Ogni storia ha il suo tempo e
ogni tempo la sua storia.
La guerra era stata la
fine delle paure e l’inizio delle speranze. Le aveva viste germogliare sul
campo di battaglia, tra i fuochi e le esplosioni, in mezzo alle morti, alle
promesse e alle parole d’addio. Erano cresciute, sempre più alte e forti, fino
a diventare qualcosa di non sradicabile, come in passato lo era stato il dubbio.
Hinata aveva creduto in quelle speranze, vi aveva riposto se stessa.
Poi il Villaggio aveva
ricominciato a crescere e mano a mano che Konoha si riprendeva, ritornava ad
essere se stessa e cento, mille volte più grande, allora e solo allora Hinata
aveva aperto gli occhi e delle sue belle speranze non erano rimaste che cenere
e radici bruciate.
Era stato il giorno in cui Naruto
aveva sposato Sakura.
Inaspettato
Nessuno avrebbe saputo dirlo con
certezza, nessuno avrebbe saputo spiegarlo. Erano fatti, no, sentimenti che
erano stati sotto gli occhi di tutti per anni: sicuri e palpabili. Erano certezze,
qualcosa su cui molti avrebbero scommesso la vita, avrebbero messo una mano sul
fuoco.
Sakura Haruno che inseguiva
Sasuke Uchiha. Hinata Hyuuga appostata dietro un albero ad osservare Naruto
Uzumaki che si allenava.
Erano state scene ricorrenti,
diventate abitudini e routine. Non erano state immagini isolate, ma una trafila
di immagini, una collezione di episodi di quel tipo. Sempre uguali, come la
filiera di perle di un rosario.
Mai osare illudere il Villaggio,
mai. Eppure era successo.
E quando Tsunade, ancora giovane,
anche se per poco, aveva legato il nastro di seta attorno alle mani unite degli
sposi, quando Naruto Uzumaki aveva sollevato il velo fitto del copricapo della
sposa, quelli della moglie erano stati occhi verdi e non bianchi, non gli occhi
che tutti si sarebbero aspettati di vedere.
Allora erano stati altri occhi,
gli occhi traditi, gli occhi di chi era stato lasciato indietro, che il
Villaggio era andato a cercare. Senza trovarli.
Perché non c’era tradimento negli
occhi di Sasuke, occhi ciechi per anni e quelli dell’altra, della Hyuuga, non
c’erano e basta.
Sakura sorrideva al suo sposo, lo
baciava nella pioggia di petali che i ninja lanciavano dai tetti dei palazzi
limitrofi. Rideva mentre scendeva di corsa le gradinate sui sandali troppo alti
e scomodi, rischiando di ruzzolare giù per colpa delle stoffe ingombranti dell’abito.
Rideva ancora quando Naruto l’aveva presa in braccio e se l’era portata via su
quel suo rospo gigante, scomparendo all’orizzonte nel tramonto dipinto
d’arancio. Quella risata dal sapore antico come i ricordi, ma non altrettanto
amara, aveva dissipato in parte la nube di sospetto su quel matrimonio frettoloso, caduto tra
capo e collo da un giorno all’altro e a poca distanza dall’imminente nomina del
nuovo Hokage. Aveva dissipato i pettegolezzi, ma non il chiacchiericcio, perché
era una storia, oscura per certi versi, inaspettata sotto tutti gli altri, e le
storie vanno raccontate, rendono lo scorrere del tempo più pietoso e… sì, se
era una storia d’amore la storia che inaugurava quel tempo, allora davvero si
prospettavano anni di pace, lunga e prosperosa.
Ogni tempo ha la sua storia e
ogni storia ha il suo tempo.
La loro era appena cominciata.
Hinata non avrebbe saputo dirlo
con parole chiare, esprimere la sorpresa che lei stessa provava ancora a
distanza di anni. Inaspettata, certo. Lo era stata l’intera faccenda.
