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Autore: Achernar    04/06/2013    2 recensioni
A poco a poco la sua vita era diventata una corsa alla perfezione, alle stelle, e ora la sconfitta bruciava, era un fuoco che avvampava dentro, un amaro in bocca che impediva di pronunciare qualunque parola, qualunque suono, che incollava la lingua immobile al palato, un colore grigio, cupo e squallido, vuoto di sentimenti e passioni, un odore insignificante, di vecchio, di malato, una pioggia fredda e sporca: la sconfitta la rendeva mediocre, come tutti gli altri. Non poteva accettarlo, non poteva pensarlo.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Silenzio.
Tutto in lei era silenzio, la testa era piena di vuoto, totalmente assente, totalmente sconfortata.


Rabbia. Rabbia di non avercela fatta, rabbia di vedere che qualcuno riusciva meglio di lei e sapeva che non lo meritava, non quanto lei almeno, rabbia e orgoglio perché lei era la migliore, lei era quella perfetta, era lei che doveva camminare a testa alta, dare lezioni, sentirsi superiore. E ora invece…


Delusione. Delusa dagli altri, che non la aiutavano, si sentiva così sola, così incompresa, ma non voleva essere compresa e non voleva neanche il loro aiuto, non lo avrebbe accettato, lo desiderava solo per mostrarsi superiore e rifiutarlo, voleva essere assecondata, ammirata, e ora era delusa dal mondo, che non riconosceva la perfezione quando l’aveva davanti ma si faceva ingannare dall’apparenza, dalle moine degli altri, quei maledetti leccapiedi. Delusa da se stessa più di tutto. Non era stata alla sua altezza, non aveva raggiunto i suoi obbiettivi, non si era innalzata di metri e metri al di sopra degli altri, non questa volta, ora si sentiva una delle tante, non era più al centro di tutto, ora rientrava nella media, nella massa, e lei non poteva: doveva dare sempre il massimo, ottenere sempre la perfezione perché così le era stato insegnato. Quando da bambina, in prima elementare tornò a casa portando un misero benino come voto del compito di grammatica la madre storse il naso, poi si arrabbiò e disse che doveva impegnarsi di più, che aveva un cervello al di sopra degli altri, che non poteva accontentarsi, che doveva emergere, puntare sempre in alto, alle stelle. E lei aveva preso queste parole alla lettere, a poco a poco la sua vita era diventata una corsa alla perfezione, al raggiungimento dei traguardi più alti, alle stelle, anche a scapito degli altri: nessuno doveva permettersi di rivaleggiare con lei, nessuno poteva osare di essere alla sua altezza, di ottenere i suoi risultati, non tollerava che qualcun altro fosse premiato come e più di lei: lei era l’eterna prima, tutti gli altri solo spettatori, ammiratori, avversari che però andavano battuti, stracciati sempre, che non dovevano neanche avvicinarsi. Se ne rese conto tardi, questo suo atteggiamento aveva ormai condizionato la sua vita: fare qualcosa significava farla bene, perfettamente, ecco perché non faceva molte cose, non poteva permettersi la mediocrità e nota la sua accidia non le conveniva intraprendere molti progetti, non sarebbe stata in grado di gestirli. No anzi, ne sarebbe stata perfettamente in grado se avesse voluto, era davvero convinta che il suo cervello fosse superiore alla media, ma non le andava, doveva comunque ritagliarsi i suoi spazi, fare tutto con comodo. L’idea che qualcuno che faceva più cose di lei ottenesse i suoi stessi risultati la mandava letteralmente in bestia, si trasformava in un animale, una serpe, pronta a afferrare ogni minima debolezza di colui che aveva osato sfidarla e a morderlo rabbiosamente quando meno se lo aspettava, quando era inerme. Dovevano cadere tutti, tutti ai suoi piedi, doveva essere venerata, imitata, voleva la gloria.


