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Autore: mieledarancio    09/06/2013    7 recensioni
«Sai qual è la verità, Near? Che tu sei il pidocchio più orripilante che abbia mai visto e che se soltanto non avessi questa fottuta febbre ti avrei già preso a schiaffi come faccio sempre! Il tuo comportamento mi dà ai nervi!», gli urlo in faccia, sperando di ricevere da lui una reazione sincera.
Lui mi scruta, stranamente attento.
Abbasso lo sguardo, troppo codardo per guardarlo in quei suoi occhi vuoti ed ammettere che ogni volta che vi scorgo dentro anche la più piccola emozione il mio stomaco si contrae in una morsa dolorosa.
Rafforzo la stretta sulle sue spalle e lo spingo con più forza contro il muro.
«Tu mi... mi fai letteralmente impazzire.»
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Mello, Near | Coppie: Mello/Near
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Emotionless - Capitolo 1
Capitolo 1
- Punishment -









Come ogni giorno durante l'ora di pranzo, la mensa della Wammy's House è ghermita da bambini e ragazzi rumorosi, che dopo le lezioni mattutine pensano soltanto a gettarsi come animali affamati sul cibo, riunendosi a gruppi ai tavolini presenti nella stanza. Soltanto un tavolo, quello che solitamente viene occupato da una sola persona, è vuoto: il tavolo di Near.
Nonostante sia ben consapevole che non verrà, non riesco comunque a distogliere lo sguardo da quell'insulso pezzo di legno vuoto, con accanto una sedia altrettanto vuota. Ce n'è soltanto una, perché nessuno si siede mai accanto a lui. Near mangia sempre da solo. Mi sembra quasi di vederlo, bianco e apatico, impegnato a mangiucchiare con lentezza e poco interesse il suo misero pasto. Non mangia molto, in effetti; anzi, quasi niente. Fosse per lui, a mio parere, farebbe a meno anche di quelle poche briciole che assume a forza ogni giorno.
Near non conosce il significato della parola 'vivere'. Lui sopravvive e basta.
Ciò che odio di più è il fatto che, per quanto mi sforzi, non riesco a non pensare a lui e a non guardare quel dannato tavolino. La mia è un'ossessione, un'orrenda ossessione. Quel mostriciattolo è costantemente presente nella mia testa anche quando fisicamente è lontano metri e metri. Non credo di aver mai odiato così tanto una persona.

«Mello?».

Distolto dai miei pensieri, sbatto più volte le palpebre e cerco di mettere a fuoco la figura di Matt, seduto proprio di fronte a me. Mi sta fissando con un sopracciglio inarcato e un'espressione quasi rassegnata.

«Se te lo stai chiedendo, oggi Near non verrà», mi informa con serietà.

Lo so bene. Ieri ho fatto in modo che non potesse nemmeno camminare. I ragazzi ci sono andati pesanti, proprio come avevo ordinato loro.

Con una smorfia addento il mio panino. «Peccato. Oggi sarà una barba».

«Non ne hai abbastanza?».

«Non ne ho mai abbastanza».

Il mio sguardo è serio e cattivo. Ogni volta che penso all'indifferenza di Near e al fatto che lui sia lo studente numero uno di tutto l'orfanotrofio mi ribolle il sangue nelle vene.

Matt scuote leggermente il capo e si concentra sul proprio pranzo. «Contento tu...».

Il suo tono mi fa infervorare e non poco. Sembra quasi che mi stia compatendo, come se stesse dalla parte di quel mostriciattolo. Non l'ho mai costretto a fare nulla che non volesse, a differenza degli altri, che non possono permettersi il lusso di scegliere; loro devono sottostare al mio volere, ubbidire ai miei comandi e tacere. Disobbedire equivarrebbe a scavarsi la fossa da soli. Matt non è legato da questi vincoli; ecco perché il suo comportamento mi irrita tanto.

«Se ti preoccupi così tanto per Near, perché non passi dalla sua parte?», lo sfido con strafottenza, guardandolo con occhi che esprimono più delusione che rabbia.

Alza gli occhi al cielo, ignorando completamente la mia provocazione. «Ma per favore...».