Confusamente ricordava lo
sgomento provato quando aveva cominciato ad incontrare Sasuke sempre più
spesso, ad incappare in lui e ogni volta come se ci fosse qualcosa di
premeditato, di stabilito. Hinata però non aveva creduto nel caso o nei segni,
non più. Se n’era fatta semplicemente una ragione e ad ogni loro incontro era
andata avanti per la sua strada.
Sapeva cosa dicessero le persone,
cosa pensassero. Che fosse diventata una statua di ghiaccio e di sale. Che solo
le lacrime riuscissero a scalfire il suo cuore di pietra. Per una volta, per la
prima, davvero non le era importato. Per anni era stata terrorizzata da quello
che la gente pensava di lei. Terrorizzata dagli sguardi degli estranei, da ciò
che lingue e menti potevano costruire attorno a un gesto, a una parola,
distorcendoli.
Quando la paura, da remota e
possibile, si era concretizzata in realtà, quando davvero gli sguardi e le
parole, la curiosità morbosa e assillante di tutti le si era accanita contro,
Hinata aveva riscoperto un’energia insospettata. Non era scappata né si era
rintanata.
Una volta diventata reale, la
paura assumeva forme concrete, tangibili. Diventava enorme, quasi un gigante,
ma finalmente poteva affrontarla, toccarla, vederla. Non era più un fantasma o
un’ombra, ma una marea agitata di volti e mani e sorrisi e occhi e nasi e
bocche.
A quei volti lei poteva mostrare
il suo, a quelle mani poteva tendere le sue, a quei sorrisi poteva rispondere
con il suo meno ritroso, a quegli occhi invadenti poteva mostrare i suoi
asciutti e determinati, a quei nasi lunghi e impiccioni poteva mostrare il suo
discreto, a quelle bocche poteva parlare per sbugiardarle e replicare a tono,
con voce gentile e irremovibile.
Nella paura, una volta di più,
Hinata riscopriva il coraggio, latente ma presente, piccolo e non sgargiante
come quello d’altri, eppure di uguale efficacia.
Nella folla di visi c’era stato
anche il suo, quello di Sasuke. Difficile da convincere, difficile da
sopportare.
Hinata all’inizio gli aveva attribuito
ogni colpa. Se lui non fosse stato com’era, se si fosse comportato in maniera
diversa, se e se, tanti e semplicemente troppi. In quel gigantesco ammasso di
se c’era quello più grande, quello che la riguardava da vicino.
E se io fossi stata diversa?
Così aveva smesso. Aveva
sotterrato l’ascia di guerra e la caccia al colpevole era finita. Di colpe in
fondo ce n’erano fin troppe, ma di colpevoli a cui addossarle nessuno.
Quando Sasuke aveva chiesto a Hiashi Hyuuga il permesso di unire le due casate, gli era stato risposto chiedendo del
tempo per riflettere. Era stata un’offesa gratuita, ma Sasuke Uchiha non aveva
obiettato. Con la faccia tosta che lo contraddistingueva aveva replicato che
gli sembrava una richiesta quanto mai prudente. L’educazione della risposta
quando l’unico intento era stato appunto quello di ferirlo, era stata di per sé
un’insolenza. Giorni o forse settimane dopo, suo padre aveva risposto che non
aveva nulla in contrario alla proposta avanzata, a patto che venisse lasciato al
futuro sposo il compito gravoso di convincere l’erede a maritarlo. L’erede. Hinata e non Hanabi. Hanabi che
frequentava quel ragazzino appariscente e strepitante, nipote di Hokage e amico
di Hokage e allievo di Hokage, figlio della Foglia e un giorno erede forse,
Konohamaru.
Non Hanabi che era fuoco e
scintille, fiore di fuoco, ma Hinata che avrebbe dovuto essere un raggio di
sole e spezzare le catene dell’ignoranza, bruciare l’oscurità e scacciare il
passato con un futuro splendente. Hinata dal cuore spezzato e dagli
occhi asciutti, Hinata veloce come vento e che era arrivata ad odiarlo il
vento, ad odiare il prezzo del vento, il sapore del vento, ciò che il vento
serviva a riportarle alla mente, quanto aveva perso.
