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Autore: Kagome_86    07/06/2013    1 recensioni
[The Lynburn Legacy - Sarah Rees Brennan]
Davanti a lei stava Jared, la solita giacca di pelle marrone sbiadita e logora che si sarebbe dovuto decidere a buttare via, la solita t-shirt di cotone a maniche lunghe, nonostante ormai fosse pieno inverno, i soliti jeans sbiaditi. Il solito Jared, a cui non riusciva a staccare gli occhi di dosso.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Stavolta le note le metto all'inizio. La scena si colloca in un momento imprecisato dopo la fine di Unspoken, probabilmente in un universo parallelo, perché Sarah Rees Brennan non scriverebbe mai una cosa così dolce con protagonisti Kami e Jared (sì, me lo dico da sola che la storia è dolce XD). Ho messo come avvertimento "What if?" forse un po' impropriamente. Ma non è neanche una vera AU, visto che è collocata nello stesso spazio e nello stesso tempo della storia originale.

BTW, le note sono all'inizio per consigliarvi di ascoltare a ripetizione If My Heart Was a House degli Owl City mentre leggete, perché è stata la canzone che mi ha accompagnata durante tutta la stesura della storia.

L'altra cosa che volevo dirvi è che a un certo punto troverete un riferimento a Titanic. Sì, ce l'ho ancora con Rose per la storia della porta XD

E... il titolo è semplicemente ripreso da quello della famosa pièce teatrale di Shakespeare, non c'è alcun riferimento ai suoi contenuti.

La tempesta - Banner

Era una serata pacifica a Sorry-in-the-Vale, come non se ne vedevano da tempo. Con tutto quello che era successo nei mesi precedenti – il ritorno dei Lynburn, Jared che era un ragazzo in carne ed ossa, gli strani eventi che erano culminati con l’omicidio di Nicola, la scoperta che la magia esisteva e il suo prezzo era il sangue e il sacrificio che aveva compiuto per poter salvare i suoi amici – Kami pensava che non sarebbe mai più riuscita a trascorrere un pomeriggio in pace con se stessa.

Sedeva sul divano, di fronte al caminetto acceso, con il computer sulle gambe e un pacco di patatine formato famiglia aperto appoggiato alla coscia dal quale traeva consolazione ogni volta in cui non riusciva a trovare la parola giusta per sintetizzare l’elaborato pensiero del pezzo che stava scrivendo, quando sentì il familiare borbottio del motore dell’auto della Mamma.

Maledizione, pensò, consapevole che la Mamma l’avrebbe beccata per l’ennesima volta con le mani – letteralmente – nel sacco vicino all’ora di cena. E Tomo e Ten erano fuori con Papà, quindi non c’era nessuna speranza di poter scaricare la colpa del misfatto su uno dei due monelli.

Si alzò dal divano, attenta almeno a non rovesciare il contenuto del sacchetto sui cuscini, e si diresse verso l’ingresso quando sentì la porta che si apriva per ritardare il momento della discussione il più possibile.

« Mamma, ti serve una mano per prendere le cose in macchina? » chiese, prima ancora di mettere piede nell’ingresso. E si pentì subito di averlo fatto.

Davanti a lei stava Jared, la solita giacca di pelle marrone sbiadita e logora che si sarebbe dovuto decidere a buttare via, la solita t-shirt di cotone a maniche lunghe, nonostante ormai fosse pieno inverno,  i soliti jeans sbiaditi. Il solito Jared, a cui non riusciva a staccare gli occhi di dosso. I suoi occhi incontrarono quelli di Jared e si rese conto che anche lui la stava fissando. Sostenne il suo sguardo e il tempo parve fermarsi. Non pensava che lei, Kami Glass, aspirante giornalista d’inchiesta, avrebbe mai usato quella terminologia da romanzetto rosa di serie C.

La porta d’ingresso che si chiudeva li riportò entrambi alla realtà con un fremito e Kami si accorse di aver trattenuto il fiato quando riprese a respirare. La Mamma li guardava con un sorriso strano. Un sorriso che le aveva visto addosso solo quando era persa nei suoi pensieri, solo quando pensava a Papà. Ma durò solo un attimo, perché subito dopo fece il suo sorriso divertito, quello che usava quando la prendeva in giro.