È questo ciò che mi piace di più di Matt: non si fa spaventare da me, a differenza di tutti gli altri, che mi temono come se fossi il diavolo in terra; lui invece ha persino la capacità di tranquillizzarmi con la sua stessa calma. Potrei quasi definirlo un amico, anche se questa per me è una parola troppo grossa.
Nessuno è mio amico.
Il discorso a questo punto si interrompe e la pace viene ristabilita. Come sempre, del resto. Io e Matt non litighiamo mai.
Improvvisamente il nostro tavolo viene scosso dall'irruenza tipica di Bruce, che con nonchalance si siede con noi, seguito subito dagli altri ragazzi. Un grugnito esce incontrollato dalle mie labbra: detesto vederli così spesso - il solo motivo per cui sono costretto a passarci del tempo è perché senza il loro aiuto picchiare Near non sarebbe così divertente - e non sopporto il fatto che abbiano interrotto con noncuranza la mia pace personale.

«Ehi, ragazzi!», esclama dunque il ciccione, avvicinandosi irritantemente alla mia faccia. «Avete saputo? Stamattina Near non si è visto a lezione!».

«Lo sappiamo, Bruce», borbotta Matt, riprendendo a mangiare il suo pranzo.

Bruce, il più grosso e violento del gruppo, ma anche il più codardo, non si dà per vinto. «E non è nemmeno venuto a pranzo!».

«Non ce n'eravamo accorti...». Lo fulmino con lo sguardo e con i denti stacco un enorme pezzo dal mio panino.

Lui abbassa lo sguardo timoroso e si rimette al suo posto, allontanandosi finalmente dal mio viso. Mi scappa quasi da ridere: è buffo il modo in cui mi obbedisce, come un docile cagnolino. Bruce può spaventare gli altri, ma non me. Non è altro che un grosso e grasso giocattolino che potrei gettare nel bidone da un momento all'altro, se solo volessi. Spazzatura.
Hugo, a differenza sua, è più riservato ed evita di porgermi domande che sa potrebbero darmi fastidio. Sa stare al suo posto, devo dire. Fra quelli del nostro gruppo è il più grande e possente, ma anche il più moderato; quando si tratta di entrare in azione è efficiente, ma sa quando è ora di rivolgermi la parola e quando è meglio tacere. Lui è forse quello che mi dà meno grattacapi.
Rik e Gabe invece sono i gemelli omozigoti silenziosi e timorosi. Non mi rivolgono quasi mai la parola per paura di dover affrontare la mia ira, e si limitano semplicemente ad obbedire ai miei ordini. Il più delle volte se ne restano in silenzio, a fissarmi adoranti. Probabilmente mi considerano una specie di eroe.
Tutti loro, comunque, non sono altro che le pedine del mio gioco. Li manipolo a mio gusto e piacimento, e senza neanche troppa fatica. Quando ritengono che possano essermi utili, li chiamo a raccolta. Anche se la maggior parte delle volte non ce n'è neppure bisogno: la loro smania di starmi accanto è impressionante e schifosamente inquietante.

«Quindi oggi come ci divertiamo?», insiste Bruce, mettendo a dura prova il mio autocontrollo.

«Oggi ce ne stiamo buoni, imbecille. O vedi forse altre alternative?».

Cala immediatamente il silenzio, ed io ringrazio qualunque Dio esistente abbia deciso di ascoltare la mia richiesta di aiuto.
Non è giornata. Oggi potrei fare a pezzi qualcuno, se mi capitasse l'occasione. Non ne capisco il motivo. Dopotutto le cose sono andate esattamente come avevo desiderato... Ma qualcosa mi fa sentire quasi... vuoto. Senza uno scopo. Ora che Near è fuori gioco, non ho più niente a cui attaccarmi. Ed è proprio questa la cosa che più mi fa imbestialire. Perché tutto deve sempre ruotare attorno a lui?

Ad un tratto, accanto a me, Bruce sbarra gli occhi sconvolto, fissando un punto indefinito nella stanza; il suo braccio si solleva e con un dito indica incerto e tremante l'oggetto del suo turbamento. «Capo...», mugugna incredulo.

