Crossover
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Autore: Registe    08/06/2013    3 recensioni
Terza storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
"L’esercito del Grande Satana colpì in modo violento l’Impero Galattico. Non vi furono preavvisi, minacce o dialoghi alla ricerca di una condizione di pace. I demoni riversarono i loro poteri in maniera indiscriminata, non facendo differenza tra soldati e civili, guidati solo da un ancestrale istinto di distruzione. Soltanto la previdente politica bellica dell’Imperatore Palpatine riuscì ad impedire un massacro in larga scala.
-“Cronistoria dell’Impero Galattico, dalla fondazione ai nostri giorni” di Tahiro Gantu, sesta edizione.-"
[dal primo capitolo].
E mentre nella Galassia divampa la guerra, qualcun altro dovra' fare i conti con il passato e affrontare i propri demoni interiori...
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anime/Manga, Film, Libri, Telefilm, Videogiochi
Note: Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 6 - Sensazioni



Ienzo





Vexen è uno scienziato.
Ha insultato gli dèi, rubato e persino ucciso. Ha inventato il condizionamento ed i Nuclei Neri. Si è fatto beffe della sacralità della vita e dell’onnipotenza della morte, dei demoni, dei draghi e degli uomini, e non una volta sola.
Il mio petto vuoto non può provare ancora nulla, ma credo che sia la persona da cui un sacerdote dovrebbe tenersi lontano. Per questo ieri sera, prima di coricarmi, ho chiesto a Camus cosa lo spinga a passare tanto tempo con quell’uomo che lui stesso definisce un irriducibile peccatore, una persona la cui anima si allontana dal Nirvana ad ogni minuto che passa. Lui mi ha risposto che gli dèi sono esseri meravigliosi, perché per un solo attimo di bene perdonano migliaia di gesti sbagliati: perché Loro toccano il cuore di tutti, e quando la Loro mano divina sfiora le corde dell’anima di gente come Vexen creano una melodia che un sacerdote può soltanto ascoltare in ginocchio. Mi ha detto di guardarlo con attenzione, perché in alcuni momenti la sua anima riluce come una gemma preziosa, perché un giorno la sua superò quella di tutte le stelle del cielo.
Oggi mi sono recata nel Magnamund ed ho guardato quell’uomo, ma non ho visto nessuna anima.
Ho visto solo il riflesso di mio fratello.
Dai diari di Aqua.





Narratore: “No, non è possibile... un altro flashback no!!”
REGISTE: “Non è il primo e non sarà neanche l'ultimo, Narratore. Ma questo discorso l'abbiamo già fatto, no?”
Narratore: “Ma io dico, a chi mai del pubblico gliene potrà fregare qualcosa del passato di quel rompiballe di Vexen... “
REGISTE: “Fingeremo di non aver sentito... “
Narratore: “Sigh... è una causa persa... e va bene... amici lettori, mi dispiace per voi ma dovrete fare a meno del piacere della mia narrazione ancora per un po'... la parola va ora al rompi... cioè, a Vexen.... “



Non ci fu verso di far cambiare idea al Superiore.
Aveva deciso di affibbiarmi il ragazzino, e non avrebbe sentito ragioni. Le mie accese proteste si scontrarono contro un muro di cocciutaggine granitica.
“Non darti per vinto ancora prima di cominciare, senza neanche esserti messo alla prova.” mi disse con il suo snervante tono paterno. “Ho fiducia in te, Vexen. Sono convinto che tu sia la persona giusta per un compito del genere. Occuparti di Ienzo sarà un'ottima occasione di arricchimento sia per te che per lui.”
Belle parole, certo. Ma intanto mi stava affibbiando il ragazzino.