« Kami, non potevi accompagnare Jared in cucina a posare gli scatoloni? È stato così gentile da accompagnarmi a casa, visto che era già buio e la strada passa vicino al bosco, e tu l’hai fatto stare qui in piedi in mezzo all’ingresso con le scatole in mano. Potevi almeno offrirti di dividere il peso con lui! Devo proprio insegnarti tutto! » cinguettò, mentre si incamminava verso la suddetta cucina. Kami e Jared la seguirono.

Mentre attraversavano il salone, a Kami venne in mente la prima volta che Jared aveva messo piede in casa sua, quando aveva fatto amicizia con Ten e Tomo, e poi anche la seconda, quella più imbarazzante, quando Papà li aveva beccati a dormire nello stesso letto e lui le aveva fatto una mezza proposta di matrimonio. Kami sorrise e rivolse lo sguardo verso di lui, per vedere se faceva altrettanto, se stava ricordando quello che ricordava lei. Jared però fissava lo scatolone che teneva tra le braccia, e sembrava non pensare a niente. Quanto le dava fastidio non sapere quello che gli passava tra la testa. Che cosa le era venuto in mente, quando aveva deciso di spezzare il legame che li univa?

Il primo fulmine colpì nel momento stesso in cui entrarono in cucina. È arrabbiato, pensò Kami. Non sarebbe mai più riuscita a guardare un temporale con gli stessi occhi, senza pensare che ogni volta che un fulmine colpiva, da qualche parte doveva esserci uno stregone arrabbiato, e che in quel momento lo stregone era proprio vicino a lei.

« Sei stato davvero gentile ad accompagnarmi a casa, Jared, » disse la Mamma, mentre gli porgeva un bicchiere d’acqua che Jared accettò senza timore. « Sta persino piovendo, mi dispiace che tu debba tornare in paese con questo tempo da lupi. Vuoi rimanere a cena, così mangi qualcosa di sano e aspetti che la tempesta si calmi un po’? »

Kami fece un passo indietro, sgranò gli occhi per la sorpresa – non si aspettava che la Mamma, conoscendo la situazione alla perfezione, chiedesse a Jared una cosa del genere – e scosse la testa in modo che fosse sicura che la Mamma recepisse il messaggio chiaro e forte. La Mamma la ignorò, e sorrise a Jared per incoraggiarlo ad accettare.

Jared lanciò uno sguardo alle sue spalle, forse per vedere qual era stata la sua reazione all’invito. Kami ebbe la sensazione che avesse sorriso, un sorriso di sfida, prima di annuire in direzione di sua madre. Sospirò, sconfitta.

« E non credere che non abbia visto il pacchetto di patatine sul divano, Kami Glass, » la rimproverò la Mamma, prima che riuscisse a pensare qualsiasi cosa che non fosse: quanto ancora dovrà durare questa punizione che mi sta infliggendo Jared?

*             *             *

Dopo cena, lei e Jared aiutarono la Mamma a sistemare la cucina, prima di andare nel soggiorno. La Mamma era andata in camera, adducendo come scusa la stanchezza, non prima di aver sconsigliato – laddove la parola “sconsigliato” andava percepita e sostituita con l’improprio sinonimo “ordinato” – a Jared di lasciare la villetta se prima non avesse smesso di piovere.

Li aveva lasciati soli. Imbarazzati, o almeno lei lo era, e soli.

La tempesta – quella roba durava ormai da più di un’ora, con lampi e tuoni che si ripetevano così velocemente da rendere la valle quasi continuamente illuminata a giorno, e non poteva essere definita semplicemente “temporale” – non dava segno di volersi placare. Jared si era seduto al posto preferito da Ten e guardava lo spettacolo fuori dalla finestra. Kami pensò che fosse un modo per non doverle rivolgere la parola.

« Sei arrabbiato? » chiese Kami mentre attizzava il fuoco del camino, pensando che la vocetta stridula e sottile che le era uscita dovesse essere frutto del fatto che Ten si era impossessato del suo corpo. Non poteva giustificare in altro modo l’improvvisa timidezza che si era impadronita di lei. Se non con il fatto che il ragazzo che aveva di fronte era colui che di lei conosceva tutti i più reconditi segreti e che allo stesso tempo era uno sconosciuto.