Scocciato, volto il capo nella direzione da lui indicata. I miei occhi si spalancano decisamente più dei suoi e per poco non mi strozzo con un pezzo di panino.
Non è possibile!
Quel tavolo che fino a pochi minuti fa era vuoto, ora sta per essere occupato dal suo legittimo proprietario. Una figura bianca e fin troppo familiare avanza incerta verso di esso, zoppicando e trascinandosi con stanchezza. È instabile Near, quasi non si regge in piedi. Una volta raggiunta la propria sedia, si lascia andare su di essa con il suo solito contegno. Chiunque altro, nelle sue condizioni, si sarebbe letteralmente stravaccato. E invece lui no: eccolo lì, una gamba piegata contro il petto e l'altra abbandonata lungo la sedia come sempre.

«Impressionante», commenta Matt con serietà.

«Near...». Il mio è un sussurro talmente basso che nessun altro può averlo udito.

È conciato male, e non sfugge allo sguardo di nessuno. Tutti gli altri ragazzi si voltano e gli rivolgono qualche occhiata sorpresa, sconvolta, confusa. I capelli sono più arruffati del solito, un livido scuro occupa buona parte del suo zigomo sinistro e una piccola crosta di sangue scarlatta spunta all'angolo della sua bocca pallida. È debole, si vede, ma al tempo stesso è forte.
Non molli mai, eh? Maledetto...

«Ma... Ma ci eravamo andati giù pesanti, proprio come ci avevi ordinato!», sbotta sconvolto Bruce, guardandomi intimorito.

Digrigno i denti e la mia mano si stringe a pugno. «Evidentemente non abbastanza, razza di idioti!».

Li vedo ritrarsi spaventati, consapevoli di essere in pericolo. Sono furioso.
Per quanti sforzi io faccia, non riesco mai a... piegarlo. Near non si spezza mai. Anche oggi si è dimostrato indirettamente superiore a me.
Forse, se ci avessi pensato io, ora non sarebbe seduto a quel fottutissimo tavolo.
Il panino stretto nella mia mano destra cade a terra in tanti piccoli pezzi, distrutto dalla mia furia.

«Calmati, Mello», mormora Matt, prendendo un sorso d'acqua dal suo bicchiere. A differenza di me e degli altri, lui sembra così tranquillo...

Lascio cadere a terra ciò che resta del mio pranzo - poco e niente - e rivolgo un'occhiata di fuoco a quel lurido pidocchio. Mi dà le spalle, ma sa che lo sto guardando. Lui sa sempre tutto.
E va bene, Near... Vediamo quanto puoi resistere ancora. Te la sei cercata.









Al termine delle lezioni mattutine, la maggior parte dei ragazzi si riunisce nel grande giardino dell'orfanotrofio e continua la propria giornata come meglio crede: c'è chi gioca a pallone, chi a nascondino, chi si siede sotto un albero a leggere, chi a parlare... L'intera struttura della Wammy's House si svuota del tutto in quelle ore. O quasi.
Io ho sempre preferito chiudermi nella mia stanza o in biblioteca a studiare, o anche soltanto per restare solo. Oggi più che mai è una di quelle giornate in cui il contatto con qualcun altro potrebbe urtarmi a tal punto da diventare violento con chiunque mi capiti a tiro. Meglio isolarmi, come un animale pericoloso chiuso in una gabbia.
Studiare non rientra nelle mie priorità: la mia mente non è sufficientemente libera per permettermi di assimilare qualsiasi cosa. Il pensiero di quel pidocchio è come un chiodo che lentamente viene conficcato a colpi di martello nel mio cervello. Mi impedisce di pensare, di fare qualsiasi altra cosa che non sia angustiarmi per il fatto che ancora cammini sul mio stesso terreno.
È una condanna, la peggiore che potesse capitarmi in sorte.
Il mio fiato caldo lascia un alone sul vetro della finestra da cui stavo scrutando gli altri correre dietro ad un pallone quasi distrutto. Mi allontano, lasciandomi condurre dalle mie stesse gambe senza avere in mente una meta precisa. O forse il mio corpo inconsciamente sa già dove vorrebbe essere, chissà... Infatti non mi meraviglio più di tanto quando mi ritrovo quasi per caso davanti alla porta aperta della Sala Comune. È apparentemente vuota, ma so per certo che se mi avvicinassi ancora un po' alla soglia e guardassi dentro, in un angolino troverei la solita figura bianca che tanto disprezzo: Near trascorre i suoi pomeriggi così, componendo puzzle. Mi chiedo quando trovi il tempo per studiare. È così disumano da non dormire nemmeno? Effettivamente, se ci penso bene, non mi pare di averlo mai visto chiudere gli occhi per più di cinque secondi.
Avanzo ancora un po', mi fermo sulla soglia e estraggo dalla tasca una barretta di cioccolata. Appoggiandomi allo stipite inizio a morderla, guardando non dentro alla stanza, ma un punto fisso sul soffitto. Non ho bisogno di cercarlo con gli occhi, quando posso sentire la sua presenza e il suo respiro quasi inesistente anche a metri di distanza.
Il mio corpo reagisce in modo strano quando è vicino a lui. Lo sente anche se non lo vede.
Vorrei soltanto sapere se anche per lui è lo stesso... Se davvero non proferisce parola perché non si è accorto della mia presenza, o semplicemente perché non gli importa. Ma è improbabile che non mi abbia realmente notato. I miei morsi diventano sempre più rabbiosi, non sentirli è quasi impossibile.

