrà smesso di piovere." mormorò la mora, più a se stessa che all'altra.
"Tanto meglio" pensò Alice. Un secondo tuono la fece sobbalzare.
"Che c'è? Hai paura dei temporali?" chiese Bea. Aveva avuto l'impressione che Alice fosse una ragazza molto forte di carattere e l'idea che fosse spaventata da un normale fenomeno atmosferico la sorprendeva un po'.
La rossa non rispose, si limitò ad abbassare lo sguardo e a fare spallucce.
"Posso chiederti cos'hai tatuato dietro l'orecchio?" si limitò a dire.
Ecco, evitava di nuovo una domanda facendone un'altra. Beatrice si segnò mentalmente che quello era un vero e proprio vizio.
"E' una Polissena. Sai, ho una grande passione per le farfalle." lo sguardo della mora assunse un cipiglio sognante. Sembrava stesse per perdersi nei suoi pensieri.
"Davvero?" disse Alice, colpita. Non le aveva dato l'impressione di un'appassionata di farfalle.
"Sì. Le farfalle sono come fiori alati, creature che vivono poco, eppure quel minimo di tempo che trascorrono svolazzando in cielo è sufficiente a dare una diversa visione del mondo. Colorato, sfuggente, libero. Quando penso alle farfalle mi sento meno oppressa. E' una sensazione difficile da spiegare. Quello che mi attrae è la fugacità e la dolcezza dei loro movimenti, mi fa sentire leggera."
Alice si sarebbe persa volentieri nei discorsi di Beatrice. La affascinava il tono con il quale parlava della sua passione, era totalmente rapita. Le sorrise.
"Ho fatto questo tatuaggio due anni fa. Volevo ricordarmi che nonostante tutto, sono libera.  Libera di volare, sognare, amare... Anche se attualmente sembra che non possa permettermi di pensare a cose del genere."
"E perché non puoi farlo?" chiese Alice, pulendosi il labbro inferiore con un fazzolettino.
Beatrice le lanciò un'occhiata di pochi secondi, poi si decise ad afferrare la sua tazza e ad osservare la bevanda marroncina al suo interno. Era densa e profumata.
"Magari un giorno te lo dirò." assaggiò la cioccolata e si chiuse in un silenzio pensieroso. Voleva davvero aprirsi così tanto ad una ragazza appena conosciuta?

Fuori il cielo era plumbeo e le nuvole minacciose scaricavano infuriate un'incessante e rumorosa pioggia. I rami spogli degli alberi venivano scossi violentemente dal vento e si piegavano al prepotente volere di quest'ultimo. Era una tempesta che rifletteva a pieno ciò che aveva iniziato a scatenarsi dentro Beatrice.








  
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