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Autore: _ForeverYoung    12/06/2013    2 recensioni
La prima volta che ho incontrato il tuo sguardo, ho capito che c’era qualcosa in te, della quale avevo bisogno.
Poi ho capito, non era qualcosa di te.
Era di te che avevo bisogno.
Londra, Estate 1940.

Amelia incontra ogni sera lo sguardo dello stesso ragazzo, sulla linea verde della Metropolitana, che la riporta a casa. È un soldato, indossa la divisa grigio antracite della Raf, diversa da quella delle truppe, che cuce per tutta la giornata.
Ogni giorno, s’immerge nello sguardo verde chiaro, limpido come le acque del Tamigi, di quell’ufficiale, e l’apocalisse della guerra che esplode dentro di lei, si placa.
Dal testo:
“Mi hai detto di contare fino a sette. Mi hai promesso che poi sarebbe passato tutto quanto.. Adesso ti aspetto, e nell’attesa, inizio a contare.. 1, 2, 3.. supero il sette, e arrivo fino a per sempre.
Ed io ti aspetto, centinaia di migliaia di numeri, non ho ancora smesso. Però ho paura. Fino a per sempre non ci so contare.”
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Liam Payne, Niall Horan, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per Ardua ad Astra


 

 -Capitolo 1-
"Spettri"

 


Portami fino all’ansa del fiume.
Portami fino alla fine della lotta.
Lava via il veleno dalla mia pelle.
Mostrami come essere di nuovo completo.
Fammi volare su un’ala argentata,
oltre l’oscurità, dove cantano le sirene.
Riscaldami sotto l’incandescenza di una supernova;
e fammi scendere sul sogno che c’è sulla superficie.

Perché sono soltanto una crepa, in questo castello di vetro..
Non è rimasto quasi niente da vedere, per te.

 
  
Le acque salmastre del Tamigi sciabordavano impetuose contro gli argini del Cross Bridge.
Amelia fissava le onde irrequiete, le osservava accavallarsi contro le anse spoglie, senza mai distogliere gli occhi cerulei da quell’immensa distesa d’acqua dolce.
Seduta sul bordo della passerella, con le gambe dondolanti a mezz’aria, le piaceva ascoltare in silenzio, per infiniti attimi, l’infrangersi leggero delle onde contro i piloni di mattoni del ponte sotto di lei. Il vento sferzava piano il pelo dell’acqua, sibilando tra gli spruzzi, tra le gocce di schiuma salmastra che si sollevavano appena, per unirsi al fluttuare leggero della brezza estiva londinese.
Aveva la sensazione che il vento cantasse per lei, in quegli istanti sospesi; un sibilo leggero, una canzone malinconica.. L’irruenza delle acque del Tamigi agiva in maniera piuttosto bizzarra su di lei: le piaceva percepire l’acqua dolce sulla pelle, e le piaceva anche il modo in cui il respiro del vento le accarezzava il viso, frustandole le guance rosse.
Amava quella placida quiete, una pace che riusciva a respirare soltanto alle undici di sera, mentre una Londra addormentata si stringeva le lenzuola al petto, pregrando che ciò che la radio, il primo ministro Churchill ed Hitler annunciavano da settimane, non si verificasse mai.