Ienzo era originario del nostro mondo, ma come fosse arrivato nelle selvagge montagne di Delivar, a chilometri e chilometri dal villaggio più vicino, restava un mistero. Il Superiore era passato di lì per il puro capriccio di ammirare il tramonto dall'imponente Cima Ovest, scortato dagli inseparabili numeri II e III, ma non l'avrebbe mai trovato se Xigbar non gli fosse accidentalmente inciampato sopra. Rimessosi in piedi tra un'imprecazione e l'altra il numero II aveva scoperto che a farlo cadere non era stato un sasso nascosto nella neve, ma un bambino raggomitolato su se stesso, semi-sommerso dalla neve e prossimo al congelamento. Intorno niente impronte, nessuna traccia o indizio sulla sua provenienza, nulla di nulla. Alle domande dei suoi soccorritori il bambino aveva saputo offrire un'unica risposta: il suo nome. Per il resto pareva che non ricordasse niente.
E a quel punto il Superiore si era fatto venire la malsana idea di adottarlo.
“Io non so niente di bambini, Superiore.” dissi. E non è una branca del sapere che desidero approfondire.
“Imparerai. Noi tutti ti daremo una mano.”
“Ma perché... perché io?!”
“Gli altri sono principalmente guerrieri, ma tu sei un medico, un uomo di cultura. Sei il più brillante di tutti noi, e io voglio solo il meglio per il numero VI. Sei la persona più adatta per allevarlo ed educarlo.”
Non era per fare da baby sitter a un ragazzino che avevo accettato di diventare un membro dell'Organizzazione. Cambiare nome andava bene, vivere sotto lo stesso tetto di persone che non apprezzavo ancora ancora si poteva tollerare; ma perdere il mio tempo appresso a un bambinetto piagnucoloso...
“Non ci sto.”
Nella sala da pranzo calò il silenzio. Ienzo stringeva ancora tra le mani il piatto di minestra e guardava alternativamente me e Xemnas con un'aria da cucciolo braccato. Dovevo concedergli che era un bimbo molto carino, con quel faccino tondo e gli occhioni grandi e azzurri che avrebbero sciolto i cuori di un Grande Satana. Ma non il mio.
Ancora seduti al loro tavolo, Xaldin e Lexaeus seguivano lo scambio di battute in silenzio.
Infine, il Superiore sospirò. “Dobbiamo davvero interrompere la nostra collaborazione così presto, numero IV?”
In quel momento capii che mi aveva in pugno, che qualsiasi cosa avessi detto o fatto le mie alternative si riducevano a due: accettare l'infamante ruolo di baby sitter del numero VI o uscire dalla porta del Castello dell'Oblio e non fare più ritorno. La cosa che più mi mandava ai matti era che Xemnas aveva anche l'aria dispiaciuta, affranta addirittura, come se fossi stato io a pugnalarlo alle spalle.
Era un ricatto bello e buono. L'ennesimo capriccio insensato del signore del Castello dell'Oblio.
Ma suo il Castello, sue le regole.
Gli avevamo giurato obbedienza.
Ripensai alla mia vita prima dell'Organizzazione, agli anni da medico girovago circondato dalla diffidenza e dall'ignoranza della gente; e ricordai le meraviglie della Biblioteca, la promessa di un potere in grado di attraversare le barriere tra i mondi.
In fondo non era una scelta difficile.
Il Superiore sorrise.
“Xaldin, Lexaeus, portate un altro letto nella stanza del numero IV.”



Avevo chiesto io di alloggiare nei sotterranei, per essere sempre vicino al laboratorio. La mia stanza da letto era stretta e non molto spaziosa, ma solo una porta la separava dal secondo luogo più straordinario del Castello dopo la Biblioteca: un paradiso di strumenti e macchinari di cui fino a poco tempo prima non avrei nemmeno sognato l'esistenza.
La sola vista di un ragazzino in un luogo pieno di oggetti fragili e delicati come quello mi faceva accapponare la pelle.
“Bene Ienzo, la regola numero uno è questa: la roba dentro questa stanza non si tocca. Per nessun motivo. Mai. Anzi, meno ci vieni e meglio è. Chiaro?”
Senza smettere di fissare il pavimento Ienzo fece cenno di sì con la testa. Se non altro per il momento sembrava silenzioso e obbediente, ma non mi fidavo. Più sono piccoli e più hanno la tendenza a combinare guai.
Come promesso da Xemnas nella stanza da letto era apparsa una seconda brandina a poca distanza dalla mia. Ienzo ci si sedette e lì rimase, la testa china e le spalle curve.
