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Autore: Pleasebemywill    09/06/2013    43 recensioni
Quella che mi ritrovai di fronte non era come la mia vecchia casa. Non era costruita sopra uno spiazzo di sabbia, non sentivo l’odore salino del mare che con una leggera brezza entrava fin dentro casa, non vedevo i surfisti cavalcare le prime alte onde del mattino, messi i piedi a terra non ebbi la scomodità di ritrovarmi le infradito piene di finissima sabbia. Proprio perché forse non avevo nemmeno le infradito, proprio perché forse lì non vedevo nemmeno la sabbia. Lì vedevo solo alti palazzi e case analoghe fra loro: una strada, asfalto, cespugli da decorazione, marciapiedi e quello che poteva sembrare il mare in lontananza in realtà era solo il colore del cielo - solo un po’ più intenso.
Genere: Comico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Charlotte Wilson

Uscii i libri dallo zaino e misi accanto ad essi "La guida dello studente" in alternativa alle dieci pagine dei moduli scolastici che ancora non avevo finito di leggere, mentre entrò un uomo alto, moro e con una camicia blu navy. Non aveva l’aria di un professore, se non avesse avuto il registro di classe tra le mani l'avrei probabilmente scambiato per lo psicologo della scuola, uno di quelli che si vedono nei film, uno di quelli giovani e sensuali. Appoggiò i suoi libri e la valigetta sopra la cattedra, senza sedersi si avvicinò alla prima fila di banchi e in poco tempo il suo fondoschiena toccò la superficie della stessa cattedra, senza permettere che gli occhi vispi delle mie coetanee lo ammirassero ancora. Nessun “Siete preparati oggi?”, nessun “Oggi interrogo, cominciate a ripassare”. Nulla di nulla. Ma qualcosa la fece, oltre a mostrarsi di buon umore davanti alla classe. Gesticolò con le mani facendoci segno di alzarci dalle sedie (anche se ci vollero dei secondi per me per capirlo) e nell’alzarmi dovetti tenermi e sistemarmi la gonna che si era alzata più del dovuto. Scrutai fra le teste davanti a me per capire il motivo del suo ordine, ma anche dopo che tutti si furono alzati io non ero ancora stata capace di capire cosa stessimo per fare. C'era da dire che non avevo poi un'ottima visuale della classe, avevo preso posto in uno degli ultimi banchi (ed era davvero strano che io ne avessi trovato uno vuoto), ma fui sicura di aver visto, dopo secondi di silenzio, lui poggiare una mano nel petto e simulare probabilmente uno schiarimento di voce. Confusa corrugai la fronte, quando lui e tutti quelli che avevo attorno cominciarono ad intonare in coro quello che sembrava un inno.

«I pledge allegiance to the flag of the United States of America and to the Republic…»

E non seppi né come iniziare né come continuare. Non avevo la più pallida idea di cosa stessero recitando, non provai nemmeno a far finta di sillabare - davvero un'incapace. In uno stato di disagio mi bagnai le labbra, me le morsi e persino una mano cominciò a scorticare il braccio opposto. Alcuni se ne accorsero, propriamente quelli accanto a me e la fila appena davanti. Guardavano e si giravano in alternanza sorridendo. Stupidi! E io che stavo perdendo pelle per la vergogna. Abbassai lo sguardo, e solo quando prestai attenzione al mio banco vidi una mano estranea picchiettare sulla superficie in legno. Era una mano femminile, ben curata. Le unghie dipinte e lucide, con dello smalto celeste, ma per la maggior parte mangiate. L’attenzione che avevo prestato alle unghie divenne futile, quando le sue dita rovistarono quello che sembrava "La guida dello studente". Fu rapida nei movimenti, e arrivata alla pagina desiderata picchiettò un’altra volta il banco. Alzai lo sguardo. Aveva i capelli castani, dei boccoli le scendevano lungo la schiena. Mi guardava irritata, non perché fossi stata così stupida nel non dire nemmeno una parola, forse proprio perché non stavo recependo all’istante il suo suggerimento: leggere. Mi si illuminò la mente, quando seguii le ultime parole degli altri ragazzi.