“The Battle of Francei s over. I expect the Battle of Britain is about to begin..”
                                                                                                            Winston Churcill;
Era il 17 Luglio del 1940.
L’Inghilterra era in guerra, e lo era anche il resto del mondo.
Amelia non era spaventata, non come il resto della sua famiglia per lo meno, che una guerra, quella del 1915, l’aveva già affrontata. Aveva solo diciassette anni, si era diplomata a Giugno, con un anno di anticipo, e tutto ciò che sapeva sulla guerra glielo avevano raccontato i libri di storia, e sua nonna Helena, morta ormai diversi anni addietro.
Sua madre era letteralmente terrorizzata, temeva i razionamenti più di qualsiasi altra cosa, ed il governo sembrava ormai prossimo all’emanazione della tessera annonaria.
La guerra durava da quasi un anno, la luftwaffe tedesca continuava a bombardare i transatlantici degli alleati americani, e le provviste inglesi erano scarse; soprattutto quelle di grano, del tutto insufficienti ad approvigionare una cittadina grande come Londra, ed una redistribuzione ad personam, agli occhi del governo appariva senza dubbio la scelta più efficiente.
Qualche giorno prima, mentre percorreva la mill’s end, aveva sentito uno strillone, annunciare che le distribuzioni sarebbero state programatte in base alla composizione del nucleo familiare, e alla tipologia di lavoro svolto: un vero e proprio guaio, dato che la famiglia Dawson era ben lontana dal definirsi benestante, e soltanto il padre Orson lavorava stabilmente, come addetto allo smistamento della corrispondenza allufficio poste e telegrafi; e Mrs Dawson, sua madre, e Georgia, la sorella maggiore, erano probabilmente inadatte a qualsiasi lavoro che comportasse spezzarsi le unghie, o peggio ancora, sudare e sgualcirsi le balze della gonna.
Amelia aveva iniziato a lavoare da poche settimane soltanto, appena diplomata aveva trovato un impiego mal pagato, con orari assurdi e straordinari mai retribuiti, alla Lewi’s, una frabbrica di confezioni, che la guerra e l’aspettativa di alte commesse statali, avevano riconverito alla produzione di uniformi per i soldati.
Era un vecchio stabilimento, la Lewi’s; zeppo di polvere, le vetrate istoriate ridotte in mosaici di crepe, e con l’intonaco che cadeva a pezzi, lasciando intravedere le finiture di mattoncini rossi di terracotta, tipici delle costruzioni pre-industriali. Si trovava da qualche parte nell’East side, ed Amelia era costretta ogni giorno a percorrere l’intera Constantine da sola, a piedi, dalla fermata di Mile End dove l’ultima fermata della linea verde del Tube la lasciava, per giungervi.
E l’East end non era decisamente un buon posto, in cui farsi trovare a passeggiare, popolato a qualsiasi ora del giorno e della notte da prostitute, usurai, ladri o ancor più semplici disperati, che la guerra aveva ridotto in ginocchio, e si erano ritrovati costretti a vivere di truffe ed espedienti.
Ma nonostante il degrado, gli effluvi pestilenziali che corrodevano i sobborghi di quel quartiere dimenticato persino da Dio, l’East side restava l’unica parte della città, ad offrire per quanto misero potesse apparire, una qualche sottospecie di lavoro.
Ad Amelia stava bene, o perlomeno se lo faceva andar bene per forza. C’era la guerra d’altronde, era la giustificazione, e allo stesso tempo la scusa più gettonata da tutto il popolo inglese, in quegli anni.
C’era la guerra, e niente università per Amelia.
C’era la guerra, ed un lavoro umiliante, in una squallida fabbrica vicino a Mile End.
Il terzo altisonante rintocco della London Tower, riscosse Amelia dai pensieri che le affollavano la mente. Abbandonò gli occhi cerulei sulle sponde del Tamigi per l’ultima volta, e accennando la pallida ombreggiatura di un sorriso stanco, si separò dal parapetto, consapevole che avrebbe dovuto camminare per almeno una buona mezzora, lungo tutta la Bermondsey, prima di svoltare all’angolo di Sycamore Court e salire fino al terzo piano, nel piccolo appartamento di appena quattro vani che condivideva con la famiglia.
La testa le girò vorticosamente, tanto che dovette reggersi ad una delle vecchie ringhiere ricoperte di ruggine del Cross bridge, per non cadere riversa al suolo. Le pulsavano le tempie, ed il cuore per lo spavento, ma più che altro a farle male, era lo stomaco. Da mesi ormai si sforzava di vivere perennemente affamata, e capitava sempre più spesso che il suo stesso corpo si ribellasse a quella malsana abitudine.
Ma c’era la guerra, e niente cibo per Amelia.
La ragazza deglutì, e si fece forza; poi riprese a camminare. Le guance sporche di polvere nera, e fine come l’antrace, i lunghi capelli castani raccolti in una treccia scarmigliata, trattenuta appena da un ormai sbiadito nastro di raso rosso. E poi il vestito stropicciato, il vecchio cardigan di cotone grigio incredibilmente pesante da indossare, e gli stivaletti marroni dalle suole consumate da migliaia d’impronte di passi.
Amelia continuò a camminare, accarezzandosi la pancia con la punta delle dita rovinate dalla sua incapacità d’infilare il filo di cotone nell’asola di un ago al primo colpo.
Continuò a camminare, fin quando i lampioni ad olio di una Londra fantasma non risultaro più sufficienti ad indicarle la strada di casa, e la sagoma scura della sua esile figura venne inghiottita dalla notte, non lasciando che la reminescenza di un ombra.
Un pallido spettro, solitario ed affamato, vagante in una città che non riusciva a dormire.
Perchè c’era la guerra.
 
