Capitolo Uno
Neverland, quattro anni dopo
Ariel
seguiva suo padre in silenzio. Sapeva di averla combinata grossa, questa volta.
Quando
aveva eluso la sorveglianza di Sebastian, il tritone consigliere di suo padre
incaricato di farle da balia durante le sue nuotate fuori dal palazzo di
Atlantica, non avrebbe mai immaginato di imbattersi in una sirena della Laguna,
che l’aveva colta di sorpresa e imprigionata, grazie ai poteri della sua
collana, con l’intenzione di portarla alla Roccia del Teschio. Non si era allontanata
troppo da Atlantica, per cui ne aveva dedotto che doveva essere stata la sirena
della Laguna ad aver superato troppo i propri confini.
Per
fortuna l’intervento di re Tritone era stato tempestivo. Allertato da
Sebastian, le aveva raggiunte poco prima che arrivassero alla Laguna e, grazie
al proprio tridente, aveva indotto la sirena alla fuga, minacciandola di morte
se mai si fosse avvicinata di nuovo ad Atlantica.
Ariel
all’inizio era stata grata dell’aiuto, ma poi si era resa conto di essere in un
mare di guai, nel vero senso della parola. Avrebbe anche potuto cavarsela da
sola, se suo padre non fosse arrivato, e così facendo avrebbe evitato la
strigliata imminente. Avrebbe escogitato un modo per salvarsi e per sfuggire
dalle grinfie di quella perfida sirena. Ne sarebbe stata in grado, ne era
convinta.
–
Mi dispiace, papà – sussurrò Ariel ad occhi bassi, toccandogli il braccio per
attirare la sua attenzione.
Re
Tritone si scansò come se fosse stato scottato e si fermò. Ariel fece
altrettanto, alzando pian piano lo sguardo.
–
Mi hai deluso, Ariel – decretò re Tritone, amareggiato. – Ormai sei adulta e
pensavo che avessi capito il perché dei miei divieti. Li ho sempre posti per il
tuo bene. Eppure ti ostini a trasgredirli.
–
Lo so, ma… – tentò di ribattere Ariel, ma venne
subito interrotta dal padre, che la contraddisse dicendo: – No, non lo sai!
Altrimenti oggi non saresti fuggita da Sebastian, cacciandoti nei guai!
–
Sono fuggita perché non avevo bisogno di una balia! – ribatté Ariel, stufa di
essere trattata come una bambina. Suo padre diceva di considerarla ormai
un’adulta, ma coi fatti continuava a contraddirsi. – Se mi avessi permesso di
uscire dal palazzo da sola, come ti avevo chiesto, non mi sarei allontanata!
–
Lo avresti fatto comunque, invece! – tuonò re Tritone, cedendo il passo all’ira
che fino a quel momento aveva cercato di trattenere. – Lo hai sempre fatto, ma
ogni volta ti è andata bene! Per fortuna Sebastian mi ha subito avvertito! Se
quella sirena ti avesse portato al loro covo saresti stata spacciata. Proprio
come tua madre.
Ariel
abbassò di nuovo lo sguardo. Sapeva che suo padre aveva ragione. Aveva
rischiato grosso, ma non ne poteva più di sottostare a tutti quei divieti e di
vivere nella paura costante che dovesse succederle qualcosa di brutto. Voleva vivere, anche se avrebbe significato
correre dei rischi.
–
So che temi che io faccia la sua stessa fine, papà – tentò allora, in tono
conciliante. Forse se avesse spiegato al padre cosa le passava per la testa,
avrebbe capito. – Ma…
–
Ma cosa? – gridò lui, per niente intenzionato ad ascoltare le fandonie della
figlia. – Oggi hai rischiato di fare la sua stessa fine, se non fossi
intervenuto io. Non te ne sei accorta? Oggi hai dimostrato di essere una
stupida incosciente che non sa badare a se stessa! E visto che le cose stanno
così, d’ora in avanti sarò ancora più severo nei tuoi confronti. Intesi?
Ariel
avrebbe voluto urlare, dimostrargli che si sbagliava e che sapeva badare a se
stessa. Avrebbe voluto riversargli addosso tutto il malcontento e la
frustrazione accumulati in quegli anni, ma sapeva che così facendo avrebbe solo
peggiorato le cose e non avrebbe ottenuto nulla. Suo padre non l’avrebbe
capita, non l’avrebbe mai fatto. E quella ne era stata l’ennesima
dimostrazione.