Hinata aveva rifiutato. Non una e
neppure due o tre o cinque o dieci volte. Non aveva semplicemente rifiutato la
sua proposta, aveva rifiutato lui. Sasuke non aveva insistito. Era orgoglioso,
peccava di superbia ed era ancora cieco, anche se credeva il contrario.
Così, mentre lei proseguiva nella
sua lotta alla paura, lui proseguiva nella sua lotta al potere, a quello che
voleva far passare per sogno. Ma il potere non era un sogno e il sogno non era
un potere. Questo Hinata l’aveva imparato a sue spese. Quando lui si
ripresentava, lei non lo scacciava, ma neanche lo accoglieva. Suo padre se ne
compiaceva, sua sorella se ne rallegrava. Hinata non capiva, in fondo neppure
si era sforzata di farlo.
Era stato nell’umiliazione, in
quell’umiliazione che lei conosceva bene, tanto a fondo, che lo aveva
accettato. L’umiliazione dell’insistenza. Era stata l’ostinazione a convincerla
a non commettere lo sbaglio che a lei aveva precluso la felicità, a non cadere
nello stesso errore. Hinata aveva smesso di darlo per scontato e si era fermata
a guardarlo, si era scoperta a studiarlo, senza impedirsi a volte di
confrontarlo con Naruto.
Così diverso. Era stato quel pensiero a imporsi su tanti altri. Un
ragazzo cupo e introverso, fatto più di silenzi che di parole, eppure ambizioso
e forte, ma non di una forza vanagloriosa. Quella di Sasuke era una forza
legittimata, riconosciuta, costruita pezzo per pezzo, giusta quanto quella di
tanti altri e forse di più. La sua forza aveva crepe e ricuciture; era stata ottenuta
malgrado sbagli ed errori, alcuni piccoli e inosservati, altri quasi
imperdonabili, ma che portavano tatuati tutti quello che Sasuke era.
Sasuke era stato un ninja della
Foglia e poi un nukenin, ma prima di questo era stato un sopravissuto e un erede.
Come lei la portava nel cuore, lui la terra bruciata l’aveva avuta attorno per
tutta la vita. Solitudine ricercata, desiderata e infine ottenuta a furia di
secchi no, espressioni d’alterigia, occhiate sprezzanti e un tradimento che i
più sembravano decisi a non perdonargli.
Un giorno Hinata aveva accettato.
Da ragazzina aveva voluto un matrimonio d’amore, da donna aveva scelto quello
d’onore. Hinata aveva dato il suo consenso, ma con delle condizioni. Mesi, una
stagione o due di passeggiate per imparare ad adeguare ognuno il passo a quello
dell’altra, per conoscersi meglio; conversazioni lunghe, dal tramonto all’alba
e dall’alba al tramonto, in cui i due meno loquaci di Konoha avevano rotto le
dighe e parlato, parlato fino ad averne abbastanza di parole e un po’ meno di
pelle e baci.
Un giorno c’era stato un secondo
matrimonio a seguire quel primo imprevedibile e a sconvolgere il Villaggio.
C’era stata una pioggia di petali
di fiori, leggeri nell’aria e pesanti sul viso nudo e sulle guance quando Sasuke
le aveva sollevato il velo. Occhi neri come giaietto, ossidiana, come cielo di
notte quelli dello sposo. Di questo il Villaggio non s’era fatto capace.
Occhi quasi paterni quelli azzurri
dell’Hokage che li aveva sposati, che aveva sovrapposto le mani di entrambi e
pronunciato con aria solenne i giuramenti che loro poi avevano ripetuto. Occhi
che avevano indugiato giusto un attimo nei suoi, prima di permettere a Sasuke
di farle bere il sakè tre volte e poi baciarla. Hinata non aveva riso, né
sorriso. La loro non era una felicità chiassosa, rumorosa. Era qualcosa di
prezioso e intimo.
Inaspettato, come un dono.
Hinata si sistemò l’obi sul
kimono, si ravvivò i capelli sulle tempie, prima di bussare.