C’era un’insolita quiete alla caserma August Carroll, quella notte.
Piuttosto bizzarro data l’immensità di quella struttura, situata non molto lontano da Kensingthon. Un edificio imponente, dai toni grigi, cupi, quasi grotteschi, solitamente pullulante di grida e schiamazzi di soldati, caporali e ufficiali dei più svarianti ordini e gradi, quel venerdì appariva più spettrale ed angosciante che mai. Forse era colpa del sibilo agghiacciante del vento che penetrava dalle inferriate, e strideva contro i catenacci in ferro battuto degli alti cancelli, che impedivano l’entrata ai civili non autorizzati.
O forse era semplicemente colpa della guerra, che rendeva tutto un po’ più marcio.
Harry, le palpebre serrate a coprirgli le iridi verdi, ed il braccio destro pigramente steso sulle tempie stanche, se ne stava riverso sulla propria branda, senza pensare apparentemente a niente. Indossava ancora i pantaloni grigio antracite della divisa, ed una vecchia canottiera bianca, piuttosto sbiadita; la casacca d’ordinanza e gli stivali li aveva gettati da qualche parte sul pavimento, prima di gettarsi a peso morto, su quello che i suoi superiori si ostinavano a chiamare letto, e sprofondare tra le molle malmesse e cigolanti di quel vecchio materasso ricoperto da una pesante coperta verde militare, sulla quale svettava un etichetta gialla, cucita per ricordargli costantemente a chi appartenesse tutto quello che lo circondava. Alla RAF, o meglio, alla Royal Airforce, quella che secondo sua Maestà Re Giorno, il primo ministro Churchill e gran parte del resto del mondo, si trattava della più potente flotta aerea della storia.
Harry aveva ventuno anni, ed era entrato nella Raf da tre, non appena compiuta la maggiore età, e da semplice caporale, era riuscito in poco tempo, ma con tanto addestramento, a diventare Tenente di squadriglia, poca roba rispetto ai propri pluridecorati superiori, ma quel tanto che bastava a porlo al comando di una piccola batteria di aerei tutta sua, sui cui membri poter mettere il veto.
Harry aveva ventuno anni, era entrato nella Raf da tre, e quella notte, alle dieci e quarantacinque del 17 Luglio 1940, si sentiva più stanco che mai.
Stanco, spossato, disincantato, e quel sovraccarico di emozioni contrastanti non dipendevano affatto dall’aver passato l’intera giornata chiuso in uno degli enormi hangar della caserma a lavorare sulla messa a punto del suo Hurricane.
Era semplicemente stanco.. gli addestramenti massacranti, le continue grida e lamentele dei sergenti di maggiore grado, e poi la pressione della radio, e del governo, sull’imminente arrivo della guerra aerea a premergli contro la nuca, tanto da impedirgli di riposare la notte, ed inguainarlo in incubi devastanti. C’era la guerra, e non ce la faceva più.
Lo dimostravano le pesanti occhiaie che gli adombravano di un’agghiacciante malinconia le iridi chiare, gli aggrovigliati ricci castani che senza speranza, nascondeva sotto al cappello dell’uniforme, e la canottiera sporca di polvere, olio da motori e grasso per ungere le giunture, che non aveva ancora avuto la forza di togliersi.
Si rigirò sulla branda, dando le spalle al resto della camerata, pressochè vuota, dato che quel venerdì avevano concesso a tutti i caporali e tenenti di minor grado la libera uscita, e sbuffò, stropicciando il cuscino, troppo rigido per la sua nuca. Desiderava soltando dormire, per non risvegliarsi mai più.
Era entrato nella Raf con gli occhi di un combattente, colmi d’intraprendenza e speranza, voleva solcare i cieli, Harry. Riempirsi le iridi di mondo, assorbire luci, tramonti e colori di luoghi lontani, fissare un punto all’orizzonte e poi perdercisi dentro, senza meta, senza ritorno. Volare lo faceva stare bene, aveva trovato nel cielo, quello spazio di mondo che per la sua intera esistenza gli era andato troppo stetto, e lassù tra condor e nuvole si sentiva giusto, dannatamente a posto, in un pianeta che sin dalla nascita, l’aveva giudicato sbagliato.
Ma poi un mitomane tedesco, con baffetti neri e capelli unti, aveva ben pensato di peccare d’onnipotenza e giocare ad essere Dio, e aveva trascinato prima l’Europa, e poi l’intero mondo, in una guerra inutile, un insensato spargimento di sangue, che avrebbe per sempre ricordato alle generazioni postume, la malvagità dell’uomo.
La guerra aveva cambiato tutto, persino la libertà di volare. Il cielo che tanto aveva amato, era diventato pieno d’insidie, pericoli, e trappole; le nuvole diventavano cumuli di gas nervino, pronti ad incendiarti i polmoni, e gli uccelli, potenti mitragliatrici squarcia lamiera. Non era più il suo cielo, questo gli faceva paura.
La guerra si era presa davvero tutto, anche la sola cosa che lo facesse sentire a casa.
L’unica casa che avesse mai conosciuto davvero.
Era quasi riuscito nel suo intento, dormire per l’appunto, quando un nauseabondo odore, seguito dal suono di una boccetta che veniva accuratamente ritappata, lo costrinse ad arricciare il naso e coprirselo con la ruvida coperta verde della propria dotazione.
Imprecò sottovoce, spalancando le palpebre terribilmente pesanti, per poi mettere a fuoco il faccione sorridente ed abbronzato di uno dei suoi compagni di camerata. Un compagno prossimo all’impiccagione, secondo l’opinione di Harry.
Il soldato semplice Gustav Flitt era un deficente, condividevano la stanza da più di un anno ormai, e nonostante se la dividessero in almeno in venti, non aveva mai conosciuto un militare così.. fastidioso, petulante e terribilmente attento alla propria igiene personale più di lui. Consumava talmente tanto di quel sapone che Harry era arrivato alla convinzione che se lo mangiasse, per riuscire a lavarsi pure gli organi interni, ed in quel momento puzzava quanto una prostituta di alto retaggio, data la smisurata quantità di colonia che si era gettato addosso.
-Flitt, puzzi come una puttana..-.
Il soldato semplice non si scompose, il tenente Styles era un pur sempre un suo superiore, e comunque poco gli importava, era ben noto a tutta la caserma il caratteraccio di Harry, e la sua.. indisponenza verso.. qualsiasi essere che non avesse un motore ed una fusoliera.
-Grazie tenente. Questa sera non ho intenzione di lasciarmi sfuggire neanche un’infermiera..- ghignò gongolante, sistemandosi il ciuffo moro, perfettamente laccato, -Lei non viene da Francine, stasera?- domandò un attimo dopo, rimirandosi allo specchio vicino l’ingresso della camerata. Aveva il colletto della divisa stropicciato.
Harry storse il naso, di nuovo. Detestava quel locale, era quanto di più simile ad un bordello legalizzato potesse esistere, ma probabilmente l’unico luogo in tutta Londra che non avesse abbassato le serrande, in cui si potesse ancora fare baldoria. Francine, era la proprietaria della bettola in questione, ormai troppo anziana per esser ricercata come prostututa, aveva convertito dei vecchi depositi merci vicino a Bermondsey, in un club popolato da soldati, infermiere e giovani ragazzi pronti a lasciarsi alle spalle lo spettro della guerra, sostituendo la paura con fiumi di alcol di dubbia provenienza, che più di una volta avevano corroso lo stomaco di Harry.
Comunque fosse, non aveva la minima intenzione d’infilarsi gli stivali e camminare fino a Bermondsey, era troppo stanco, e non l’avrebbe fatto neanche per tutte le infermiere del mondo. Per questo arricciò le labbra in una smorfia.
-Non ci penso neanche Flitt..- borbottò infastidito, -Passa una buona serata, e vedi di gettarti nel Tamigi prima di fare ritorno, non ho intenzione di respirare la tua puzza per l’intera nottata- aggiunse, voltandogli le spalle.
Il muscoloso Flitt ridacchiò divertito, credendo si trattasse di una battuta. -Se tutto va per il verso giusto, neanche torno stanotte!- Grugnì compiaciuto, ed Harry storse la punta del naso per la centesima volta. Flitt era davvero un completo deficente.
 