Bene... e adesso?
Il silenzio si prolungava in modo imbarazzante.
E va bene. Da qualche parte dovrò pur cominciare.
“D'accordo Ienzo... vediamo un po'... quanti anni hai?”
Lo vidi sollevare pian piano una manina e mostrarmi tre dita mentre mi spiava di sottecchi da sotto la frangia di capelli argentati.
“Bene, e... da dove vieni?”
“...”
“I tuoi genitori come si chiamano?”
Chissà, magari se fossi riuscito a estorcergli qualche informazione avremmo potuto localizzare la sua famiglia, e io mi sarei liberato di quella palla al piede.
“...”
“Non ricordi proprio niente? Come sei arrivato sulla montagna, chi ti ci ha portato... ?”
“...”
Era come parlare al muro, con l'eccezione che il muro probabilmente sarebbe stato più partecipe. Ienzo continuava a restare immobile e a fissarmi da sotto la cortina di capelli con occhi sgranati.
“Dannazione, sai parlare almeno?!”
“Io so parlare.”
Per un attimo mi spiazzò. Lo aveva detto con una vocina flebile, ma il tono era quello con cui si ribadisce un'ovvietà a una persona tarda di cervello. La voglia di prenderlo e fiondarlo fuori da una finestra era sempre più forte.
Calma, Even. E' solo un bambino. Non è colpa sua... è il Superiore che andrebbe fiondato da una finestra... una finestra molto alta, possibilmente con stalagmiti puntute sul fondo...
Decisi di accantonare la questione delle origini di Ienzo, almeno per il momento.
“Lasciamo perdere. Pensiamo al tuo nome piuttosto. Dobbiamo cambiarlo.”
Continuava a fissarmi con aria perplessa, e stavolta non seppi dargli torto. Quella dei nomi con la X era un'altra delle tante regole senza senso che il Superiore ci aveva imposto. “La scelta del nuovo nome segnerà l'inizio della vostra nuova vita nell'Organizzazione”, o qualche scempiaggine del genere. La regola richiedeva di anagrammare il proprio nome a piacimento aggiungendovi una X. E ovviamente Ienzo non era in grado di farlo da solo.
Ci pensai su, passando in rassegna le varie combinazioni. Noizex, Izoxen, Xinoze, Onizex...
“... Zexion!”
Mi pareva il più pronunciabile tra quelli che mi erano venuti in mente, e non avevo voglia di perdere altro tempo a pensarci.
“Il tuo nuovo nome sarà Zexion!”
E proprio in quel momento Ienzo – cioè, Zexion – parlò per la seconda volta.
“Perché?”
Domanda da un milione di monete d'oro. “Perché il Superiore vuole così, ragazzino. D'ora in poi ti chiamerai Zexion, punto e fine.”
Dal suo sguardo perso era chiaro che la spiegazione non lo soddisfaceva, e per un attimo mi sentii quasi in colpa. Da piccolo avevo odiato quando i maestri opponevano ai miei “perché” il loro secco “gli dèi vogliono così.”
“Lo ha deciso Xemnas, il Superiore.” spiegai. “Noi dobbiamo fare quello che lui dice. E' il nostro capo... capisci cosa vuol dire?”
Fece cenno di sì con la testa. “E' un signore gentile.” aggiunse poi.
“Se lo dici tu.”
“Zexion.” ripeté.
“Esatto. Non te lo dimenticare.”
Era quasi notte ormai, ma prima di mandarlo a dormire decisi di fargli un esame medico completo. Una precauzione, e anche un modo per sperimentare alcune delle attrezzature del laboratorio: se non altro avrei unito l'utile al dilettevole.
Per essere un ragazzino abbandonato a congelare sotto la neve nelle Terre Selvagge si trovava in condizioni ottime; giusto un po' sottopeso e denutrito, ma niente che qualche giorno di alimentazione sana e regolare non potesse risolvere. E si dimostrò anche sorprendentemente docile: si lasciò visitare senza emettere un fiato né fare capricci.