Quando Sakura venne ad aprire,
mezza scarmigliata e pallida, non ebbe la prontezza di riflessi per mascherare
la meraviglia. Dopo un’esitazione troppo evidente per passare inosservata, aprì
la porta e la invitò a entrare, ma non le chiese di cambiarsi le scarpe che
erano bagnate per la pioggia e avrebbero inevitabilmente sporcato il pavimento.
Hinata lo fece da sola.
Poco più tardi, davanti a una
tazza di tè che nessuna delle due sembrava propensa a bere, Hinata smise di
guardare Sakura e cominciò a guardarsi attorno. La cucina era confortevole,
abbastanza grande e nuova. Non molto ordinata, ma pulitissima, con
gigantografie calligrafiche e tele di paesaggi d’inchiostro appesi alle pareti.
Opera di Sai, sicuramente. Sakura tracciava
cerchi sul tavolo ad occhi bassi. Era un comportamento così poco da lei e così
tipico di una ragazzina che invece non esisteva più da molto, molto tempo, che
Hinata chiuse gli occhi.
Il tutto aveva una piega
inconcepibile, a tratti ridicola.
- Non vuoi sapere cosa faccio
qui? –
Sakura smise di disegnare anelli
e sollevò la testa. – Non aspetto altro. –
Di fronte a quegli occhi, la
situazione tornò ad avere un senso.
- Sono venuta per convincerti, -
disse Hinata. - Domani ci saranno le votazioni e il voto di un membro del
Consiglio vale molto, specie se è il tuo. -
- Ammesso e non concesso che io
partecipi a quella votazione, cosa ti fa credere che il mio voto sarebbe
favorevole? –
Hinata chiuse le dita attorno
alla tazza, senza serrarle. – Tuo figlio. –
Vide la sofferenza farsi strada,
scavare rughe e ridare vita a un volto stanco e altrimenti vuoto. Non sapeva
cosa si fosse aspettata. Forse rabbia, ma non il nulla. Perché fu quello che
ottenne. Il dolore non la fece rattrappire su stessa, neppure servì a
risvegliarla. Sakura rimase nell’identica posizione dimessa, incurvata. – Mio
marito… - Hinata non ce la fece a nominare Sasuke, non davanti a Sakura che per
anni non aveva avuto che quel nome sulle labbra. Altri tempi. – Lui teme che quell’attacco possa essere letto come
una dichiarazione di guerra. -
- Che lo leggano come gli pare. –
Forse aveva l’aspetto sfatto di troppe notti insonni e troppe preoccupazioni,
ma c’era ancora una tenacia in Sakura, una lama che neppure il tempo riusciva a
vincere o smussare. - Una vita è una vita, una morte è una morte. Niente
riporterà indietro mio figlio. Niente. -
Sakura fissò gli occhi nei suoi con
un lampo cupo e Hinata capì che nessuna parola sarebbe riuscita a convincerla.
E poi Sakura disse: - Un giorno di pace vale mille di guerra. -
Hinata ricordò allora un
pomeriggio di molti anni prima. Lo sguardo che Sasuke le aveva rivolto e le
parole che sfuggivano, le parole…
Si alzò, pronta ad andarsene, ma
c’erano quelle parole a trattenerla, quelle parole che ora più che mai lei
riusciva a comprendere, per la sua famiglia, per quei figli che amava e i
nipoti e gli amici da proteggere. Cose che non era pronta a perdere e lui lo
sapeva perché lo aveva provato, aveva perso tutto, ogni cosa. Un’altra guerra
no, non l’avrebbe sopportata. Non adesso che aveva quello per cui aveva lottato
una vita intera. Neanche per Minato che era stato il primo a cadere, come
allora era toccato a Neiji.
- È esattamente l’opposto, – replicò Hinata. - Un
solo giorno di guerra vale mille di pace. -
Quando rincasò, Sasuke l’accolse con
un sorriso senza calore. Aveva gli abiti spiegazzati e i capelli arruffati, il
viso grigio e affaticato. Lei non doveva essere messa meglio. Hinata sentiva la
stanchezza tirarle le guance, appesantirle le spalle, incendiarle gli occhi.
- Com’è andata? –
Hinata non rispose, si limitò a
scuotere la testa.
