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Autore: Symphonia    03/06/2013    2 recensioni
1943. Germania.
Il mio nome è Aaron Bachmann ed ero un soldato della peggior specie.
Sparavo, sparavo di continuo e fiumi di sangue sgorgavano per il mio paese. Tuttavia, un giorno il passato è tornato a bussare alla mia porta... Per amore si farebbe qualsiasi cosa. Qualsiasi.
[STORIA SOSPESA]
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali, Olocausto
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    L'Esecutore

Sparavo. Sparavo sempre, di continuo.
Sentivo costantemente quel suono che mi rimbombava nella mia testa, ancora e ancora.
Un cadavere, una pozza di sangue. Un altro cadavere, una pozza sempre più grande.
Occhi aperti, chiusi, gente che pregava, altra che gridava onore o pietà. Avevo sentito di tutto e di più. Anche insulti, contro di me o altri. Contro di Lui, il grande Comandante che avrebbe reso il mondo utopico, perfetto.
Già… ma cos’era l’Utopia poi? Solo un lontano sogno raggiungibile con mezzi discutibili. Mi sentivo diverso, estraneo a tutta quella insensata violenza.
Difatti il colore che vedevo sempre era il rosso. Rosso, rosso, rosso… Sempre rosso era il terreno sotto i miei occhi. Non conoscevo più il colore dell’erba, del sole, del cielo. I miei occhi, che tante ragazzine dicevano di essere di un ‘bel azzurro splendente’, io li trovavo opachi, impuri. Le mie mani erano sporche. Lo diventavano in ogni momento che premevo quel grilletto.
All’inizio mi davo del dannato, m’insultavo anch’io di continuo, ma pensavo che per la mia patria avrei fatto qualsiasi cosa, anche la più lurida, come sparare e portare al termine vite di gente innocente.
Poi col tempo la mia anima si è placata. Col tempo pensai che non conoscendoli, non mi sarei dovuto preoccupare del destino delle persone a cui sparavo.
Ero diventato un insensibile, ma poco importava.
E fu così che i miei occhi divennero di ghiaccio. Non trasmettevano più emozioni, diventai atono a ogni singolo sparo, ad ogni singola morte.
Un altro cadavere, un mare di sangue più grande, che innaffiava la terra sterile sotto i miei piedi.
Ormai c’avevo fatto l’abitudine. Ormai non m’importava più.

Un giorno, dei miei commilitoni mi proposero di andare in un locale a bere. Dio, quanto mi sbronzavo solo un anno fa! Ora ero più composto, il più sobrio della compagnia, quello ‘responsabile’. Dicevano che di tanto in tanto, avrei dovuto sbronzarmi anch’io come ai ‘bei vecchi tempi’. Non ero più quello di una volta.
Ma poco importava.
I miei compagni si trovavano sempre una buona compagnia, con cui parlare, danzare, ridere, scherzare, bere…
A me poco importava.
Mandavo giù litri di birra, a stomaco vuoto magari, guardandoli con un mezzo sorrisetto sul volto. Poi di tanto in tanto, veniva qualche signorina ad abbordare anche me, ma ogni volta che mi guardava negli occhi, a questa le cambiava l’umore. La paura le si leggeva in faccia.
Era veramente così. Ero un mostro. Un esecutore senza cuore.
Io sono Aaron von Bachmann e il mio unico compito è quello di sparare.

Una ragazza venne portata al mio cospetto. L’ordine era di ucciderla. Di conseguenza il mio unico compito è quello di spararle.
Per la prima volta, dopo tanto tempo, notai il mondo circostante. Quella sarebbe stata una pubblica esecuzione, un esempio per quella gente. Ma c’erano anche alcuni che la odiavano. Così sembrava ai miei occhi che li scrutavano uno dopo l’altro, tutti quei ufficiali vestiti nelle più varie sfumature di verde scuro, lo sguardo serio e onorevole, la postura dritta. Altri erano spaventati o confusi.
Ovviamente, tutto questo non aveva niente a che vedere con me.
Con aria disinteressata iniziai a preparare la pistola e presi posizione, tra i mormorii del pubblico alle mie spalle. Era il mio lavoro, l’avrei saputo fare ad occhi chiusi ormai.
Mi soffermai un attimo a prendere bene la mira.
Ora le dovevo solo sparare.
Tuttavia in lei c’era qualcosa che mi ricordava la persona di cui mi ero innamorato perdutamente anni prima.
Cecilia, il mio primo amore.
Si assomigliavano. Capelli corvini, occhi di un blu profondo, lineamenti dolci. La esaminai con più attenzione. Aveva la pelle molto chiara, gli occhi assomigliavano a quelli di un cerbiatto impaurito. Il suo abito rosa, uno straccio strappato, era in netto contrasto col muro grigio dietro di lei.
Il mio superiore iniziò a fissarmi nervoso, impartendomi nuovamente l’ordine.
Non lo ascoltavo. Continuavo a pensare al mio passato.
Quante volte avevo visto quel viso sorridere tra i girasoli delle estati del 1936? Eravamo solo due ragazzi, con un bagaglio di sogni e di speranze per il futuro. Dopo otto lunghissimi anni, mi si presenta davanti lei; il passato a cui avevo chiuso la porta in faccia, per poter adempire ai miei doveri.
Che fosse tornato di sua spontanea volontà a bussare alla mia porta?
Ma lei sembrava non riconoscermi. Forse erano i capelli più lunghi del solito, i tratti del viso più affilati, l’uniforme austera, gl’occhi di ghiaccio. Forse aveva paura, forse pensava ad altro. Anzi conoscendo i condannati, pensava alla sua morte, probabilmente.
Gliel’avrei data lenta ed indolore o le avrei fatto soffrire le pene più indicibili, sparandole più volte? Ero sicuro che si stava domandando questo.