Almeno fino a quando non vide l'ago. Volevo fargli un prelievo per effettuare delle analisi del sangue in seguito (e avere una scusa per provare i microscopi del laboratorio!), ma non feci in tempo ad avvicinargli l'ago al braccio che Zexion scattò come attraversato da una scossa elettrica, raggomitolandosi sul letto con le braccia strette attorno alle ginocchia come un'ostrica che si chiude di scatto.
“Non ti ho nemmeno toccato! Guarda che non voglio farti male!”
Cercai di farlo rimettere seduto, ma aveva tutti i muscoli tesi e irrigiditi e avrei solo rischiato di fargli male.
Esasperato rimisi via la siringa e gli mostrai le mani libere.
“Va bene, va bene! Niente prelievo! Stai tranquillo!”
Passarono lunghi istanti di immobilità.
Lunghissimi istanti.
Non avevo la più pallida idea di cosa fare.
Alla fine Zexion si decise ad aprire gli occhi, che fino ad allora aveva tenuto serrati come chi si aspetta un colpo violento da un momento all'altro; e nel suo sguardo inondato di lacrime lessi che era terrorizzato.
Gli faccio così paura... ?
Oppure...

Fu allora che il pensiero mi colpì per la prima volta. Prima ero stato troppo impegnato a compiangere me stesso e la mia sorte sfortunata. Ma un ragazzino che finisce abbandonato in mezzo alla neve e non ricorda nulla...
… o forse non vuole ricordare?
Che cosa gli avevano fatto i suoi rapitori, o i suoi genitori, o... chiunque lo avesse lasciato lì a morire? Che traumi aveva dovuto subire quel bambino di soli tre anni?
Non era il mio ago a fargli paura. Il suo era lo sguardo di chi teme che gli succeda qualcosa di terribile... di nuovo.
“Stai tranquillo.” ripetei, un po' a disagio. Zexion continuava a stare sdraiato sul letto, raggomitolato a riccio con le braccia serrate attorno alle ginocchia.
“Qui sei al sicuro. Nessuno ti farà del male.”
Silenzio.
“Perciò non c'è bisogno di avere paura. Questo castello ora è la tua casa e... e vedrai che ti troverai benissimo.”
Silenzio.
“Beh, adesso... adesso ti lascio dormire, che è tardi. Io vado di là.” indicai il laboratorio. “Se ti serve qualcosa chiama, d'accordo?”
Non mi aspettavo una risposta, e infatti non ci fu. Forse era meglio lasciarlo solo per un po', dargli il tempo di tranquillizzarsi e riposare. Doveva essere stremato.
Il laboratorio catturò la mia attenzione per il resto della notte, e ben presto mi dimenticai del bambino che dormiva nella stanza accanto.
Quando sorse l'alba tornai da lui e lo trovai addormentato. Era raggomitolato su un fianco con le braccia strette intorno alle ginocchia, nella stessa identica posizione in cui lo avevo lasciato ore prima.



Narratore:” Bene, e anche per questo capitolo lo strazio è finito!! A me gli occhi amici lettori, si torna a narrare di cose serie!”



La luna era stupenda, quella sera. La valle sotto di lei ricordava quelle dei grandi pittori, immobile sotto la luce argentea. A dispetto della stagione, nessun vento attraversava la regione, e le punte degli alberi erano immobili, avvolte nel chiarore. Erano diversi giorni che Zachar non riusciva a trovare qualche istante per fermarsi ed osservare il panorama, a cercare di far sue quelle montagne, quei fiumi, quelle città che fino a poche settimane prima erano state solo dei nomi sulle mappe.
Le piaceva quel mondo.
L’Impero Galattico l’aveva sempre schiacciata con il suo potere; i palazzi oppressivi di Coruscant, le sconfinate distese paludose di Dagobah, l’efficienza di Carida. L’unico posto che aveva trovato attraente era stata la dimensione dell’Amn, quando l’Imperatore aveva mandato lei e Kaspar a supervisionare i maghi di quel luogo, ma era durato troppo poco. Il Regno delle Tenebre era il suo mondo natale, ma conservava solo ricordi di caverne senza fine, passaggi avvolti nella nebbia e l’oscurità che scivolava anche tra le dita; una dimensione priva del sole e delle stelle, che qualsiasi persona dotata di buon senso avrebbe cercato di abbandonare.
