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Autore: Notthyrr    12/06/2013    1 recensioni
[Post-Avengers]
Dopo il fallimento a Manhattan, Loki viene riportato ad Asgard e imprigionato. La possibilità di fuga sembra una luce di speranza che può apprestarsi a raggiungere, ma proprio quando tutto sembra andare male si può comprendere quanto in realtà questo male sia niente...
Il Bifrost sbaglia destinazione, Loki e Thor ancora divisi, su mondi diversi e senza un ricordo.
Sembra siano destinati a non ricongiungersi mai...
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio, Thor
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cuore Spezzato


Il segreto stava nel dividerli. Divide et Impera, dicevano gli umani. E lui ci era quasi riuscito. Per un soffio, la gloria di un solo momento gli era stata sottratta e tutto era crollato tra le sue dita, davanti ai suoi occhi, come crolla un immenso castello di sabbia in balia del primo vento d’autunno.
Così, in quelli che erano parsi solo pochi istanti, suo fratello aveva vinto di nuovo; suo fratello lo aveva scavalcato ancora; suo fratello era riuscito a umiliarlo un’altra volta. Anche se in fondo, sapeva, suo fratello non l’aveva mai voluto, anzi: suo fratello aveva tentato di salvarlo. Gli aveva porto una mano, ma, accecato dalla follia, lui non era riuscito a vederla, non era riuscito ad afferrarla, ed era precipitato verso il basso.
Si era dunque ridestato dal suo incubo sotto luci accusatorie e si era reso conto di trovarsi al suo stesso processo. Il Tesseract era scomparso ‒poco più di un mero ricordo distorto dall’insania dei suoi occhi che si erano svuotati della sua luce azzurra, tornando verdi. Verde, il colore della speranza.
Lì, davanti al consiglio asgardiano, lui l’aveva persa tutta.
A capo chino, i capelli appiccicati di sudori gelidi, non aveva nemmeno colto tutta la conversazione. Si era, però, reso conto che suo padre non era mai intervenuto a suo favore: certo, non lo voleva morto ‒uccidere un familiare, per quanto lui nemmeno lo fosse, avrebbe comportato qualcosa di ancora piùgrave dei crimini di cui lui stesso si era macchiato ‒, ma pure la sua vita pareva essergli di peso; due piedi di troppo che calcavano la superficie asgardiana. Quindi, lo aveva spedito nelle segrete, almeno per il tempo necessario a decidere che cosa farne di lui. O come disfarsene.
Gli era stata quindi tolta la fascia d’acciaio che gli serrava le labbra soltanto perché un nastro di seta nera andasse a coprirgli gli occhi e a oscurare l’accecante luce che gli pungeva insistente il cervello.
Si era perso la quarta volta che avevano svoltato a sinistra. Poteva considerare la sua memoria alquanto notevole, ma sapeva dove lo stavano trascinando e solo il pensiero di quel luogo dal quale nessuno mai era fuggito lo atterriva a tal punto da lasciare che anche quella flebile luce di speranza nel verde dei suoi occhi si spegnesse. Il mondo attorno a lui era dunque diventato un vorticante marasma di pietre e buio e, quando la coscienza era ritornata nel suo corpo, i suoi occhi erano liberi di vagare, ma lo scenario che si prospettava loro davanti non era poi così diverso dal precedente, dove la benda gli ostruiva la vista. L’odore di muffa e umidità, poi, impregnava ogni cosa. Non sapeva quanto tempo avesse passato semincosciente, ciò che constatava era che i rozzi abiti che gli avevano gettato addosso ‒perchélui non era nemmeno degno di indossare i propri ‒ne erano giàstati umettati. Erano passati circa due giorni dall’ultima volta che aveva soltanto avvertito l’odore del cibo, l’aroma unticcio dello shawarma che esalava da suo fratello l’ultimo giorno che aveva trascorso a Midgard: le sue forze lo stavano via via abbandonando, volando via assieme al suo debole respiro, e le catene che lo trattenevano contro il muro parevano così pesanti che, se non fossero state loro stesse a costringerlo con la schiena eretta, sarebbe crollato al suolo come un guscio vuoto.
Gefjun era stata solo un faro di speranza in mezzo a quel burrascoso mare di costernazione: il terzo giorno, quando gli aveva portato da mangiare e gli aveva allentato gli anelli attorno ai polsi per permettergli di portarsi il cibo alla bocca, si era seduta di fronte a lui e lo aveva guardato a lungo. Lui non aveva nemmeno toccato il piatto: si era massaggiato i polsi e, alla fine, le aveva detto di non avere fame e di portarlo via. Lei non era stata d’accordo e, come avrebbe fatto sua madre ‒non allora, ma anni addietro ‒, lo aveva costretto a mandare giù un boccone o due.
La donna aveva fatto ritorno il pomeriggio seguente e le sue visite si erano fatte sempre più frequenti. Lui continuava a chiederle quanto avrebbero impiegato gli asgardiani a decidere come ucciderlo, ma lei non rispondeva. Così era continuato quello strano rapporto finché lei non si era messa nell’ottica di aiutarlo. E lo aveva lasciato fuggire.