Dopo attimi di interminabile silenzio, sbotto spazientito: «Come diavolo fai a stare ancora in piedi?».

Nessuna risposta, ovviamente.
Tipico.

Finisco la cioccolata, mentre le mani prendono a formicolarmi fastidiosamente. È come se il sangue scorresse improvvisamente più velocemente nelle mie vene. Accartoccio la carta e la lancio via con rabbia. Quando finalmente mi volto verso di lui, lo ritrovo inginocchiato sul suo solito puzzle bianco, la schiena un po' più curva del solito, il volto più emaciato. Con passo spedito mi avvicino, come se volessi saltargli addosso e sfogare la mia rabbia; invece no, mi fermo davanti a lui, i pugni stretti e il volto contratto dall'ira.
Near solleva gli occhi, quei pozzi scuri e vuoti che ogni volta mi fanno rabbrividire. Non che abbia avuto l''onore' di osservarli così spesso: è raro che mi guardi così apertamente.
Mi scruta, aspetta. Che diavolo vuoi, Near?!

«Vuoi finire il lavoro?», mi chiede quasi con indifferenza, come se mi stesse chiedendo di passargli un pezzo di pane.

Le mie mani si stringono ancora di più a pugno. «Mi stai forse chiedendo di farlo?».

«No. Mi chiedevo solo per quale motivo fossi venuto qui».

Il suo dannato volto, così apatico, tranquillo, il suo tono di voce...

«'Fanculo, Near!». È un ringhio che mi esce dalla gola quasi strozzato, mentre le mie mani si chiudono attorno al suo collo e lo sollevano con una forza insolita. Non che pesasse più di tanto comunque...

Le sue dita lasciano andare le tessere del puzzle, ma la sua espressione non cambia. Perché non ha paura? Perché, qualsiasi cosa io faccia, non dimostra una fottutissima emozione, qualunque essa sia? Potrei aprirgli il petto seduta stante e far schizzare il sangue su tutti i muri, ma lui non batterebbe ciglio comunque!
Mi fa... imbestialire.

«Vorrei ammazzarti... Io non so se esiste un limite all'odio, ma se dovessi esprimere quello che provo io nei tuoi confronti, credo che non ne sarei capace!», gli urlo in faccia, mentre sento le mie guance andare in fiamme.

Forse la mia stretta attorno al suo collo così delicato al tatto si intensifica troppo, fatto sta che le sue piccole mani si posano sulle mie senza opporre resistenza. Ma stanno lì, congelandomele con quel leggero tocco. Non è un contatto voluto, nemmeno sentito, ma c'è.

«Se mi odi così tanto... perché non riesci a starmi lontano?».

È come un fulmine, come una scarica elettrica che parte dalle mie mani e mi invade tutto il corpo. Mi schianta, mi annienta. Non posso più reggere il contatto con lui: lo lascio andare, come se mi fossi appena reso conto di aver toccato la Morte. Lo osservo accasciarsi a terra, i miei occhi sbarrati, vuoti, congelati.
Che... Che diavolo ha detto?
Non sento più le forze, nemmeno l'equilibrio necessario per reggermi in piedi.
Io... dipendente... da... lui.
No. Mai.