Jared si voltò verso di lei e sollevò un sopracciglio, come a chiederle che cosa intendesse. Kami lo prese come un buon segno, ma non fidandosi della propria voce e di quello che sarebbe potuto uscirle dalla bocca – una volta con la vocetta stridula bastava e avanzava per vergognarsi per il resto della sua vita – si limitò a puntare un dito verso la finestra.

« No, non sono io, » rispose Jared con sicurezza.

« Come fai ad esserne certo? » gli chiese allora, incuriosita dall’improvvisa eloquenza di Jared, che fino a quel momento aveva evitato di guardarla, figuriamoci di parlarle. Ad essere sinceri, le mancava sentire la sua voce, le mancava quell’accento americano strascicato, le mancava saperlo sempre con lei. Oh, al diavolo i giri di parole, le mancava lui.

« Perché se ne fossi in grado da solo, Sorry-in-the-Vale sarebbe stata spazzata via quella sera. »

Kami rimase interdetta per qualche istante, spiazzata dalla risposta e incapace di ribattere. Non era facile toglierle le parole di bocca, non era per niente facile ridurla al silenzio, era in grado di costruire un dibattito partendo dal nulla, e quando aveva qualcosa di cui discutere era davvero impossibile fermarla – c’erano volte in cui Angela doveva metterle una mano sulla bocca per costringerla a fermarsi – ma quell’improvviso riferimento alla sera in cui Kami aveva deciso di mettere fine al legame che li aveva uniti per diciassette anni quando tra di loro c’era un oceano – l’Atlantico, per dovizia di particolari, di cui doveva essere sempre ricca la cronaca – le aveva fatto l’effetto di una doccia gelata. O di una secchiata di neve. O di un bagno nelle Pozze delle Lacrime il primo gennaio. O… ok, il concetto era chiaro.

Ed era anche chiaro che Jared fosse ancora furioso con lei. Ma non c’era bisogno che glielo dicesse così esplicitamente. Insomma, le aveva lanciato chiari segnali tutta la sera, non doveva ricordarle ancora che la riteneva completamente colpevole di quello che era successo.

Esausta, crollò a sedere sul divano, mentre Jared tornava a rivolgere la sua attenzione a quello che succedeva fuori dalla finestra. Notò solo in quel momento gli album fotografici sul tavolinetto da caffè. Aveva passato il pomeriggio in quella stessa posizione e non aveva degnato di uno sguardo i libroni di cuoio che qualcuno – con molta probabilità Papà – aveva tolto dalla libreria. Ne prese uno e se lo poggiò sulle ginocchia, lo aprì ed iniziò a sfogliarlo distrattamente.

Sorrideva e le venivano le lacrime agli occhi, a pagine alterne, specialmente quando dalle foto si affacciava la faccia di Sobo. Oba-chan sorrideva sempre quando era con lei o i suoi fratelli. Sorrideva quando era con suo Papà, tanto che era impossibile non riuscire a immaginare da chi lui avesse preso quell’atteggiamento positivo verso la vita. Le dita scivolarono su un primo piano di Sobo. Quanto le mancava! Le si spezzava quasi il cuore, quando pensava a lei. Sobo avrebbe avuto qualcosa da dirle anche in quel momento, conoscendo la situazione tra lei e Jared – non sarebbe mai riuscita a nasconderle una cosa del genere, non le aveva mai nascosto niente – le avrebbe suggerito cosa fare. O forse cosa non fare.

« E così questa è Sobo. »

Le dita di Kami si fermarono. Tutto il suo corpo si irrigidì. Il respiro caldo di Jared le aveva sfiorato la guancia, quando aveva sussurrato quelle parole. Era parte della sua strategia per torturarla o forse aveva deciso che era arrivato il momento di perdonarla? Kami non poteva fare a meno di chiederselo, mentre combatteva il prepotente desiderio di voltarsi verso di lui per vedere con gli occhi quanto si fosse effettivamente avvicinato a lei, ma era convinta che muovendo un solo muscolo avrebbe rovinato quel momento di tregua. Perché si trattava di questo, non di un trattato di pace. Una tregua. Pronta a spezzarsi nel momento esatto in cui la tempesta fosse finita e lui avesse messo piede fuori dalla casa. Kami non si illudeva, Jared non l’avrebbe perdonata così facilmente, lo conosceva bene e poteva dirlo con certezza.