-Flitt è un emerito imbecille!- Sbottò il caporale Niall Horan, entrando a passo di marcia nella spaziosa camerata, per poi richiudere un istante dopo la pesante porta in mogano alle proprie spalle. –Ha appestato tutto il corridoio con quella dannata acqua di colonia scaduta!-.
Harry sorrise divertito, lui non si sbagliava mai, soprattutto quando si trattava d’individuare un deficente.
Niall entrò nel suo campo visivo, gettandosi malamente sulla branda accanto alla sua, e si stese anch’egli sul letto, esalando un sospiro compiaciuto. Harry l’aveva lasciato in mensa che ancora mangiava, più di un’ora fa, e aveva fatto ritorno solo dopo aver compromesso irrimediabilmente le dispense alimentari della Raf.
Il caporale Niall Horan, capelli biondi, occhi incredibilmente azzurri ed uno spiccato accento irlandese, era probabilmente l’unica sorta di amico che Harry avesse là dentro. Si erano incrociati per caso durante i primi addestramenti, poi ognuno aveva ripreso la propria strada, fino a quando si eano ritrovati compagni di camerata, e data la vicinanza e lo spazio esiguo tra un giaciglio e l’altro, anche di branda.
Harry era chiuso, schivo, dall’aria perennemente scocciata, imbronciata, portava addosso un male di vivere che solo la spensieratezza di Niall era riuscito a strappargli via di dosso.
Erano diversi, quei due, agli antipodi, proprio come i loro aerei, Splitfire ed Hurricane, eppure in un modo tutto loro, riuscivano a completarsi, e supplire le mancanze l’uno dell’altro. La verità era che Harry aveva trovato un fratello, lì alla Raf, ma l’orgoglio che portava cucito sul petto, era sempre stato più grande delle parole, e non avrebbe mai avuto il coraggio di confessarlo a Niall.
-Già, stento ancora a credere come diavolo abbia fatto ad entrare nell’esercito..- mugugnò Harry, incredulo.
Niall ridacchiò, pensandoci su, -O meglio, a chi abbia dato il culo..- lo contraddisse.
-Forse a quel pachiderma del Maggiore Scott, questo spiegherebbe senza dubbio la presenza di quel cuscino imbottito sulla poltrona del suo studio.. - ipotizzò allora Harry, scoppiando in una fragorosa risata assieme all’amico caporale.
Perchè Harry era perfettamente in grado di sorridere, ma era un privilegio che riservava a pochi, a quei pochi che ritenesse degni di entrare nella propria vita. E Niall vi era entrato sfondando tutte le porte.
 