Si
limitò dunque ad abbassare docilmente il capo e ad annuire, mordendosi il
labbro inferiore per trattenere le lacrime di rabbia e delusione che
minacciavano di manifestarsi da un momento all’altro (1).
–
Torniamo a palazzo, ora – ordinò re Tritone, prima di riprendere a nuotare. Per
lui il discorso era chiuso.
Ariel
lo seguì, mentre la sua mente cercava già di elaborare una soluzione definitiva
a quella situazione che ormai durava da troppo tempo.
La
soluzione a tutti i suoi problemi si palesò nella mente di Ariel quella notte,
mentre rimuginando continuava a rigirarsi nel letto, insonne.
Doveva
fuggire da lì, era l’unico modo.
Non
semplicemente da Atlantica, ma da Neverland.
Decise
di agire immediatamente; non poteva aspettare.
Dove
andare, però?
Erano
molti i mondi di cui aveva sentito parlare e di cui era a conoscenza.
Il
mirabolante Paese delle Meraviglie? La bizzarra terra di Oz?
Quel tetro mondo senza magia noto semplicemente come Terra?
Nessuno
di quei luoghi l’allettava particolarmente, se non…
Che stupida! Come aveva fatto a non pensarci prima? Aveva dimenticato la
Foresta Incantata! Tra tutti, era il luogo che la affascinava di più e che sapeva
fosse più simile a Neverland, quindi avrebbe avuto
meno difficoltà ad ambientarsi.
Quando
ancora era una bambina, la madre, che prima di sposare suo padre aveva
viaggiato molto attraverso i vari mondi, le aveva parlato di quel luogo e di
quanto fosse il suo preferito, fra tutti quelli che aveva esplorato. Era stato
grazie a lei che Ariel aveva iniziato a fantasticare riguardo quel mondo.
Le
tornò alla mente quando, anni prima, aveva aiutato Killian
a ritornare lì, a casa. Chissà, forse avrebbe potuto cercarlo e farsi dare una
mano. Le doveva un favore dopotutto, e sperava che l’avrebbe aiutata. Prima
però doveva diventare umana…
Scosse
la testa. Non era quello il momento di pensare a cosa fare.
Doveva
agire.
Afferrò
con la mano destra la propria collana, si rivolse al muro, chiuse gli occhi e
si concentrò, mentre con la sinistra creava un portale su di esso.
Riaprì
gli occhi e si trovò di fronte ad un cerchio blu che rifulgeva di luce
azzurrina. Senza esitazioni e con il cuore che batteva a mille vi nuotò dentro,
decisa a fuggire per non tornare mai più.
Finalmente
avrebbe potuto essere libera e vivere, serena e senza costrizioni.
Foresta
Incantata
Erano
passati due mesi da quando Ariel era fuggita da Atlantica.
Due
lunghi mesi in cui aveva osservato da lontano il mondo in superficie, girando i
mari in lungo e in largo nella speranza di trovare un modo per diventare umana,
perché solo così avrebbe potuto esplorare quel luogo che tanto l’aveva
affascinata e che continuava a farlo.
In
quei due mesi aveva osservato la vita sulla terra, pur mantenendosi a debita
distanza, perché anche nella Foresta Incantata le sirene non avevano una buona
reputazione. In particolare, si vociferava di una sirena crudele che viveva in
un certo lago di Nostos, le cui acque avevano
proprietà rigenerative, e che uccideva con l’inganno chiunque osasse
avvicinarsi. Di coloro che erano andati a prendere dell’acqua da lì, infatti,
nessuno aveva mai fatto ritorno.
Per
non correre pericoli, Ariel osservava il mondo da lontano, nascosta dove
capitava, desiderando ardentemente di farne parte. L’unico modo, però, era
diventare umana ottenendo un paio di gambe.
Un
giorno, durante una delle sue escursioni in superficie, nascosta dietro una
scialuppa ormeggiata in un porticciolo di un villaggio, udì un gruppo di
marinai parlare di una certa Strega del Mare che viveva nelle profondità degli
abissi.
In
quello stesso momento, Ariel decise che l’avrebbe trovata e che le avrebbe
chiesto aiuto.
La
magia era la sua unica speranza.
Adagiata
ad uno scoglio, in piena notte, Ariel teneva in mano quella boccetta da un
tempo interminabile, scrutandone attentamente il contenuto, incerta sul da
farsi. Se avesse bevuto quella pozione, la sua vita sarebbe cambiata per
sempre, in modo drastico. Non avrebbe potuto più tornare indietro.