«…for which it stands, one nation, indivisible, with liberty and justice for all.»

“The Pledge of Allegiance” lessi. Sapevo cos’era ma non l’avevo mai recitato, un giuramento di fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti d'America, che forse avrei fatto meglio a memorizzare la sera prima. Nonostante tutto attirai comunque l’attenzione dei miei coetaneii, e non solo, anche quella del professore, che finendo di recitare l’inno mi guardò sorridendo, indicandomi prendendo il registro fra le mani. «L’ultima arrivata, Charlotte Wilson. Australiana vero?»

«S-si» Sibilai, mentre tutta quell’attenzione mi stava mangiando viva. Odiavo essere fissata. Odiavo l’attenzione. L’avevo sempre odiata, fin da piccola, fin dal primo giorno di elementari, quando Tesy McDonalds disse a tutti che io, Charlotte Wilson, avevo i pidocchi. Ovviamente non era vero, ma tutti ci credettero e passai l’anno intero a star da sola, in crisi di pianti e attacchi isterici.

Non successe questo, stavolta. Non avevo i capelli legati in una coda, ma erano così chiari che niente poteva nascondersi in mezzo a quella lunga chioma bionda che non potesse visivamente vedersi, non ricevetti nemmeno altre lusinghe, dopotutto aveva una lezione da affrontare, e non era poi neanche così leggera. Storia non era mai stata di certo una delle mie materie preferite, ma comunque così sopportabile da passare in fretta.

Al suono della campanella per il cambio d'ora seppi che avevo giusto dieci minuti di tempo, per rassettare i libri e inaugare quello che sarebbe stato il mio nuovo armadietto, ma ne erano già passati quattro, non avevo completamente idea di dove si trovasse il mio armadietto. A me toccava il ‘536, piano ‘2. Ruminavo tra i fogli dei moduli per trovare una qualche cartina che mi potesse aiutare, e solo quando ne trovai una sobbalzai in aria, nel sentirmi poggiare una mano nella spalla e vedere un corpo famigliare passarmi accanto.

«Ahi Ahi, Charlotte, stiamo cominciando con il piede sbagliato!» Un'altra volta la stessa ragazza. La ragazza mora con i ricci. Era una ragazza carina. Di solito le ragazze carine non parlano con le nuove arrivate no? Specialmente se quella nuova arrivata non è ancora stata capace di individualizzare il proprio armadietto. «Prima lo zaino, poi la gonna troppo corta e infine il The Pledge of Allegiance»

«Cosa vuoi dire, scusa?» Cercai di chiederle, con il tono più tenero che potessi usare.

«Mai giocare con il fuoco, Charlie.»

Dopotutto non potevo aver idea di chi fosse quella ragazza, né di come si chiamasse, né in quale "gruppo sociale" appartenesse. Una cheerleader, una di quelle studentesse con i voti più alti, una paladina della moda… Cercai solo di non essere scontrosa, ecco. Ma lei continuò a camminare, a superarmi con passo veloce. «Ehh. Se riesci a trovare il tuo armadietto, te lo spiegherò alla seconda ora!» E mi mostrò un sorriso mille denti, uno di quelli belli, che indossati da tipe come lei fanno venire i brividi, e abbassare notevolmente l’autostima: da cinque su dieci a meno zero su dieci. L’avermi lasciata interdetta non avrebbe impedito comunque l’imperterrita ricerca dell’armadietto. Mancavano tre minuti per la lezione della seconda ora. Bene, benissimo. E io non l’avevo ancora trovato. Non ero nemmeno stata capace di applicarmi nell’uso della cartina, perché troppo sottopressione per studiarci sopra.