Sasuke si passò una mano sugli
occhi. Sembrava frustrato oltre che esausto. Di solito, in tutti quegli anni,
di ritorno dai Consigli era stato spesso esasperato, irritato o innervosito, ma
mai preoccupato.
Hinata cominciò a sciogliere il
nodo dell’obi dietro la schiena.
– Davvero credi che sarà guerra?
– domandò. Sentiva le dita impacciate, intorpidite. Sasuke le venne in
soccorso. Sciolse l’annodatura con uno strattone. - Non ti avrei mandato da
Sakura altrimenti. -
- Oggi ci ho pensato, - cominciò
Hinata. - Se fosse successo a noi, se fosse stato nostro figlio ad essere preso
in ostaggio e … -
- Non è quello che è successo. –
Hinata non si voltò. Abbassò la
voce di un tono. - È tanto mostruoso che di questo sia grata? Poco fa tutto
quello che pensavo guardandola era che grazie a dio non era toccato a me. –
Le mani di Sasuke erano sui suoi
gomiti e Hinata avrebbe voluto appoggiarsi al marito. Non lo fece.
- Cosa ti aspetti da me? Che ti
dica che sei orribile? Che è stato un pensiero atroce? Lo è stato. – La voce di
lui era impietosa, inesorabile. – Ma mentirei se ti dicessi che da quando è
successo anch’io non ci ho pensato almeno una volta ogni giorno. -
Hinata gli si addossò con un
sospiro. Sasuke le passò le braccia attorno ai fianchi. – Naruto non lo
permetterà. –
Hinata non sussultò, ma qualcosa
dentro di lei si ribellò e lo fece.
C’erano parole e nomi che non
pronunciavano liberamente. Quelli delle loro famiglie erano diventati i nomi
dei loro figli e pronunciarli con un amore ogni giorno più grande e nuovo era
sembrato l’unico modo per allontanare il vecchio dolore e passare con un colpo
di spugna altro colore su una tela piena di china.
Hinata aveva amato Naruto, non
nello stesso modo in cui amava Sasuke adesso, comunque altrettanto
profondamente. Hinata aveva anche odiato Naruto.
Naruto l’aveva illusa, non
deliberatamente forse, ma l’aveva fatto e Hinata che si era amata amando Naruto
si anche era odiata odiando Naruto. Era stato un percorso lungo e difficile, ma
amarsi di nuovo e non in misura dell’amore per qualcun altro, aveva occupato
gran parte della sua adolescenza. Ora non odiava più Naruto, ma c’era un
fastidio sottile, sottopelle qualvolta, un principio di emicrania o nausea, che
serviva a ricordarle che neppure il tempo certe ferite poteva curarle o
risanarle del tutto. Non restava che insabbiarle allora, specie se erano ferite
dell’orgoglio. E Hinata aveva scoperto di possederlo.
Il rispetto con cui Sasuke
accolse il suo silenzio le diede una stretta al cuore. Era un uomo severo ed
esigente, ma aveva in considerazione i sentimenti di chiunque più dei suoi. Era
attento e premuroso e affettuoso quando voleva e lei lo amava tanto quanto in
passato aveva amato un ragazzo dalla risata esuberante e un arcobaleno di
possibilità nello sguardo.
- Non dimenticare che è anche suo
figlio. -
- Naruto è l’Hokage. Sa cosa
potrebbe scatenare e agisce di conseguenza. –
- Solo perché ci sei tu a
consigliarlo. - Hinata gli sfiorò la mandibola e represse un sorriso. Doveva essere
stata davvero una lunga giornata se Sasuke non aveva avuto neppure il tempo di
farsi la barba.
- Non sono pronto per una guerra,
– ammise lui serrando gli occhi. Hinata accettò quella confessione, non senza
turbamento. Si girò nel suo abbraccio per fronteggiarlo - Nessuno lo è, –
replicò gentilmente. Gli tirò indietro i capelli per scostarglieli dalla fronte.
Sasuke riaprì gli occhi e li fissò nei suoi.