Quel
filtro magico l’avrebbe resa umana, stando a ciò che le aveva assicurato la
Strega del Mare.
E
l’aveva pagato caro.
– La magia ha sempre un prezzo – le aveva detto
la Strega del Mare. (2)
Ariel
aveva dovuto cedere la propria voce, in cambio.
A
quel pensiero, stappò la boccetta con un gesto deciso e ne bevve il contenuto
tutto d’un fiato. Dopo qualche istante, avvertì un dolore lancinante alla coda,
come se una spada invisibile stesse cercando di dividerla a metà.
Aprì
la bocca per urlare ma non ne uscì alcun suono, proprio come nei suoi peggiori
incubi. Quello che le stava accadendo, però, era reale.
Gettò
uno sguardo alla coda e notò che davvero si stava dividendo in due. Sussultò.
La Strega del Mare non le aveva parlato di tutto quella sofferenza.
Il
dolore divenne più forte e la costrinse ad inarcare la schiena all’indietro.
Strinse le mani a pugno, ma la sinistra conteneva ancora la boccetta della
pozione, che si frantumò in mille pezzi che la ferirono e le causarono ancora
più dolore.
Iniziò
a piangere, e man mano la vista le si annebbiò. Credeva fosse per via delle
lacrime, ma in realtà la causa era dovuta al fatto che il dolore le stava
facendo perdere i sensi.
Poco
dopo, infatti, svenne.
Si
risvegliò qualche ora dopo, quando le prime luci dell’alba filtrarono attraverso
le sue palpebre chiuse e i gabbiani iniziarono a gracidare.
Aprì
gli occhi e respirò a pieni polmoni, lieta di non avvertire più alcun dolore.
Si rizzò a sedere e guardò in basso laddove prima c’era la sua coda e vide che
ora facevano mostra di sé un paio di gambe lunghe e slanciate.
Sorrise
fra sé e sé: ce l’aveva fatta.
Mosse
le gambe su e giù, prima insieme e poi separatamente. Funzionavano. Ora doveva
solo mettersi in piedi e camminare.
Piegò
le gambe e spostò il peso sui piedi, alzando lentamente il resto del corpo.
Quando fu in piedi commise l’errore di guardare in basso e perse l’equilibrio.
Portò le mani in avanti per attutire l’urto e non appena toccò terra avvertì un
dolore penetrante alla mano sinistra. Solo allora ricordò di aver frantumato
con essa la boccetta che conteneva la pozione, la sera prima. La guardò e notò
che era sporca di sangue rappreso misto a sangue fresco che sgorgava dalle
ferite che si erano appena riaperte.
Dato
che una mano era inutilizzabile, puntò i gomiti e si mise gattoni, per poi
alzarsi ancora in piedi, questa volta più lentamente.
Non
guardò più in basso, ma cercò di fissare l’orizzonte, mulinando le braccia per
mantenere l’equilibrio.
Dopo
altre due cadute, ce la fece. Riuscì a rimanere in piedi in equilibrio, con le
braccia distese lungo i fianchi. Avrebbe urlato di gioia, se avesse potuto.
Non
le restava che imparare a camminare, ora.
Lentamente
spostò la gamba destra davanti a sé, come tante volte aveva visto fare agli
umani. Per un attimo perse l’equilibrio, ma agitando le braccia lo riacquistò.
Portò anche la gamba sinistra vicino alla destra, ma nel farlo si sbilanciò un
po’ troppo e cadde all’indietro.
Sospirò.
Non
avrebbe mai creduto che camminare sarebbe risultato un’impresa così ardua.
Ariel
vagava in quel bosco da almeno un paio d’ore.
Dopo
numerosi tentativi era riuscita a muovere qualche passo senza rovinare a terra,
per cui dalla spiaggia si era spostata nel bosco limitrofo, senza avere la
minima idea di dove andare.
Vicino
alla spiaggia c’era un villaggio, ma aveva deciso di starvi alla larga. Era
infatti nuda dalla testa ai piedi; indossava solo la propria collana e prima di
interagire con qualsiasi umano avrebbe dovuto recuperare degli abiti, perciò
aveva deciso di perlustrare il bosco alla ricerca di qualcosa con cui coprirsi.
Non
aveva trovato nulla, ovviamente, se non una moltitudine di alberi e arbusti.