Avete presente quei turisti con i sandali, i calzini, lo zaino da campeggio sulle spalle, cartina del luogo in mano e occhi folgorati per il disorientamento? Ecco, precisa descrizione di me in quel momento. Non avevo i sandali con i calzini, non avevo lo zaino da campeggio… Ma ero nella confusione più totale. Mi grattai con le dita una tempia, con una spalla reggevo lo zaino e con l’altra mano afferravo saldamente quella benedettissima cartina. Passò poco, che intuii che quel giorno la mia spalla destra doveva sicuramente essere così maledettamente sexy, per la seconda volta sentii la presenza di una mano afferrarmela. Era un tocco più pesante e azzardato, era una vera e propria presa. Quello di prima, della ragazza castana, era solo stato un picchiettio volatile, in confronto. Mi limitai a sobbalzare quando la stessa persona che mi aveva afferrato la spalla mi si era avvicinata di fianco, abbassando lo sguardo verso la cartina che tenevo in mano. Non era una ragazza. E l’avrei potuto capire fin dall’inizio quando il suo braccio muscoloso mi aveva avvolto la nuca e le spalle. Ero sconvolta dall’improvvisa confidenza, alzai lo sguardo per scrutarlo senza però riuscire a vederlo con chiarezza. Aveva i capelli scuri, più corti nei laterali e più lunghi sopra. Non erano estremamente corti, ma nemmeno estremamente lunghi. Un taglio particolare, ma nemmeno troppo originale. Un taglio morbido, ciuffetto arruffato portato su ma naturalmente, senza uso di gel o cere varie. Non erano nè ricci nè troppo lisci. Non era un taglio all’antica, ma nemmeno un taglio troppo alla moda. Era difficile da capire, visto da un’angolazione così scomoda, ma ero stata così concentrata nei suoi capelli che nel frattempo non mi ero accorta che con la stessa mano che mi aveva afferrato la spalla, reggeva con l’indice e il medio un mozzicone di sigaretta ancora acceso. Stava lentamente scrollando la cenere in eccesso, picchiettando la parte inferiore con il pollice. Proprio accanto alla mia spalla, al mio braccio. L’ossessiva maniacalità di mamma sull’uso scorretto del fumo e della cenere mi stava divorando.

«Armadietto ‘536.» Affermò curiosando sul foglio e violando crudamente la così detta “privacy”. Abbassò poi rapidamente il tono di voce, cominciando a fare un calcolo veloce, applicandosi. «Cinque più tre più sei... uguale quattordici.» E poi sbuffò sorridendo. Potevo giurare di avere le parole da dire sulla punta della lingua, ero davvero pronta a dire qualcosa, qualsiasi cosa. Ma non mi uscii nulla, e per di più il mio viso non aveva arrestato quella stupidissima espressione da cretina. Dopo poco per fortuna allontanò se stesso e la sua lercia sigaretta da me e dal mio naso. L’odore classico di tabacco mi faceva rivoltare lo stomaco.

«Lucas! Quattordici, pari! È tutta tua!» Urlò frettolosamente, con la briga di andarsene e di proseguire il suo percorso, mentre si voltava per richiamare un ragazzo biondo che distava da noi pochi metri.

«Dai smettila!» Rispose con lo stesso tono e con un mezzo sorriso sulle labbra, come da non prendere sul serio. Pari? Della sigaretta si era per caso aspirato su per il naso tutto il filtro?

«Che cosa!?» Reclamai interdetta ed irritata.

«Sono dannatamente attratto dai numeri dispari. Mi spiace!» Il ragazzo dai capelli scuri racchiuse tutta la sua espressione in un ghigno, per poi voltarsi e salutare con un cenno il ragazzo dietro. Non mi aveva nemmeno guardata in viso. Non che io lo avessi fatto, perché un possibile contatto visivo avrebbe azzerato tutte le mie possibilità di autodifesa.

Ma cos’è questa? La sfiga della “nuova arrivata”? Tutti i tizi che non conosci ti sputano cose addosso? A stordirmi, più di quanto già non lo fossi, fu lo stritolio acuto della campanella. Frustrata con me stessa e costretta a raggiungere la classe di Biologia con ancora lo zaino sulle spalle, fui prima fermata nuovamente. «Scusalo, davvero.» Riconobbi il tizio biondo che aveva completato il triangolo della situazione.