-Pensieri, tenente?- esordì d’un tratto Niall, il tono stranamente pacato, leggero. Il caporale Horan era la discrezione fatta persona, e non si sarebbe mai impicciato degli affari di Harry, se non si fosse accorto delle occhiaie pesanti, e dell’aria meditabonda del suo tenente.
Harry si strinse il labbro inferiore tra i denti, era nervoso, e quel familiare gesto lo dimostrava. -No..- Farfugliò veloce, come a voler scacciare quelle supposizioni lontane dalla sua testa. -No..- ripetè ancora, sollevandosi dalla branda, e raccattandogli stivali e giacca dal pavimento. –Esco, ho finito le sigarette- Biascicò secco.
Niall strizzò le palpebre, le iridi cielo più accese che mai, -ma tu detesti fumare!- gli rammentò preoccupato.
Il tenente alzò le spalle, con noncuranza. –Che vuoi farci, è la guerra..- Era la giustificazione che usavano tutti, no?
Il caporale scosse la testa, conosceva la proverbiale caparbietà di Harry, ed impedirgli di fare qualcosa era pressochè.. impossibile, quando se l’era messa in testa.
-Allora ho ragione, quando dico che c’è qualcosa che non va..-.
Harry storse le labbra in una smorfia, troncando il discorso sul nascere. -Sono semplicemente.. stanco. E ho bisogno di fumare-.
Niall ghignò beffardo, -Di la verità, te la fai sotto perchè hai paura che il mio splitfire faccia il culo al tuo hurracane nella prima incursione aerea?-.
Harry imprecò piano, mordendosi le labbra, prima di aprire con un violento scatto la porta, -Nessuno fa il culo al mio Hurricane, Irlandese del cazzo!-.
E poi se la richiuse alle spalle, facendo tremare cardini ed intonaco.
 