Era
stanca e le dolevano le gambe e le piante dei piedi: non era abituata a vagare
a lungo servendosi di essi. Con la coda era sempre stato tutto più facile, e un
po’ si ritrovò già a rimpiangerla.
Scosse
la testa.
La
vita da sirena non era stata più molto felice da quando sua madre era morta, e
anche allora Neverland non era mai stato un bel mondo
in cui vivere. Atlantica era solo una gabbia dorata in cui la vita scorreva
tranquilla e senza troppi scossoni, ma era solo una goccia di luce in un oceano
di oscurità.
E
per Ariel non era abbastanza, non più.
Era
certa che nella Foresta Incantata avrebbe finalmente trovato la felicità che
aspettava, la vita che desiderava, la libertà che aveva sempre agognato.
Forte
di quei pensieri, che le infusero coraggio, proseguì.
I
piedi pulsavano, e ogni parte del corpo era piena di graffi causati dai rami e
dai rovi che aveva incontrato lungo la strada, ma non le importava.
Continuò
a camminare verso un futuro che le appariva incerto ma pieno di speranze,
finché non udì dei rumori attutiti dalla lontananza.
Subito
si fermò e si mise in allerta, guardandosi intorno. Temendo di incontrare
qualcuno, coprì le proprie nudità alla bell’è meglio con i lunghi capelli
rossi.
Poi,
tutto accadde in un attimo.
Udì
l’abbaiare di un cane farsi sempre più vicino e sussultò, ma non fece in tempo
a chiedersi cosa stesse succedendo che un qualcosa di lungo e sottile scagliato
a tutta velocità la colpì alla coscia destra, conficcandosi nelle sue carni.
Cadde
in ginocchio e spalancò la bocca per il dolore, ma da essa non uscì alcun
suono.
Strinse
le mani a pugno, cercando di fare lunghi respiri profondi. Per prima cosa,
infatti, doveva calmarsi, dopodiché avrebbe estratto quell’aggeggio dalla sua
gamba, in qualche modo. O almeno ci avrebbe provato.
Non
fece in tempo a pensare sul da farsi, che dalla boscaglia emerse minaccioso il
muso di un cane, il quale non appena la vide mutò espressione e si mise ad
uggiolare e scodinzolare felice, muovendo tutto il cespuglio in cui era
rintanato. Ne uscì e le si avvicinò impaziente, iniziando a leccarle il volto.
Nonostante
il dolore, Ariel sorrise per quell’improvvisa dimostrazione di affetto.
–
Max! cos’abbiamo trovato? – avvertì domandare da una voce che si faceva sempre
più vicina. (3)
Udendola,
il cane si allontanò da Ariel di qualche centimetro e iniziò ad abbaiare per
farsi localizzare. La ragazza si fece immediatamente scudo con i capelli,
pudica.
Poco
dopo dalla boscaglia emerse un ragazzo dai capelli corvini, gli occhi blu
zaffiro e il fisico temprato. Indossava una tenuta da caccia e nella mano
sinistra reggeva un arco, mentre la faretra era portata di traverso sulla
schiena. Con ogni probabilità doveva essere il padrone del cane, nonché il
responsabile della ferita di Ariel. Non appena vide la freccia conficcata nella
coscia della ragazza, infatti, sbiancò.
–
Per tutto l’oro del regno! – esclamò. – Voi siete una fanciulla! E io vi ho
ferita, ne sono mortificato! – iniziò a blaterare, visibilmente agitato. –
Permettetemi di aiutarvi – si offrì dunque, gettando a terra l’arco. – Vi
porterò al mio castello, dove riceverete ogni cura necessaria. Sono il principe
Eric e dispongo dei migliori medici di corte, che metterò a vostra disposizione
– decretò, prima di avvicinarsi ad Ariel per inginocchiarsi ed esaminare la
ferita.
Ariel
indietreggiò, confusa e spaventata.
–
Non abbiate timore, non voglio farvi del male – tentò di tranquillizzarla Eric,
abbozzando un sorriso. – Non più, almeno.
Ariel
continuava a non capire. Perché mai un umano l’aveva ferita e ora si offriva di
aiutarla? Lo guardò negli occhi e vi lesse un sincero dispiacere per ciò che le
aveva fatto, per cui decise di fidarsi e gli permise di vagliare la ferita.
–
Per fortuna non sembra nulla di irreparabile – constatò Eric, con un sospiro di
sollievo. – Vi fa male?