Invece quel mondo senza nome, con la sua luce viva ed i prati verdi, sembrava accoglierla come una madre: la magia sbocciava nell’aria e nell’acqua, collegata alla stessa esistenza della famiglia demoniaca, ma le dava forza. Anche lassù, nel covo della Resistenza nel cuore della montagna Den, anche in quei rifugi angusti riusciva a percepire tutta la bellezza di un pianeta non contaminato dalla tecnologia imperiale.
Fino a quel momento.
Aveva riconosciuto la sagoma triangolare degli Star Destroyer non appena erano comparsi in cielo, nemmeno un giorno fa. Nella confusione generale della Resistenza, aveva spiegato alla principessa Leona ed agli altri capi di cosa si trattasse: la maggior parte di loro non aveva capito molto, ma tutti avevano riposto in lei la massima fiducia. Non era mai successo prima di allora.
Su suo consiglio avevano iniziato l’evacuazione dei villaggi vicini: molte persone li avevano inizialmente visti di cattivo occhio, ma alla notizia della distruzione delle città della costa orientale in molti avevano abbandonato il loro timore della collera del Grande Satana e li avevano seguiti. Le operazioni procedevano abbastanza bene, ma nel suo cuore vi era una sensazione spiacevole che quelle minacciose astronavi contribuivano ad aumentare.
L’Impero Galattico era venuto a prenderle di nuovo qualcosa a cui teneva.
Proprio come le aveva sottratto Kaspar.
Riconobbe il passo pesante di Auron alle sue spalle, si voltò quando lo vide uscire dalla spaccatura nel fianco della montagna. “Mu e Shaka sono tornati. Ho fatto bene a mandare Dai a proteggerli, questa volta hanno rischiato troppo” disse. Venne accanto a lei, e la maga sentì tutta l’imponenza del suo fisico “Pensavo ti facesse piacere andare a salutarli”.
“Sono felice che stiano bene … e non ti preoccupare, andrò da loro …”
Si rese conto di non avere altro da dirgli. Di non avere il coraggio di rivolgergli la parola. Aveva cercato in quei pochi giorni di evitare di trovarsi da sola con lui, e guardò fisso la sagoma degli Star Destroyer, sperando che l’altro capisse il suo desiderio di solitudine. Ma il soldato rimase. La cortina di silenzio non lo spaventava. Ad essere sincera, non sapeva cosa potesse spaventarlo davvero.
“Stai pensando a Kaspar, giusto?”
Dritto al punto. Come sempre.
“Credi che sia su una di quelle astronavi?”
Lei guardò oltre, grata per avere un punto fisso da osservare, ed annuì. Si rese conto in quel momento di aver dedicato tutte le sue attenzioni alla Resistenza ed agli abitanti di quel mondo per non pensare all’uomo che amava. Quando guardava la luna piena gli tornavano in mente i suoi capelli candidi, ed il profumo dei boschi le ricordava quello delle rose che evocava solo per lei, tanti anni prima. Le mancava, ed ogni volta che pronunciava quel nome il suo cuore aveva un tuffo; non riusciva a perdonarsi di essere andata via dal Baan Palace senza di lui, abbandonandolo di nuovo nelle mani dell’Impero Galattico. E, se per questo, non aveva del tutto perdonato Auron. Era stato lui a portarla via con un trucco nonostante lei gli avesse espressamente detto di voler tornare da Kaspar: lo aveva fatto per il suo bene, non ne aveva dubbi, ma il suo bene era da un’altra parte, al fianco del suo mago. Estese i suoi incantesimi di divinazione verso le enormi sagome triangolari, ma il suo potenziale magico non era abbastanza elevato per percepire la presenza di Kaspar: ma le probabilità che fosse lassù erano alte, era il migliore incantatore di cui disponesse l’Impero, e Palpatine lo avrebbe mandato in prima linea senza alcun rimorso. Una prima linea dove lo avrebbero atteso centinaia di draghi nel migliore dei casi. Ed un Ryumajin infuriato nel peggiore.