Harry inalò a fondo l’aria salmastra, intrisa di pioggia che si levava dal Tamigi; aveva da poco sorpassato il Tower Bridge, e senza neanche renderse conto era arrivato dalla parte di Bermondsey, ma preferiva passeggiare in completa solitudine piuttosto che spingersi fin da Francine.
Dette un ultimo tiro, tossì appena, e poi gettò la cicca sul marciapiede schiacciandola con la punta dello stivale. Quelle sigarette facevano schifo, non si trovava più tabacco decente da mesi ormai, e lui non era abituato a fumare quella robaccia.
Si guardò attorno, anche quel quartiere faceva schifo. Non che lui avesse mai vissuto dalle parti di Buckingam Palace, ma quelle mura decadenti, la puzza di fognatura che si levava dai vicoli e le continue strilla di prostitute e vagabondi non gli facevano affatto invidiare l’East End. E perlomeno l’East side non veniva spacciato per quartiere residenziale.
Scosse la testa, divertito, e si sedette sulla prima scalinata a disposizione, di una vecchia palazzina con l’intonaco ridotto a brandelli, ed il portone graffiato da chissà cosa. Poi frugandosi le tasche estrasse tabacco e fiammiferi e si accese l’ennesima sigaretta.
Aspirò avidamente il sapore di quel tabacco scadente, e socchiuse gli occhi abbandonando i ricci sulla superficie malconcia dell’ingresso.
Londra era deserta, al contrario della sua testa, fluttuante di pensieri.
Si morse le labbra, prima di aspirare l’ultima boccata e disfarsi dell’ennesimo mozzicone. Caricò nelle sue pupille nere la fotografia di una grata poco distante da lui, appena al di là del marciapiede, ma poco prima che caricasse il lancio della cicca, dei passi svelti, ma ciondolanti e stanchi lo costrinsero ad interrompersi.
Tutto quello che riuscì ad imprersi a fuoco nelle iridi fu la figura pallida e magra di una giovane ragazza, avvolta da un pesante maglione grigio, come la notte di Londra. I lunghi capelli scuri, le gambre pallide e magre, che un vestito dalle tinte ombrose e spente lasciava di poco intavedere.
I passi stanchi, le spalle ricurve, sembrava un ombra. Un pallido spettro senza volto, senza nessuna gradazione di colore, se non uno sbiadito nastro rosso stretto attorno alla sua lunga treccia castana.
Quella ragazza pareva un fantasma.
Il tenente strizzò più di una volta le palpebre, strofinandosi gli occhi stanchi con la punta dell’indice, quando li riaprì, si rese conto che quell’ombra non c’era già più.
Doveva aver avuto un’allucinazione.
Ma la guerra era anche questo, la perdita della realtà. La perdita di un volto.
Di un fantasma, che come lui, si aggirava solitario per Londra.
 