Non prestai molta attenzione a ciò che disse, perché nel momento in cui lo guardai mi cedettero le gambe. Era alto, abbronzato e muscoloso. Aveva questi capelli color miele, e dei favolosi occhi color nocciola. Abercrombie aveva firmato un contratto con la Gilbert High School? Non era uno dei ragazzi più belli che avessi mai visto, ma non gli avrei di certo sputato addosso, fermo restando che il contatto visivo era micidiale. Almeno lo era per me, ed era tipico mio in queste situazioni far altro pur di rispondere sanamente o formulare una frase concreta. Posai i fogli dentro lo zaino e afferrai velocemente il mio cellulare, guardandoci l’orario. «Devo andare in classe, è già suonata!» Senza staccare gli occhi da sopra lo schermo del mio cellulare cominciai a prendere qualche passo.

«Hai problemi con l’armadietto?» Insistette seguendomi.

«No.» Risposi senza perder tempo, con l’unico intento di non svelare la “me” incapace.

«Il ‘536 è in fondo al corridoio.» Aggiunse, senza togliermi gli occhi di dosso.

Mi voltai verso il fondo corridoio, pensando a quanto fossi stata sbadata a non averci fatto caso prima. «Sì, lo so.» Rivelai falsamente. Volevo soltanto andare in aula, e scuocermi le guance rosse che mi stavano avvampando. Aumentai il passo, riposando il cellulare nello zaino, tanto non avevo più tempo per posarlo lo zaino. Ma lui stavolta non mi seguì. E fu davvero strano, perché sentii il bisogno di girarmi. Lo feci, infatti. Mi fermai, e ancora rossa in viso, portai dietro l’orecchio una ciocca di capelli. «Scusa. Arrossisco sempre per qualsiasi motivo, non è che abbia voglia di evitare le persone...» L’avevo detto davvero? Richiamai il signore, scongiurandolo di dirmi se la frase appena detta l’avesse sentita solo lui e nessun altro al di fuori, o se l’avessi detto ad alta voce. «Insomma, non ti conosco neanche.» Aggiunsi a distanza di pochi secondi, sorridendo per l’imbarazzo. Mi aspettavo una sua qualche reazione, una sua qualche risposta. Anche se crudele, anche se umiliante. Ma nulla. Ricevetti solo un’occhiata inespressiva, priva di senso.

Scoppiò a ridere. «No, tranquilla. Scusa me. In realtà il tuo armadietto è dall’altra parte dell’edificio.» Non mi ci volle molto a realizzare che l’aveva fatto apposta, che ero stata una stupida ad averci creduto e ad aver tentato di imbrogliare. Non potevo aspettarmi che anche per una sola volta mi riuscisse bene, mentire, ovviamente. Troppo ben educata.

«Mi stai dicendo che… Lo hai fatto apposta?» Domandai retoricamente. Diamine, che cretina.

«Sì. Ero sicurissimo che non l’avessi trovato.» E smise di ridere, lasciando fra le labbra un dolce sorriso. Un dolce sorriso che mi contagiò e mi fece ridere. Così senza senso. Perfetto sconosciuto. Risi mentre lui mi fissava ancora. «Che materia hai ora?»

«Biologia, credo»

«Perfetto. Il signor Morelli di Biologia entra sempre in ritardo, te lo garantisco. Fatti accompagnare all’armadietto per posare lo zaino.» Ma cosa avevano tutti contro lo zaino? Era pratico da portare in aula. Ci mettevo dentro tutti i libri. Prima la ragazza castana, poi lui. Nel giro di pochi secondi si era presa una confidenza tale da propormi di accompagnarmi a quella destinazione che, poco prima da sola, non ero riuscita a raggiungere.

In Australia non mi era mai successo. Di solito i tipi così neanche mi si filavano, un sorriso e passava tutto quanto. «Tu? Mi accompagneresti tu?» Azzardai.

«Sì. Ho già fatto colazione, non ti mangio.» Chiamarsi sarcasmo. Battuta già detta, già sentita. Ma non potetti fare a meno di mostrargli almeno un sorriso per lo sforzo.