- Allora io lo sono meno di
chiunque altro. –
Hinata intuì cosa lo
preoccupasse. - Troveremo una soluzione. Deve esserci. La guerra… –
- Potrebbe essere inevitabile. -
Allora scappiamo! Avrebbe voluto dirlo, ma la voce le morì in gola.
- Non possiamo scappare. – Sasuke
doveva averglielo letto nello sguardo. – Te ne pentiresti. -
- Mi pentirei se dovesse capitare
qualcosa a te. –
Inaspettatamente, Sasuke rise. Non
era una risata priva di amarezza, ma aveva anche una sua leggerezza. Una
serenità che aveva avuto un costo preciso. - Parliamo di guerra, ma a conti
fatti perché dovrebbe scoppiare? –
Hinata sorrise a propria volta. -
Siamo previdenti. -
- Forse troppo. Non facciamoci
travolgere dagli eventi per il momento. –
Non fasciamoci la testa prima che sia rotta. Hinata annuì e quando
lui sciolse l’abbraccio, riprese a spogliarsi, ma l’inquietudine la riassalì
non appena Sasuke uscì dalla stanza per andare a salutare i bambini. Le sembrò
di non riuscire a respirare.
Quella notte, Hinata riscoprì la
paura. Era una vecchia compagna, nemica agguerrita e spesso si era
riaffacciata, mai così feroce e affilata. Le sembrava di avere un mostro che la
squarciava dall’interno con artigli lunghi come kunai. Si rigirò nel letto, ma
smise, temendo di svegliare Sasuke. Allora si alzò. I piedi la guidavano nei
corridoi familiari e quando si accorse di dove la conducevano, era troppo tardi per
tornare indietro. Erano le stanze dei bambini.
Mancavano ancora molte ore
all’alba e la casa era immersa nell’oscurità. Le imposte erano chiuse o
avrebbero dovuto. Itachi come al solito aveva lasciato aperta la finestra. Hinata
fece per chiuderla, ma ci ripensò. La luna immetteva gore di luce sul pavimento
di legno e sulle pareti, rendeva le sagome dei mobili e dei soprammobili
precise, non contorte come altrimenti sarebbero state al buio.
In quella luce i suoi figli erano
bianchi come carta di riso, i capelli nerissimi contro le federe dei futon.
Sembravano un sogno, di quelli da cui ci si risveglia piangendo per la
sofferenza di averli perduti, per la paura di dimenticarli.
Si strinse le braccia al petto e
si prese i gomiti con forza. Avrebbe voluto abbracciarli, ma avrebbe corso il
rischio di svegliarli, così si limitò a guardarli.
C’era Itachi, maldestro e fin
troppo alto per la sua età; c’era Mikoto, paffuta, spigliata e allegra; Heiji
che era stato l’unico dei suoi figli a ereditare i suoi occhi, determinato e
scontroso; e poi Hinagiku, riservata e timida, con grandi occhi neri nel
visetto minuto. Tutti piccoli i suoi figli: dieci, otto, sei e quattro anni. Pochi
mesi prima aveva desiderato un altro figlio, ma ora, nella penombra calante
della stanza, nelle ombre che si allungavano sui muri e nel silenzio rotto dai
respiri tranquilli, la paura irrazionale che provava era tale che temette di
impazzire.
E temette di impazzire
definitivamente e di averne ogni motivo quando un kunai si conficcò nel
pavimento, a poca distanza dalla finestra aperta. Poi si accorse del biglietto
legato all’impugnatura e il sangue smise di pulsarle nelle orecchie. Lo lesse.
Solo due parole. Sul tetto.
Non riconobbe la scrittura, ma
contro ogni buon senso, salì ugualmente.
Sakura era di spalle e, a
giudicare dall’abbigliamento, come lei pensieri agitati le avevano impedito di
dormire.