Quando Amelia rincasò, era passata da poco la mezzanotte. I genitori dovevano dormire ormai da ore, e lei si sentiva incredibilmente esausta.
-Cos’è questa puzza? Non ti sarai ancora fermata a vedere il Tamigi, vero?- Georgia, sua sorella, era più sveglia che mai al contrario. Gli occhi contornati da un frizzante ombretto perlaceo, ed uno svolazzante vestito floreale di raso e rouche che le avvolgeva il busto sottile come un guanto. Amelia non aveva mai avuto un vestito così bello.
Non le dette neanche il tempo di prender fiato, -Ah, ma quando crescerai?-.
Era cresciuta, si era assunta le proprie responsabilità, ma nessuno sembrava essersene accorto.
Decise di non dare peso alle parole della sorella, e gettandosi stanca sul proprio letto, cambiò argomento, -stai uscendo Georgia?- domandò, notando la minuziosa preparazione che aveva operato su se stessa.
Georgia parve accendersi a quella richiesta, gli occhi di un azzurro intenso, ed i perfetti boccoli biondi a contornarle il volto delicato. Aveva compiuto vent’anni a marzo, ed Amelia aveva sempre un po’ invidiato la sua bellezza eterea e sconvolgente.
-Si!- squittì entusiasta, lisciandosi le rouche della gonna, -Ho conosciuto un ragazzo meraviglioso.. Vado da Francine!-.
Amelia sorrise appena, Georgia conosceva un ragazzo a dir suo meraviglioso, almeno una volta al mese. Ma in fondo non le importava.
-Attenta quando rincasi, non farti scoprire da mamma e papà..- bisbigliò soltanto, rannicchiandosi, tre le coperte spiegazzate di cotone grezzo, facendosi piccola, come un bozzolo di farfalla, stringendosi compulsivamente le ginocchia al petto.
Era dannatamente stanca, non aveva neanche la forza di togliersi quei tristi vestiti di dosso, e rifugiarsi sotto le coperte.
Era così stanca.. i capelli disordinati, le guance macchiate di una spessa polvere grigia in grado di cancellarle le lentiggini, le labbra rosse screpolate.
Era troppo stanca.. la schiena a pezzi, le caviglie doloranti, le iridi vuote.
La carnagione pallida..
Sembrava uno spettro.
Un fantasma.







Cof Cof..
Buoooonaseeeeera=)
Ritorno dopo un bel po' con una storia nuova di zecca che mi è balenata alla testa.
Non so bene cosa mi abbia portata a scriverla, amo particolarmente questo periodo storico e la trama mi ronzava in testa da un bel po'.Ci saranno tutti quanti, anche se per adesso ho presentato solo Harry e Niall, quindi non riguarderà Harold soltanto.
Mi piacerebbe taaanto taaanto avere un vostro parere=)Ah, per il titolo, è il motto della RAF, tradotto significa"attraverso le avvesità, fino alle stelle". E boh, mi sembrava che fosse perfetto per questa storia.
Grazie di cuoe, a chiunque sia giunta fin qui.Un bacio=D



  
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