Near rialza il volto e mi osserva quasi con una punta di curiosità. «Come puoi inseguire qualcosa che odi?».

È morto.
Una furia assassina mi invade dalla punta dei capelli a quella dei piedi e mi induce a mandare all'aria il suo puzzle e ad afferrarlo per un braccio con violenza, tirandolo di nuovo in piedi, verso di me. Lo voglio uccidere, ma so che non posso farlo... Non lì almeno.
Comincio quasi a correre, non mollandolo mai, costringendolo a star al mio passo e a seguirmi per tutti i corridoi, per tutte le scale, strisciando quasi, urtando ovunque. Non gli do pace finché non arriviamo alla porta che dà sul giardino; a quel punto lo afferro per il colletto della camicia e immergo i miei occhi nei suoi.

«Questa volta, Near, se non sarà qualcun altro a fermarmi, io non lo farò».

Lo getto oltre la soglia, giù per la breve scalinata. Lo vedo rotolare finché non raggiunge l'erba verde e baciata dal sole.
Gli altri ragazzi interrompono subito le loro attività, accorrono per vedere, rimangono pietrificati. Altre volte avevano assistito alle torture inferte a Near da parte dei miei 'scagnozzi', ma mai prima d'ora avevano visto me massacrarlo di botte.
Dovevo punirlo. Dovevo fargliela pagare per quello che aveva osato insinuare.
Scendo la scalinata, lo raggiungo e lo sollevo a forza. La ferita sul suo labbro si è riaperta, sanguina, i vestiti bianchi sono sporchi di terra, d'erba, di sangue... Ma la sua faccia - quella dannatissima faccia d'angelo - non esprime alcuna sofferenza. Forse un po' la sua bocca, piegata in una piccola smorfia.
Stai soffrendo, Near? Ti fa male?
Lo spingo di nuovo a terra, gli mollo un calcio.

«Mello!». Sento la voce di Matt, vedo arrivare Bruce e gli altri e improvvisamente comincio a vedere tutto rosso.

Sto impazzendo.
C'è chi mi incita a continuare, chi osserva paralizzato, chi - come Matt - mi intima di fermarmi. Avverto le sue braccia attorno al mio corpo, nel tentativo di placarmi. Ma non ho pace, o almeno non ne avrò finché non vedrò quel pidocchio frantumato in mille pezzi. Mi libero bruscamente dalla sua presa, mi avvento ancora e ancora su Near. Lui non fa altro che chiudersi a riccio, portandosi le mani alla testa in un misero tentativo di difesa, ma non urla, non geme, non implora pietà.
Perché non lo fa?!

«Basta, Mello! Così è troppo!».

«Con lui non è mai troppo», sibilo fuori di me.

Non riesco a fermarmi, non ci riuscirei nemmeno se lo volessi veramente. Near si è spinto troppo oltre questa volta, ha liberato la bestia che è in me.
Sollevo in aria il pugno chiuso, pronto a colpirlo ancora una volta, ma inaspettatamente lui allontana una mano dalla sua testa e la posa sul mio petto in un tocco leggero, debole.
Mi blocco.
Perché? Che cosa significa?
Si scopre il volto scorticato, pieno di lividi, e mi guarda con gli occhi socchiusi. Non ha forze, non ce la fa più. È quasi... più morto del solito. Ma ha ancora la forza per allungare quella mano e toccarmi. Non mi sta chiedendo di fermarmi, no. Prova pietà per me forse. Forse...
Avvolto in quella bolla isolata da tutti gli altri, la risata inconfondibile di Bruce mi giunge quasi lontana. I miei occhi sono ancora incatenati a quelli di Near, non riesco a non guardarlo. E non riesco nemmeno a sferrargli quel pugno che a poco a poco si sta abbassando da solo.

«Ti aiuto io, capo!».

