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Autore: cassiana    23/12/2007    5 recensioni
Manca poco al Natale e una camionetta dell’esercito USA sfreccia su una strada dissestata nel deserto iracheno. Le riflessioni dei suoi occupanti. Perchè Natale non è solo luci e regali.
Genere: Triste, Introspettivo, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.



Ecco qui: questo è il mio racconto ispirato al Natale. Bè, forse non c’è molto spirito natalizio! Ringrazio di cuore Mannu per la sua disponibilità e l’ottimo betaggio!


Lo dedico a tutti i ragazzi e ragazze in divisa che passeranno le feste lontano dalle proprie famiglie.





Dicembre. Uno lo immagina come un mese freddo, freddissimo, l’aria così gelida da far pizzicare le narici e dolere i polmoni e da fare uscire le parole a nuvolette, come nei fumetti. Il soldato di fanteria Charlie pensava, una settimana a Natale e quest’anno non ci sarebbe stato l’albero che il padre comprava sempre l’ultimo giorno utile, un po’ malconcio e con i rami che già cominciavano a perdere gli aghi. Si agitò nella mimetica ruvida, gli occhi le dolevano dal troppo riverbero. Mancava una settimana a Natale e lei se ne stava lì, seduta scomodamente in quella camionetta che filava a sobbalzi sulla strada per Karbala in mezzo al deserto. Dannata sabbia! S’infilava dappertutto, se la ritrovava perfino nelle mutande. Si asciugò il viso sudato, si tolse l’elmetto e si passò una mano sulla zazzera bionda già un po’ troppo lunga per gli standard militari. Maledetto esercito! Quando si era arruolata avevano garantito che non l’avrebbero mandata in prima linea. Lei che si era decisa a quel passo solo perché l’esercito le dava la possibilità di frequentare il college che altrimenti non si sarebbe potuta permettere. Si malediceva ogni mattina per quella scelta disgraziata. Solo perché voleva avere una possibilità in più, solo perché non voleva fare l’operaia come il padre o la parrucchiera come la madre e le sorelle. E poi le avevano giurato che gli amministrativi come lei non sarebbero andati in guerra. Invece erano così disperati da aver richiamato perfino i riservisti. Charlie aveva visto con i suoi occhi una madre di famiglia rimetterci una gamba. Scosse la testa. Maledetta guerra! Odiava tutto ciò: odiava quella divisa ruvida, l’elmetto pesante, odiava tutto quel sole e quella sabbia e quel caldo. Odiava anche Daniel. Quel maledetto idiota si era deciso a dirle che l’amava solo il giorno prima della sua partenza. Dio come le mancava. Aveva nostalgia di quei suoi occhi azzurri e innocenti da bambino piazzati in una faccia da mascalzone. Il naso storto rotto in più punti e il sorriso sghembo. E le sue mani, accidenti se le mancavano! Quelle grandi mani sempre sporche di grasso. Ricordava ancora la prima volta che avevano fatto l’amore come si era guardata impaurita le macchie scure sulla pelle credendole lividi. Un lievissimo sorriso deformò per un attimo le sue labbra.

What have I got
why am I alive anyway
yeah, what have I got
nobody can take it away*

Gli era rimasta impressa quella manina, semplicemente perfetta. Quelle piccole dita color caramello che si flettevano verso la mamma e la boccuccia che sembrava un bocciolo di rosa. Michael aveva visto la foto, inviata per email dalla moglie, così tante volte che ormai l’aveva imparata a memoria. La piccola Serena aveva appena due giorni. Dio come gli dispiaceva non essere a casa per Natale quell’anno! Con la piccola appena nata e i due maschietti che gli assomigliavano come due gocce d’acqua. Scuri, flessuosi, se li vedeva come se fossero proprio lì, davanti a lui. Junior, cicciottello, con quegli occhi nocciola dallo sguardo birichino e Gabriel che stava cambiando i denti: aveva un sorriso pieno di finestrelle che lo rendeva una piccola birba. Strinse un po’ le labbra dispiaciuto. Era sempre riuscito a passare il Natale con i figli, a costo di fare i salti mortali, ma quell’anno non c’era stato niente da fare. Come invidiava Elephant lì davanti, alla guida. Ma era giusto, era la prima licenza che gli davano dopo mesi, se la meritava. Il soldato si aggiustò meglio l’elmetto e spostò le lunghe gambe da pivot cercando una posizione comoda. Teneva ben stretto il mitragliatore per evitare di perderlo tra tutti quei sobbalzi. La pelle nera riluceva di sudore che cercò di asciugarsi alla bell’e meglio con la manica della divisa. Tutto quel caldo lo spossava, ma vi era abituato. Ormai quella era la sua quinta missione nel teatro bellico mediorientale. Servire il suo paese non gli pesava, era la nostalgia della famiglia che lo uccideva. E Marlene…ragazzi, non riusciva a stargli lontano quando era a casa. Si inumidì le labbra: pensava al corpo della moglie... appesantito dalle gravidanze ma voluttuoso, come quei suoi occhi neri tanto profondi che Michael temeva di caderci dentro, come se fossero due piccoli buchi neri.