Ariel
annuì con forza. La ferita pulsava e da essa sgorgava un rivolo di sangue.
–
Ce la fate ad alzarvi in piedi, con il mio aiuto?
Ariel
si strinse nelle spalle, non sapendo se ne fosse in grado o meno.
–
Cosa significa? – domandò Eric, confuso.
Ariel
ripeté di nuovo il gesto, causando ancora più perplessità nel proprio
interlocutore, che continuava a non capire, finché non ebbe un’illuminazione. –
Potete parlare? – chiese infine.
Ariel
scosse la testa, abbassando lo sguardo.
–
Siete muta?
Ariel
annuì, portandosi involontariamente una mano alla gola.
Eric
si sentì ancora più in colpa per ciò che le aveva fatto, pur non avendone
intenzione. Mai avrebbe immaginato di imbattersi in una ragazza, durante la
caccia. Quella parte di bosco rientrava nelle sue proprietà e nessun sentiero
correva lì vicino, quindi non c’era mai stato alcun rischio di incontrare
qualcuno, né tantomeno di ferirlo.
–
Come vi chiamate? – domandò, sperando di ottenere in qualche modo una risposta.
Ariel
alzò lo sguardo e con una mano gli fece segno di guardarle le labbra, dopodiché
scandì lentamente il proprio nome.
–
Mary? – chiese conferma Eric.
Ariel
scosse la testa e ripeté l’operazione.
–
Arwen? – ritentò il ragazzo.
Ariel
scosse di nuovo la testa e ci riprovò.
–
Ariel? – chiese infine Eric, questa volta indovinando.
Ariel
sorrise ed annuì con vigore. Eric ricambiò il sorriso e la guardò di nuovo,
accorgendosi solo in quel momento che era nuda, per cui si alzò in piedi e si
tolse subito il mantello, per poi chinarsi e drappeggiarglielo sulle spalle,
avvolgendola completamente ma stando bene attento a non toccare la freccia.
–
Mettetemi le braccia intorno al collo, Ariel – le ordinò dunque, con dolcezza.
Ariel
ubbidì ed Eric la sollevò tra le proprie braccia. Avvertì una nuova fitta di
dolore ed ebbe un capogiro. Mentre Eric la portava verso il proprio cavallo, la
stanchezza e il dolore ebbero la meglio e Ariel percepì le palpebre farsi
sempre più pesanti e la vista annebbiarsi, sentendo le forze abbandonarla.
Note
(1) Lo so che
Ariel è una sirena ed è in acqua salata, quindi in teoria non sarebbe in grado
di piangere, ma concedetemi questa licenza poetica. Mi sono basata sul film
Disney, in cui Ariel piange disperata dopo che suo padre le distrugge il suo
‘rifugio’.
Tutta questa
scena è un po’ un mix tra ‘La Sirenetta’ e
‘Il Re Leone’, come spero si sia notato. Ho ripreso, a grandi linee, la
scena in cui Simba e Nala scappano da Zazu e vanno al cimitero degli elefanti dove si imbattono
nelle iene e vengono poi salvati da Mufasa.
(2) Frase ripresa,
ovviamente, da Tremotino. Non ho inserito direttamente lui perché all’epoca dei
fatti, stando ai miei calcoli, non è ancora diventato l’Oscuro. Quindi mi sono
rifatta alla fiaba originale di Andersen, dove la Strega del Mare non è
malvagia come Ursula, ma chiede comunque ad Ariel la voce in cambio delle
gambe.
(3) Per questa
scena mi sono rifatta un po’ al cartone Disney, quando Eric trova Ariel sulla
spiaggia, ma l’ho modificata molto. Spero sia piaciuta comunque^^
Ciao
a tutti! Eccomi qui con il primo capitolo, un po’ noiosetto,
a dire la verità.
Mi
serviva per introdurre meglio la figura di Ariel e per mostrare il suo passato
prima di incontrare di nuovo Hook, quando questo
torna a Neverland.
Inizialmente
questo passato doveva rientrare in un unico capitolo, ma le cose stavano
andando per le lunghe e così ho deciso di spezzarlo in due, per rendere più
agevole la lettura.
Spero
vi sia piaciuto :) Fatemi sapere cosa ne pensate, sia nel bene che nel male :)
Ringrazio
chi ha recensito il prologo, chi mi ha inserito nelle tre categorie e i lettori
silenziosi.^^
A
presto!
Sara