- Hai dei bei bambini. -
- Grazie. –
Sakura annuì assorta, tra le dita
stringeva convulsamente qualcosa. Era un pezzo di stoffa. Quando Hinata capì
cosa fosse, sentì un nodo alla gola. Era un coprifronte e non era difficile
intuire a chi appartenesse. - Anche mio figlio lo era, - la sentì proseguire, -
un bel bambino. Sono tutti bei bambini, ma poi crescono e cosa? Per una madre
quando smettono di essere bambini? Quand’è che mio figlio ha smesso di essere
il mio bambino? -
A quello Hinata non aveva
risposta, ma provò lo stesso a trovargliela. – Quando è diventato un chunin. –
Sakura la guardò con attenzione e
sembrò che fosse qualcosa che non faceva da molto quella di guardare qualcuno
negli occhi, nel presente che non era solo pensare a Minato, a ciò che aveva
perso. – Già. Forse è stato allora. – Crollò la testa in avanti, abbracciando
il coprifronte come se si fosse trattato di suo figlio, ma era un coprifronte,
solo un coprifronte e la scena era straziante.
- Era tempo di pace. Siamo in
tempo di pace. Così dicevano tutti. Perché avrei dovuto impedirglielo? Come?
Era così felice quando ha ricevuto questo, così felice… -
Hinata avrebbe voluto dirle tante
cose. Alla fine tutto quello che le uscì fu la sola che fosse importante: - Mi
dispiace. -
Sakura aveva gli occhi infossati,
ma asciutti. – Lo dicono in molti. –
- Forse, - convenne Hinata, - ma
pochi sono sinceri come me. -
Sakura fece qualche passo verso
di lei. Le tegole erano umide e scricchiolarono sotto i sandali. – Ho riflettuto
su quello che mi hai detto. Una cosa è certa: voglio
giustizia per la mia famiglia. –
Hinata trasalì, ma Sakura non parve
accorgersene o darvi peso.
- Una guerra non mi darà indietro
mio figlio, non me lo restituirà. Mi darebbe soddisfazione? Forse. Ma quante
altre madri priverei dei loro figli? Madri innocenti, bambini innocenti. Anche
Minato lo era e nessuno merita un dolore come il mio. Domani il mio voto sarà a
sfavore. Se hai ragione, questo dovrebbe bastare. –
- Ti ringrazio. -
Hinata le restituì il kunai e
Sakura lo infilò sotto alla suola dei sandali, in uno scomparto segreto. Le
diede le spalle e fece per andarsene, ma in ultimo qualcosa le ancorò i piedi
un attimo prima del salto. - Dì la verità, Hinata, mi odi? Forse non oggi, ma
in passato… - Sakura trasse un sospiro. - A volte credo di averti fatto un
grave torto. –
La verità poteva far male, Hinata
lo sapeva e qualsiasi cosa potesse aver fatto in passato, vera o immaginata che
fosse, Sakura aveva sofferto fin troppo. Un dolore che lei non avrebbe dovuto
sopportare, almeno per il momento, grazie a lei. – Non è te che ho odiato. –
Sakura fece un cenno secco e le
scoccò un’occhiata in tralice. C’era gratitudine? Riconoscenza?
Hinata non riuscì a capirlo. La
vide allontanarsi e poi scomparire, un salto dopo l’altro sui tetti dei palazzi.
Poco più di un’ombra silenziosa nell’alba ancora lontana.
Rientrando, trovò Sasuke nella
camera dei bambini. Li osservava da un angolo e aveva un’espressione singolare,
tra il concentrato e l’accigliato, che non seppe definire. Mikoto si mosse nel
sonno e diede una gomitata a Heiji che placidamente si voltò sul fianco. A
quella scena Sasuke sorrise e Hinata riconobbe l’orgoglio.
Non era l’orgoglio che portava a
sforzarsi ogni giorno per essere il migliore, ma quello che faceva sperare di
essere migliori, per se stessi e soprattutto per le persone amate. Non era un
orgoglio distruttore o vendicativo, ma produttivo, perfino positivo.
Hinata si avvicinò. Avrebbe
voluto chiedergli cosa l’avesse portato fuori dal letto, ma la risposta l’aveva
già.
[- Ti è capitato mai? – aveva chiesto anni e anni addietro, una vita fa.
- Quando la realtà assume contorni da incubo, così irreali che ti sembra di
galleggiare? -
Sasuke, ricordava, non aveva risposto.