Fallimento. E ora aveva fallito, un altro serpente aveva morso lei, era diventata una fallita e la colpa era solo sua, sua e della sua accidia: perché non aveva fatto di più? Aveva avuto tutto il tempo, ma no, lei doveva dimostrare a sé stessa di essere in grado di farcela anche lavorando poche ore quando agli altri comuni mortali ci volevano giorni o settimane. Ed era vero, era vero che ne era capace, poteva anche fare di più se lo voleva. Ma non accettava che ci fosse qualcuno che si impegnasse più di lei, lei non aveva intenzione di cambiare e gli altri dovevano adeguarsi. Per starle sempre un passo indietro dovevano impegnarsi di meno, come avevano osato lavorare di più? Come aveva potuto permetterlo?


Silenzio, non riusciva più a parlare, a pensare, a camminare, a muoversi, non voleva più fare niente. Dormire, morire, sognare…forse. Sì, sognare, un altro mondo una altra lei, più forte, più vincente, più perfetta, più ammirata. Un mondo in cui lei non aveva mai fallito, in cui non poteva fallire, sarebbe stata la più grande, la migliore, tutti l’avrebbero osannata.


Odio. Ora provava odio, voleva vendicarsi di tutti quei piccoli insetti che si permettevano di ronzarle intorno, di sfiorarla, lei e la sua perfezione, non poteva permetterlo. Se lei era brutta, gli altri dovevano essere più brutti, se lei era bassa gli altri dovevano essere più bassi, se lei falliva gli altri dovevano fallire due volte. Possibile che non avessero ancora capito i ruoli? Stupidi, stupidi esserini, stupidi insetti inutili, capaci solo di infastidirla e di farla distrarre fino a portarla al fallimento.


Cosa fare adesso? La sconfitta bruciava, era un fuoco che avvampava dentro, un amaro in bocca che impediva di pronunciare qualunque parola, qualunque suono, che incollava la lingua immobile al palato, un colore grigio, cupo e squallido, vuoto di sentimenti e passioni, un odore insignificante, di vecchio, di malato, una pioggia fredda e sporca: la sconfitta la rendeva mediocre, come tutti gli altri. Non poteva accettarlo, non poteva pensarlo. Il solo farlo la istigava all’odio più profondo, il fuoco si trasformava in fiamma, l’amaro in aspro, il grigio in nero.


Vendetta. Sì si sarebbe vendicata contro la persona che più l’aveva fatta soffrire, contro la responsabile del suo fallimento, della sua caduta. Non aveva intenzione di cadere ancora, non era accettabile nessun compromesso. Doveva andarsene da vincente da questa vita, decise di finire quella di qualcun altro.


Il principale responsabile della sua sconfitta… era lei. La parte di sé che non era stata all’altezza, un’altra persona che aveva soppiantato la mente lucida e impassibile che aveva sempre avuto, per trasformarla in una voragine, un vuoto in cui tutto ciò che doveva farla vincere era sparito. Non doveva ripetersi. Mai più.


Non era arrendersi, lei odiava quella parola, aveva sempre cercato di essere forte, ammirava solo loro, le persone che avevano con loro una forza di volontà, non d’animo, immensa e incrollabile. Erano le uniche mete che si era data, per tutto il resto la meta era lei. No, non era arrendersi, era un combattere contro chi l’aveva sconfitta, non doveva più permettergli di farlo, non voleva. La forza di volontà smuove anche le rocce, sì lo sapeva bene, per lei valeva lo stesso principio: la sua volontà ora era non soccombere, non aspettare che tutti sapessero del suo fallimento, prevenire la sua fine e per farlo , per essere ricordata come una vincente assoluta, come la perfezione, decise di compiere quel gesto nel modo più coraggioso possibile, la sua forza di volontà non avrebbe fatto tremare né l’indice né il pollice, il polso o l’intera mano, non avrebbe fatto scostare la testa dal metallo freddo e insensibile. No, avrebbe vinto anche quell’ultima sfida, contro il più grande avversario che avesse mai fronteggiato: sé stessa.


Il cuore pulsava, lo avrebbe strappato via se solo avesse potuto, stava rovinando la sua immagine di determinazione assoluta, doveva stare zitto! Anche la mano ora pulsava, l’avrebbe tagliata se non le fosse stata necessaria per compiere quel gesto. Gli occhi invece erano impassibili, freddi e distaccati come al solito, gelidi. Guardò immobile nello specchio, cercando la sua parte colpevole:


“Game over”


E premette il grilletto.

  
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