«Non sarà mica qualcosa sui numeri pari?» Schernii, senza averne capito ancora il significato.

«No l’ho già detto, scusalo è un coglione.» E ricominciò a ridere. Solo che io non stavo ridendo. Gli avevo chiesto esplicitamente di approfondire la questione, non di dirmi quanto fosse coglione o meno il suo amico- se sempre lo era. Cominciò a camminare e io lo seguì, cercando di non stargli ne troppo dietro, ne troppo avanti. Ma nemmeno troppo vicina. Ero un po’ incasinata con le scarpe. La divisa richiedeva questi tacchetti innocentemente rivoltanti. Ma almeno riuscii a seguirlo per tutto il tragitto senza prendere storte o inciampare qua e la. Era la prima volta che mi capitava, ad essere scortata intendo. E se poi venivo scortata da un tizio come lui, beh tanto meglio. La divisa che indossava non era uguale a quella degli altri ragazzi, che vedevo passarmi accanto con una faccia demolita da prima mattina. Prima di tutto i pantaloni erano più scuri, le scarpe pulitissime, quanto il giaccone che indossava. Aveva un numero, tredici. Posto sulla schiena, con il cognome appena un po' più sopra. Era rossa, rossa e bianca. E fu palese da capire: era un giocatore, era uno sportivo. E se il corpo non mi aveva ancora suggerito nulla, fu una toppa a destra della giacca, una toppa a forma di palla marroncina a suggerirmi che sì, faceva parte della squadra di rugby della scuola.

“Chissà quanti anni ha” mi domandai. «Oh cielo Charlie, smettila. Va al tuo armadietto e chiudila qui. Non fantasticare.»

Potetti confermare che il mio armadietto era davvero dall’altra parte dell’edificio. Era di un color rosso lucido, come tutti gli altri del resto. Senza l’aiuto del biondo non sarei stata capace di trovarlo entro la giornata. «E’ questo qui.»

Freddamente mi avvicinai all’armadietto. «Vedo, grazie.»

«Mm… Sai la combinazione?» Domandò, mentre si mise una mano dietro la nuca.

«Sì» Invitandolo con lo sguardo a non guardare, perché la stavo per l’appunto inserendo.

«Sì, scusa! Allora io.. io vado.»

«Ok.» Mi stavo comportando d'un tratto in maniera fredda, e ne ero cosciente. Ma ero troppo stressata per badare 'all’immagine'.

«Ciao!?» Reclamò, successivamente.

«Sì, ciao!» E arrossii distrattamente. Non volevo nemmeno essere maleducata, ma non avevo mai preso un ritardo e non l’avrei di certo preso ora, il primo giorno di scuola. Indipendentemente da quanto lui fosse carino. Mi fece un cenno e poi seguirono giusto alcuni suoi passi, la mano dalla nuca passò ai capelli. Se li stava decisamente stressando. Mentre provavo ad aprire l’armadietto, l’osservavo andarsene. Poi si girò di scatto, e io fui costretta a fare lo stesso, ma verso l’armadietto, senza che pensasse che fino a  secondi prima lo stavo fissando.

«Ah. Comunque piacere, Lucas. Lucas Sanders!» Si riavvicinò a me, porgendomi la mano.

Ah! Beccato! Era un trucchetto già visto e me lo aveva insegnato Juno. Secondo le sue perle di saggezza, o almeno, secondo le perle di saggezza di un articolo del giornale di gossip Seventeen, lui voleva solo sapere il mio nome, e siccome questa faccenda dei numeri pari-dispari non mi convinceva. «Piacere, piacere Lucas Sanders.» Risposi. Fu proprio in quel momento che con l’altra mano riuscii ad aprire l’anta dell’armadietto. Ci misi dentro lo zaino, lasciando l’occorrente per Biologia nella mano libera. Richiusi l’anta, ingoiai la saliva che mi si era formata dal nervoso e mi inumidii le labbra, aggiungendo di gusto un sorriso prima di sorpassarlo, mentre mi tenevo i suoi occhi interdetti posati addosso.

«Tutta questa audacia Charlie?»






   
 
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