Una secchiata d'acqua gelida investe Near e alcuni schizzi si infrangono anche sul mio viso. Non realizzo subito. Vedo solo gli occhi di Near chiudersi lentamente e il suo corpo rilassarsi sul terreno. La bolla si infrange.
Rialzo lo sguardo e ritrovo Bruce in piedi al mio fianco, un secchio gocciolante in mano e un sorriso idiota stampato su quella sua faccia grassa e orrenda. Il silenzio cala, pesante, fastidioso. Torno a guardare Near inerme e fradicio, gli occhi chiusi. Privo di sensi.

«Chi diavolo ti ha chiesto di intervenire, razza di idiota?», sibilo irritato.

Il sorriso sul viso di Bruce scompare, e il suo corpo indietreggia un poco, tremando.

«Questa era una questione tra me e lui».

«C-Capo... Volevo solo-».

«Sparisci!».

Lascia cadere il secchio a terra e si allontana con la coda tra le gambe. Inutile montagna di lardo...
Il mio sguardo incrocia per caso quello di Matt, davanti a me. Sembra deluso. È come se mi stesse dicendo: "Questa volta hai esagerato, Mello".

«Fate largo!».

Improvvisamente la massa di ragazzi comincia a disperdersi un po', in modo da permettere a Roger di passare tra loro e di raggiungerci. Qualcuno deve averlo chiamato, o forse ha notato o sentito qualcosa dall'interno dell'orfanotrofio.
Quando i suoi occhi si ritrovano a guardare quel corpo bianco immobile a terra, il suo viso diventa improvvisamente pallido. Si piega su di lui, allunga una mano e accarezza i capelli fradici.

«Near...», mormora con un sospiro.

Alza lo sguardo, guardandomi con tristezza e delusione. È un contatto che dura soltanto un istante, ma è abbastanza per svuotarmi di qualsiasi cosa.
Roger raccoglie Near e lo solleva con le sue vecchie e gracili braccia. Non deve pesare molto, ma gli risulta comunque faticoso. Fa per voltarmi le spalle e andarsene, probabilmente verso l'infermeria, ma non senza prima avermi lanciato un'altra occhiata.

«Da te non me lo sarei mai aspettato, Mello. Pensavo fossi migliore di così». Il tono della sua voce è pacato, ma capace di perforarmi il corpo come tante piccole lame.

Mi sono davvero spinto così oltre questa volta?

«Stasera ti voglio nel mio ufficio».









Non ho mai temuto le autorità, men che meno Roger. Non è certamente la persona più temibile che abbia mai conosciuto, anzi; a volte fatica persino a fingere di essere il capo all'interno di questa struttura. Però sa farmi sentire in colpa anche quando non dovrei. Ha uno strano potere, quello di ammonire semplicemente con lo sguardo. Mi trasmette persino un senso di inquietudine a volte... Forse è per questo che lo rispetto così tanto.
Mentre spalanco lentamente la porta del suo ufficio, sento le sue dita battere sulla tastiera di un computer e ciò mi mette addosso ancora più ansia. Sicuramente Roger ha intenzione di punirmi in qualche modo; non che l'idea di essere punito mi spaventi, ma a volte le sue decisioni non sono poi così... piacevoli. Specialmente per me.

«Vieni pure avanti, Mello».

Entro e richiudo la porta alle mie spalle. Estraggo dalla tasca dei pantaloni la terza confezione di cioccolata del giorno e l'addento nervoso. Roger alza lo sguardo e si aggiusta gli occhiali sul naso.
Iniziamo pure.

«Mello... non ti chiederò di darmi una spiegazione per quel che è successo oggi, perché so già da tempo che fra te e Near non c'è mai stato... rispetto? O almeno da parte tua...».

Sbuffo una risatina, riavvolgendo la cioccolata nella carta stagnola e rimettendola in tasca.

«Però il tuo gesto non è comunque giustificabile».

«Mi ha provocato».

Lo vedo inarcare leggermente un sopracciglio. «Near?».

Probabilmente non mi crede e mai lo farà. In fondo è difficile pensare che Near, per com'è fatto, possa anche solo pensare di 'provocare' apertamente qualcuno. Ma per me la sua insinuazione è stata peggio di una provocazione. Ha praticamente affermato che io sono dipendente da lui. Mai offesa più grande mi è stata fatta.
Ovviamente non lo dirò a Roger. Sarebbe un'ulteriore umiliazione.