Sapevo che mai e poi mai avrei dovuto fare una cosa del genere, era un gesto veramente folle, stupido.
Era veramente subdolo da parte mia.
Partì lo sparo e la mia disperata corsa con lui.
Avevo mirato alla corda che le imprigionava le mani. La strappai dal patibolo improvvisato e con tutto il coraggio, la forza e l’agilità che avevo, le presi la mano e la trascinai via da quel posto. Corremmo per i vicoli in cerca di un uscita, corremmo nell’oscurità notturna che avrebbe coperto la nostra fuga. Non mi voltai mai a guardarla, troppo ero impegnato ad interpretare la provenienza delle voci stridule e rabbiose, che urlavano di darci la caccia. Lei stringeva la mia mano in silenzio. Continuammo a correre come dei forsennati. Iniziai a sentire il suo respiro farsi sempre più affannoso.
“Cerca di resistere!” era l’unica cosa che riuscii a dire col poco fiato che mi rimaneva in petto.
Altri vicoli, altre vie di fuga. Finalmente eravamo riusciti a fuggire da quel labirinto di città e ci nascondemmo nella foresta, dove finalmente potemmo tirare un sospiro di sollievo.
Non ricordavo l’ultima che il mio cuore martellava così forte nel mio petto, non ricordavo l’ultima volta che avevo corso così tanto.

Quella sera mi addormentai ascoltando la sua storia.
Diceva di essere nata a Venezia, di aver studiato per diventare una pianista, di aver conosciuto un giovane che mi assomigliava, di aver passato con lui estati intere. Poi mi raccontò di come i nazisti rovinarono la vita a lei e a molte altre persone. Non era di origini italiane, non completamente, e per questo veniva perseguitata. Sentii cose orribili, tutte successe nel periodo in cui c’eravamo persi di vista, perché era dovere di ogni uomo d’onore del mio paese entrare nell’esercito.
Durante il racconto più e più volte mi chiese se io ero veramente la persona a lei tanto cara. La risposta era sempre no. Avevo infangato tutto. Non avrei mai permesso che il bel ricordo che lei aveva nei miei confronti sarebbe diventato un incubo. Per la prima volta, mi importava di ciò che ero diventato.
Ero un soldato e della peggior specie.
Sentivo un forte dolore alle tempie, lo stomaco mi bruciava. Mi appoggiai meglio all’albero.
“Forse non avrei dovuto bere tanto la sera scorsa…” era una delle poche cose che dissi. Ed era una frase talmente stupida in quella circostanza, che ero convinto che mi avrebbe preso per scemo o per pazzo, dimenticandosi del vero Aaron.
Lei mi si avvicinò ed iniziò ad accarezzarmi la testa, passando le sue flebili e tremanti dita tra i riccioli biondi della frangia. Condivisi con lei la mia pesante giacca (non potevamo permetterci di accendere un fuoco) e lei, più riscaldata, ricominciò a raccontare.
Adesso sì che ricordavo il nostro primo incontro avvenuto per caso in un bar, dove interpretava brani vari con la sua maestra, le belle passeggiate estive, i piedi bagnati nel fiume, le notti passate ad osservare la luna in riva al lago. L’odore di pino, il fuoco scoppiettante, le risate, gli schizzi, le splendide melodie, i morbidi vestiti, i profumi della giovinezza.
Quella sera mi addormentai docilmente tra le sue braccia, ritrovando finalmente un po’ di felicità.
   
 
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