I got my hair, I got my head
I got my brains, I got my ears
I got my eyes, I got my nose
I got my mouth, I got my smile*

La missione tutto sommato era andata bene. Oh, era solo uno stupido giro di ricognizione, ma la squadra si era comportata come si deve. Il tenente Beltran sporse un po’ il labbro in fuori. La strada davanti alla camionetta era deserta, ma tra qualche dissestato miglio sarebbe venuta la parte più delicata. Il nastro d’asfalto sarebbe passato tra un paio di dune e anche se la zona era controllata dall’esercito americano il tenente sapeva che era sempre meglio tenere gli occhi bene aperti. Elephant accanto a lui sbatteva la testa ad ogni scossone, ma non sembrava lamentarsi, anzi probabilmente avrebbe canticchiato qualcosa. Beltran si dimenò sul sedile, era stanco e non vedeva l’ora di tornarsene alla base. Anche quell’anno non sarebbe stato a casa per godersi le feste. Ma chissenefrega, Jessie se n’era andata, ormai da due anni, portandosi via la bambina. I genitori se ne stavano ancora a Tijuana e fratelli e cugini pensavano solo a spadroneggiare per le strade di Frisco sparandosi a vicenda con altre gang di latinos. Che schifo, l’ufficiale scosse la testa. Aveva visto i muri sbreccati di Baghdad sporcati dai graffiti degli infiltrati delle gang nell’esercito, chicanos contro neri, afro-americani contro cinesi e tutti quanti contro la Fratellanza Ariana, che da parte sua stava compiendo una sottile per quanto letale opera di pulizia etnica spacciandola per conflitto patriottico. Poi c’erano i Fratelli Musulmani naturalmente che complicavano ancor più le cose. E lui? Lui si era ritrovato in mezzo a tutto questo. Ma gli era andata fin troppo bene, in fondo il governo gringo gli aveva dato la carta verde e allora che differenza c’era tra rischiare la vita nella guerriglia del barrio o lì nel deserto iracheno? E se fosse stato beccato era sempre meglio morire come un eroe che come uno dei soliti delinquenti latinos. O forse era meglio non morire affatto e cercare di portare la pelle a casa, prima o poi.

I got my tongue, I got my chin
I got my neck, I got my boobies
I got my heart, I got my soul
I got my back, I got my sex*

A Chicago nevicava, ne era sicuro. Lo faceva sempre di quel periodo: il traffico andava in tilt, la gente correva isterica verso le ultime compere di Natale e il vento tagliava la faccia come un rasoio affilato. Joey osservò pensieroso il deserto che correva accanto a lui. Molto meglio lì a combattere quei fottuti arabi. Lo sapeva: la guerra non stava andando affatto bene, ma non gli importava. Nessuno poteva permettersi di ammazzare tremila innocenti americani e poi farla franca. O almeno così diceva il Presidente e lui gli credeva. Credeva anche che aveva fatto bene a partire e a fare il suo dovere di americano e non si lagnava come quegli stupidi liberal che avrebbero preferito farsi governare dai petrolieri arabi. Invece il petrolio bisognava andare a prenderselo da soli, e fanculo i pacifisti! O almeno così diceva il suo generale e lui gli credeva. Quello che non sapeva era cosa ne avrebbero pensato il suo Presidente ed il suo generale e suo padre, che del perbenismo aveva fatto una ragione di vita, della sua particolare inclinazione. Perché Joey, per quanto fosse patriottico e si sforzasse di essere un buon americano, bianco, anglosassone e protestante non poteva fare a meno di amare gli uomini. Oh, Family Man lì accanto a lui, per quanto non potesse fare troppo il superiore con quella sua pelle nera, di sicuro non l’avrebbe approvato! Ma con tutta quella morte e quel caldo e non potere neanche andare in chiesa con la famiglia la notte di Natale, lui aveva solo bisogno di braccia forti che accogliessero la sua solitudine e paura. E Cristo, per poco ieri sera non lo beccavano a braghe calate mentre dava un po’ di conforto a una recluta appena arrivata. Joey si morse il labbro inferiore, poi si grattò la guancia pensando a quanto sarebbe stato bello dare ancora un po’ di consolazione al bel moretto della sera prima.