“Non dovrei essere qui …” mormorò.
“Invece sì. Lassù non potresti cambiare un bel nulla. Al massimo potresti deviare il soffio di un drago o impedire che la sua astronave vada in mille pezzi, ma contro certi nemici la tua protezione non sarebbe efficace. Qui invece sei al sicuro e puoi fare del bene a molte persone”.
“A te senza dubbio”.
Lo disse con più cattiveria del previsto, agitata dalla frustrazione e dall’impotenza dentro di lei. Ma, contro ogni aspettativa, lui sorrise. “Era dai tempi del Castello dell’Oblio che non ti vedevo così decisa”.
“Non ero in me, quella volta”.
“Io invece dico di sì”.
Ricordava bene il sapore delle labbra di lui. Le era piaciuta la forte stretta delle sue braccia, e quella sensazione non era sparita nemmeno dopo che il condizionamento mentale dei Membri dell’Organizzazione si era dissolto. Ma aveva giurato a se stessa che non avrebbe mai abbandonato il fianco di Kaspar, che non lo avrebbe mai lasciato, solo e con la mente alterata, nelle mani di quei cani sfruttatori dell’Impero. Ed invece era lì, al sicuro, persino felice con i suoi nuovi amici: e questo le bruciava più delle fiamme di un Balrog di Moria. L’uomo che amava forse era lassù, costretto ad obbedire ai Signori Oscuri, e lei non sarebbe mai riuscita a raggiungerlo: se si fosse presentata alla flotta imperiale l’avrebbero sicuramente giustiziata come traditrice visto che non si era fatta trovare al momento della fuga dal Baan Palace, e questa era l’unica cosa che la trattenesse da abbandonare quella montagna e correre verso gli Star Destroyer.
“Da morta non gli serviresti a nulla” disse il mercenario, come leggendole nella mente “Perché, invece di stare al suo fianco lassù, non pensi ad un modo per farlo venire qui, tra noi? Sarebbe la soluzione migliore per tutti, non credi?”
Lei sobbalzò, e per la prima volta in quella serata lo fissò negli occhi “Non per te. Tu non lo sopporti!”
“Ed a ragione, credo. Averlo qui sarebbe il modo migliore per poterlo prendere a cazzotti come merita ogni volta che ti fa soffrire! Quell’idiota non ha fatto altro che trattarti come una pezza da piedi e ti assicuro che non mi dispiacerebbe averlo di nuovo qui per spaccargli la faccia!” sentenziò. Lei avrebbe voluto rispondergli a tono, ma Auron riprese “Non temo affatto la concorrenza di quel mago egoista e presuntuoso; te ne sei già accorta una volta, te ne accorgerai di nuovo. Ma forse averlo qui ti farà sentire più tranquilla, e potrebbe persino pensare di integrarsi alla Resistenza!”
A quello non credeva nemmeno lui, Zachar lo sapeva. Ma una simile proposta, uscita dalla bocca del mercenario, la lasciò senza fiato.
Si rese conto che le sarebbe piaciuto molto avere Kaspar lì, al suo fianco. Guardare insieme la valle rischiarata dalla luna, osservare le stelle ricordandosi dei periodi bui nel Regno delle Tenebre; tenerlo per mano e tornare a quelli che erano un tempo, un maestro ed un’allieva innamorati follemente l’uno dell’altra contro ogni regola del loro mondo. Combattere anche per la gente di quel mondo, perché no, i loro poteri congiunti potevano rappresentare tanto per Dai, per Matoriv, per Pop e Maam, per la Resistenza intera. Ma sapeva che in un simile futuro roseo avrebbe perso Auron.
Le sarebbe dispiaciuto, e lo sapeva.
Forse più di quanto avrebbe dovuto.
Scosse la testa e tornò verso l’ingresso “Hai ragione tu, dovrei andare a salutare Mu”.



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Fonte della fanart a inizio capitolo: http://browse.deviantart.com/art/Someone-please-give-him-a-hug-198223972
  
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