« Le somigli molto, » disse, e Kami si rese conto che Jared si era avvicinato ancora. Il fiato che si liberava dalle sue labbra con quelle parole le aveva solleticato il collo. Le sue dita si aggrapparono all’album fotografico e se avesse guardato le sue mani, con molta probabilità avrebbe visto le sue nocche diventare bianche per lo sforzo. Ma continuò a stare immobile, perché neanche un solo capello scivolasse in una posizione diversa da quella che aveva in quel momento.

« Non è vero, » rispose, cercando di controllare il suo corpo e quello che usciva dalla sua bocca nel medesimo tempo, e rendendosi conto che le costava un grandissimo sforzo. « Sobo era una donna speciale. Era molto più coraggiosa di me, sapeva sempre cosa fare e cosa dire. E soprattutto - »

Si interruppe nel momento stesso in cui si rese conto di aver voltato il viso in modo da vedere quello di Jared, che le rivolgeva il suo solito sorriso sarcastico, quello che gli induriva il viso rendendolo tanto bello da star male. Tanto bello che gli sarebbe dovuto essere vietato andare in giro per la città con quel sorriso. Strinse più forte l’album tra le dita fino a quando non sentì i tendini tirare sulle ossa e probabilmente anche qualche sinistro scricchiolio che proveniva dalle sue povere articolazioni che protestavano vivamente per il trattamento. Non importava che probabilmente le sue dita si sarebbero spezzate e lei non avrebbe potuto scrivere fino a quando non fossero guarite. Non importava perché non poteva permettere loro di fare quello che desideravano fare, quello che lei moriva dalla voglia di fare. Moriva dalla voglia di sfiorare la cicatrice di Jared, sentire la pelle calda del suo viso sotto la punta delle dita. Moriva dalla voglia di sentire l’effetto che faceva il respiro di Jared sulla pelle del suo polso.

Ma stava anche morendo di paura per quello che sarebbe potuto succedere subito dopo, e non voleva essere rifiutata ancora una volta. Il suo cuore non avrebbe retto.

I suoi occhi si persero dentro quelli grigio tempesta – tanto per rimanere in tema – di Jared. Non era mai stata così vicina a lui da riuscire a leggere le emozioni dentro i suoi occhi. In quel momento vi scorse la paura, una paura che era uguale e contraria alla sua. E vi vide anche tantissime altre emozioni che non riusciva a decifrare e che non la aiutavano a prendere una decisione. Kami era una creatura razionale, non avrebbe mai preso una decisione senza sapere quali erano tutte le possibili conseguenze.

Un tuono scosse la casa fino alle fondamenta. La luce giocò un po’, prima di andare via del tutto. Kami sobbalzò e strinse le ginocchia al petto, lasciando andare l’album che cadde ai piedi del divano con un tonfo smorzato dalla presenza del tappeto.

E ora? pensò Kami.

Alla luce dei lampi vide Jared raddrizzare la schiena quasi a rallentatore, come se soltanto in quel momento si fosse reso conto di quanto le era stato vicino. Lo vide girare intorno al divano fino a trovarsi dalla parte della seduta. Lo vide sedersi.

« Non ricordavo che i tuoni ti spaventassero così tanto, » le disse, prima di allungare un braccio lungo lo schienale e appoggiare la schiena al cuscino.

Vista dall’esterno, la scena sarebbe sembrata ovvia. La ragazza aveva paura dei tuoni, il ragazzo si sedeva sul divano accanto a lei quando la luce andava via e la stringeva fino a quando il temporale non finiva. Già, ma lei e Jared non erano una normale coppia. Non erano proprio una coppia. Anzi, si rese conto risvegliando il dolore sordo che era ormai suo compagno costante, non erano proprio niente. E, così, quella non poteva essere una scena così ovvia. O no? Quella che le sfiorava la spalla non poteva essere davvero la mano di Jared che la invitava ad avvicinarsi a lui, semplicemente perché quello non era Jared. Lui rifiutava il contatto fisico, specialmente con lei. Kami era una specie di rospo ripugnante, per quanto lo riguardava.