I got my arms, I got my hands
I got my fingers, Got my legs
I got my feet, I got my toes
I got my liver, Got my blood*

Stava ingobbito cercando di non sobbalzare troppo, accanendosi sull’unghia del mignolo destro. Si guardò per un momento la mano: ormai al posto delle unghie aveva solo della pelle dura e cheratinizzata. Scottie pensava che fosse uno dei prezzi che aveva dovuto pagare. Oltre le ossa rotte e gli insulti del padre che avevano riempito le sue giornate fino a pochi mesi prima. Un sorrisino spuntò sul viso aguzzo della giovane recluta. Sapeva che ora poteva stare al sicuro, paradossalmente. Ma niente di quello che avrebbe vissuto sarebbe stato peggio degli anni passati tra le grinfie del vecchio ubriacone e violento. Perfino la madre aveva preferito abbandonarlo nelle mani di quel sadico, talmente impaurita e desiderosa di scappare da essersi dimenticata di lui. La paura che provava adesso era niente in confronto a quella che gli aveva attanagliato le viscere quasi tutte le sere, aspettando che la porta della sua camera si aprisse. Scottie rabbrividì. Lo stesso giorno del suo diciottesimo compleanno si era presentato nell’ufficio reclutamento più vicino. Aveva trovato una famiglia nei commilitoni che lo prendevano in giro per i suoi capelli rossi e lo avevano soprannominato Scottie perché era la mascotte della squadra. Era contento di passare il Natale lì tra le dune del deserto insieme ai suoi compagni. Sapeva che era l’unico, che tutti gli altri avrebbero preferito stare con le famiglie... ma quello sarebbe stato il suo primo vero Natale. Riprese a torturarsi le unghie con una ferocia pari solo alla freddezza che provava nel piazzare i colpi nel bersaglio a oltre 50 metri di distanza. Tanto che la prima volta che l’aveva visto al poligono di tiro il sergente aveva esclamato sorpreso: “Cazzo, ragazzo! Sei un cecchino nato!” Se lo ricordava ancora. Ma quello che l’ufficiale non sapeva era che per anni Scottie si era allenato con la pistola rubata al padre, in attesa trovare il coraggio di poter piantare una palla in testa al fottuto bastardo. Si guardò intorno furtivamente. Anche a centinaia di chilometri di distanza, sbattuto in prima linea in una guerra feroce, la paura del padre non lo mollava.

I've got life , I got my freedom
i got my life
I've got life,
and i'm gonna keep it*

Era tutta la mattina che quella vecchia canzone gli ronzava in testa, non riusciva a ricordarsi chi la cantava. Una donna sicuramente, ma non sapeva il nome. Tambureggiò le grosse dita scure sul volante dell’Humvee seguendo il ritmo della musica. Guardò di soppiatto il tenente accanto a lui, ma sembrava perso dietro i suoi pensieri. Meglio così. Se fosse stato solo avrebbe potuto canticchiare quella melodia che lo perseguitava. Scosse il testone. Elephant, lo avevano chiamato così perché era grande e grosso, parlava poco ma cantava spesso. A volte si chiedeva cosa ci facesse nell’esercito. Alla sua povera mamma era venuto un colpo quando l’aveva visto in divisa, i neri riccioli rasati, i grossi piedi costretti negli anfibi neri e lucidi. Si era messa le mani sui fianchi prominenti e gli aveva chiesto che cosa credeva di fare. Aveva ragione, cosa credeva di fare? Lui era un musicista, suonava la marimba e cantava nei villaggi turistici, ma in verità si era stancato di fare lo scimmiotto ammaestrato. Era americano anche se aveva gli occhi a mandorla, un nome strano e viveva su un’isola lontanissima. Voleva fare il suo dovere. Certo non si era aspettato di trovarsi in mezzo ai combattimenti per conquistare una città di cui sapeva a malapena pronunciare il nome. I ragazzi là dietro erano cupi. Non li sentiva scherzare e sfottersi come al solito. Non poteva biasimarli, passare le feste lontano da casa è dura. Lui era contentissimo di tornare, quella era la sua prima licenza. Non che gli importasse molto del Natale: palme qua, palme là... non è che facesse molta differenza. Ma gli mancava la sua vecchia. Avrebbe decorato la casa come quelle che vedeva nelle riviste, solo che non ci sarebbe stata la neve fuori dalle finestre. Avrebbe comprato il tacchino, ci avrebbe scommesso. Un grosso tacchino che avrebbero faticato a finire e i cui avanzi gli avrebbe propinato per almeno un’altra settimana. Elephant era proprio contento di tornare a casa. Cominciò a canticchiare incurante del tenente accanto a lui.

I've got life,
and no body's gonna take it away,
I've got li…*

Un enorme boato sconvolse l’aria ferma del deserto. L’Humvee scomparve in un turbinio di sabbia. Quando questa si diradò al posto del mezzo vi era solo un enorme cratere e i suoi rottami erano sparsi in un raggio di oltre cento metri. Dei suoi occupanti solo brandelli di corpi carbonizzati, come le loro speranze.





* Nina Simone, I got life
   
 
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