Dopo pochi istanti di silenzio, lo sento sospirare sconsolato. «Gli hai incrinato due costole, Mello. Per non parlare del resto...».

Deglutisco nervosamente. Per quanto possa farmi piacere sapere che ora Near prova un qualche tipo di dolore, seppure fisico, questa volta mi sono messo veramente nella merda. Le conseguenze non saranno piacevoli.
Forse Roger si aspetta delle scuse, ma non ho intenzione di piegarmi a tale bassezza. Quindi lascio che il silenzio cali ancora fra noi, finché lui non si decide a parlare di nuovo.

«Potevo sopportare la vostra rivalità quando si trattava soltanto di decidere chi fosse lo studente migliore fra voi due, ma questo è troppo, Mello. Non hai idea di che cosa significhi la parola 'rispetto'».

«Nemmeno lui lo sa!», sbotto furioso.

Se me la prendo tanto con lui, un motivo c'è: quel pidocchio in un modo o nell'altro riesce sempre a farmi perdere le staffe. Se le cerca!

Roger mi scruta per qualche istante, il volto impassibile. Poi finalmente introduce la sua decisione. «Allora forse è arrivato il momento che entrambi lo impariate».

«Che vuoi dire?».

Un brivido mi attraversa la schiena. Sento che non mi piacerà affatto.

«Near avrà bisogno di essere seguito da qualcuno durante la sua guarigione, di essere aiutato. Ovviamente non potrà fare più di tanto per il momento... Voglio che tu, da domani, passi la maggior parte del tuo tempo con lui, momenti di studio compresi, e che ti prenda cura delle ferite che tu stesso gli hai procurato finché non sarà di nuovo autosufficiente».

Spalanco gli occhi, sconvolto. Non può farmi questo. «No, Roger-».

«Gli unici momenti in cui potrai separarti da lui saranno quelli dedicati al riposo, al pranzo e alla cena e all'igiene personale. I tuoi 'amici' non potranno avvicinarsi a Near, mai, a meno che non siano ben intenzionati ovviamente. Dovrai imparare a convivere e a condividere con lui. Ogni sera controllerò che tutto stia procedendo come mi aspetto che proceda, e se dovessi accorgermi che qualcosa di ciò che ti ho appena detto non viene rispettata... L sarà per te soltanto un lontano ricordo».

Il mio castello di certezze e sicurezze crolla in un batter d'occhio. Non ho via di fuga, sono in trappola. Roger sa perfettamente dove andare a parare per convincermi a fare come vuole lui... Non può privarmi di un sogno che sto rincorrendo da tutta una vita. E non può nemmeno costringermi a passare tutte le mie giornate con una persona che vorrei morta. Non può! Ma come faccio ad oppormi quando in gioco c'è così tanto?
La mia mano si stringe a pugno, fino a conficcarmi le unghie nella carne.
Maledizione!

«Qualcosa da obbiettare, Mello?».

Vorrei esplodere, buttare tutto all'aria, arrabbiarmi... Ma non posso.
Scuoto soltanto la testa, incapace di proferire parola.

Roger annuisce soddisfatto e socchiude gli occhi. «Bene. Puoi andare».

































NdA: Dunque... Che dire? Mi vergogno di aver fatto passare così tanto tempo - un anno e mezzo?! - prima di aggiornare questa fanfiction. Non ho scuse. È stato un lungo periodo in cui un po' di cose sono cambiate, io in primis, e purtroppo la mia ispirazione per qualsiasi cosa è scomparsa. Sarò sincera: mi ero un po' persa. Ho abbandonato tutto ciò che avevo iniziato, non sono più riuscita a concludere un bel niente... Nell'ultimo periodo, però, mi sono un po' ritrovata e la mia voglia di scrivere è tornata finalmente. Ho in mente così tante cose... Mi sembrava giusto ripartire con questa fanfiction, che cercherò d'ora in poi di aggiornare in tempi brevi. Non succederà una seconda volta che passi così tanto tempo tra un capitolo e l'altro. E poi con il prossimo inizierà la parte che più preferisco.
Spero che avrete ancora voglia di seguire questa storia e che il capitolo sia stato di vostro gradimento.
A presto - stavolta sul serio però ;) - !

   
 
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