Avrebbe voluto dirgli che alcune persone sopportano dolori che nessuno
dovrebbe provare, più grandi di qualsiasi cosa esistente. Avrebbe voluto dirgli
che rappresentava in parte quel che i sentimenti erano: mine vaganti in grado
di spazzar via vite intere, cambiare o distruggere mondi e modi di pensare.
Invece gli aveva preso la mano e non aveva parlato. Quando lui di rimando gliel’aveva
stretta, le era sembrato che avesse capito lo stesso. Era stato allora che
aveva scelto.]
Ora la realtà non aveva contorni
da incubo, ma da sogno.
Hinata gli prese la mano e si
alzò sulle punte per bisbigliargli all’orecchio: - Ti è capitato mai? Quando la
realtà assume contorni da sogno, così irreali che ti sembra di galleggiare? –
Sasuke le scoccò un’occhiata
stupita e Hinata rise. Era stupito del fatto che ricordasse qualcosa che aveva
detto quando non erano neppure fidanzati o che lo avesse capito?
Poi lui le strinse la mano di
rimando e insieme tornarono nella loro camera.
Un giorno di guerra vale mille di
pace, pensò Hinata. Lei i suoi mille giorni di pace aveva smesso di contarli
quando erano iniziati.
N/A:
Ho sempre avuto un debole per
questa coppia e ho sempre desiderato scrivere qualcosa su di loro. Sono
entrambi figli di casate importanti, entrambi hanno dovuto approcciarsi alle
aspettative elevate dei loro padri da quando hanno memoria, entrambi hanno
finito con lo sviluppare un carattere non proprio solare (sì, nel caso di
Sasuke la questione ha a che fare con lo sterminio della famiglia, ma son
dettagli…).
Ci sono ovvie differenze, ma insieme
li immaginavo - e tuttora li immagino - davvero bene.
Non so da cosa sia uscita, non da
un’idea precisa. Per la prima volta ho davvero l’impressione che si sia scritta
da sola. Facendo colazione mi capita spesso di far vagare a caso la mente, per
pensare a parole, scene, situazioni e personaggi. È nata così, quasi dal nulla
e attorno a una parola, una frase. O meglio, a due in particolare. La prima è
“Ogni storia ha il suo tempo” e la seconda è “Un giorno di guerra vale mille di
pace”. Da tempo mi ronzavano nella testa e così prepotentemente, ora col volto
di uno ora con quello di un altro, che averle finalmente messe su carta è una
liberazione.
Non so se i personaggi siano
molto OOC. Immagino che nello scrivere una What if, per di più ambientata dieci
o dodici anni dopo la fine del manga, sia un rischio del gioco, un pericolo che
va corso. Ammetto che mi è molto piaciuto scrivere di Hinata, specie dopo il
più che piacevole cambiamento avvenuto nell’ultimo anno. Hinata non è più la timida
ragazzina che era né un personaggio secondario. Parla liberamente e con
sicurezza, combatte in prima linea, ha il coraggio di esprimere i suoi
desideri, a parole quanto con gesti eroici.
Qui sopra, ma è un mio tratto
distintivo, ho infarcito tutto questo di ombre. Hinata, una volta cresciuta,
apre gli occhi su quel suo primo amore finito con un buco nell’acqua. Rende
giustizia a se stessa e sì, ho praticamente demolito Naruto, poverino xD
Sakura è uscita spettrale e cupa,
ma è una madre che ha perso il figlio. Sono di madri che ho deciso di parlare e
di mogli. E sono ninja, certo, ma questo ruolo di madre e moglie nella prima
guerra non lo aveva sperimentato. Erano kunoichi e guerriere e figlie e
compagne di squadra. Niente di più. Avere una famiglia loro, dei figli è
completamente diverso e ora se ne rendono conto appieno.
Spero che la lettura non sia
stata spiacevole e che per i minuti impiegati nella lettura qualcosa ve ne sia
venuto. Di sicuro avete il mio ringraziamento per avermi dedicato per poco la
vostra attenzione.
Un abbraccio e un grazie :)