Eppure, qualche minuto – e molti tuoni – dopo, Kami si trovava con la testa poggiata al petto di Jared e le sue mani stringevano convulsamente il cotone della maglietta di lui, come se avessero saputo che dovevano assolutamente tenerlo fermo accanto a lei, perché ne andava della sua stessa vita. Ma la cosa strana non era tanto lei, abbarbicata a lui come a una porta di legno dopo il naufragio di un transatlantico – di nuovo, perché le venivano in mente film romantici di dubbio gusto in cui l’eroe moriva per salvare la sua amata? – la cosa davvero strana era lui, che con un braccio le cingeva la schiena e che con una mano – quella attaccata al suddetto braccio, per essere chiari – le sfiorava la pelle nuda del fianco su cui era risalita la maglietta.

Mentre respirava l’odore di bucato fresco mischiato a quello dell’animale morto che Jared non rinunciava mai ad indossare e capiva che quel momento le sarebbe costato davvero un sacco, quando lui se ne fosse andato e avesse ricominciato a ignorarla come ormai faceva da settimane, decise che probabilmente quella era l’occasione migliore per porgergli le sue scuse.

« Jared, mi - »

« Lo so, » la interruppe Jared, e poi aggiunse, « Anche a me. »

Kami sollevò il viso, esponendolo all’aria fredda della stanza per poter guardare Jared in faccia, e si rese conto che anche lui la stava guardando e che in quel momento i loro volti erano davvero vicini. Vicini come non erano mai stati prima. E continuavano ad avvicinarsi.

Kami chiuse gli occhi e trattenne il respiro. Fremeva mentre percepiva il movimento del viso di Jared verso il suo. Sussultò, quando sentì il calore delle labbra di Jared sulle sue e spalancò gli occhi, rendendosi conto che quello doveva essere il primo bacio di Jared e che lui probabilmente non sapeva come andare avanti. Il panico la colse per un attimo al pensiero che forse lui non voleva andare avanti ma, per una volta, decise di buttare all’aria tutti i ragionamenti e di smettere di ascoltare la sua testa. Spense tutti i pensieri e circondò il collo di Jared con entrambe le braccia, prima di inumidirgli le labbra con la punta della lingua.

Jared sussultò sorpreso, e si sarebbe tirato indietro se Kami non avesse preso la precauzione di aggrapparsi a lui come un koala. Rimasero per un attimo in stallo, come se Jared stesse valutando cosa fosse meglio fare. E il momento in cui anche lui cedette all’istinto fu chiaro dal modo in cui le sue braccia trovarono la vita di Kami e scesero fino al suo sedere. Kami resistette all’impulso di sorridere come una scema e riprese la sua esplorazione delle labbra di Jared, o forse faceva entrambe le cose contemporaneamente, e quando lui lasciò andare un respiro attraverso le labbra colse l’occasione di approfondire il bacio. E Jared poteva anche non aver mai baciato, ma se non l’avesse saputo non se ne sarebbe mai accorta, perché la risposta entusiasta che ebbe dalla lingua di lui, che accarezzava la sua e gentilmente la spingeva dentro la sua bocca, prima di iniziare a prenderne possesso, era degna di un vero esperto del bacio.

Quando la luce tornò, Kami si trovava a cavalcioni sulle gambe di Jared, con le mani di lui che le accarezzavano la pelle della schiena lasciata scoperta dalla maglietta che le si era arrotolata sotto il seno, le sue mani infilate nella maglietta di lui – che probabilmente era diventata inutilizzabile, visto che aveva infilato entrambe le braccia dall’apertura del collo – il respiro accelerato come il battito del cuore, le guance rosse e gli occhi luminosi. Questa era la se stessa che vedeva riflessa negli occhi di Jared.

Jared le sorrise, dandole un leggero buffetto sulla guancia con il naso, e Kami si rese conto che era la prima volta che lo vedeva sorridere per davvero.

Ed era cambiato anche qualcos’altro. La tempesta si era finalmente placata. Sebbene Kami odiasse l’idea di Jared che usciva da casa sua – e probabilmente dalla sua vita, di nuovo – sorrise, anche se probabilmente il sorriso non rendeva neanche metà dell’idea di quanto era stata felice fino al secondo in cui aveva capito che Jared sarebbe presto uscito dalla villetta.

« Pensavo non fossi in grado di controllare i fenomeni atmosferici, non più almeno, » si lamentò, come si sarebbe lamentata una bimbetta di cinque anni in vena di capricci.

« Non lo sono. Non da solo, almeno. »
   
 
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