~¤~

Quella notte, il cielo di Asgard non gli era mai parso così luminoso: con gli occhi usi ormai a muoversi nel buio, quando Loki aveva superato le ultime porte che lo dividevano dalla luce, aveva dovuto fermarsi e coprirsi il volto per alcuni istanti, tante erano le stelle luminose e colorate che splendevano in cielo, gettando iridescenti riverberi sul suo volto cereo. Quando era riuscito ad aprirli e a guardare in alto, i suoi occhi di giada si erano illuminati di un bagliore più intenso, spalancandosi su un mondo che aveva dimenticato, e le sue gambe avevano acquistato sicurezza, portandolo a correre, quasi senza accorgersene, in direzione del lungo ponte dell’arcobaleno.
Già, il Bifröst. Pareva quasi che lo stesse sbeffeggiando, là davanti a lui, riverberante di tutte quelle belle tonalità che erano state affogate nella malinconia del nero della sua cella.
Non era trascorso poi molto tempo da quando il suo fratellastro lo aveva mandato in frantumi a colpi di martello, riducendo in briciole, assieme al cristallo iridescente del ponte, anche il suo piano, al contempo tanto crudele quanto innocente; infantile. Forse, disperato.
Era sorprendente, lodevole, si direbbe, la rapidità con cui era praticamente stato ultimato: se avesse tardato qualche giorno a scatenare quel putiferio sulla Terra, con tutta probabilità il suo caro fratello sarebbe potuto scendere attraverso il ponte come aveva sempre fatto, piuttosto che impiegare l’energia oscura di Odino per manifestarsi sul pianeta degli umani.
Il cristallo colorato si accendeva di magnifici rilessi ogni volta che il dio vi posava il piede: quel gioco di luce era così affascinante da riportarlo a sorridere come il bambino che era stato la prima volta in cui suo padre lo aveva portato lì, pronto per il suo primo viaggio tramite il Bifröst. Credeva, in effetti, di non poter più tornare ad apprezzare quel ponte cristallino ‒tantomeno di vederlo -: quando la sua mano aveva lasciato la presa sulla lancia, prima che la paura della morte arrivasse a travolgerlo, aveva anelato alla morte stessa, non aveva desiderato altro, e, quando si era ridestato in un luogo che non conosceva, si era reso conto di come nemmeno ella l’avesse degnato della sua comprensione.
Heimdall, che faceva la guardia al Bifröst da quando lui poteva ricordarsene, quel giorno non era là: Loki s’immaginò che, con la sua vista alla quale nulla sfuggiva, si fosse reso conto della sua fuga e fosse corso ad avvertire Padre Tutto, Thor, tutto il Valhalla, magari. Oppure Gefjun era riuscita ad attirarlo lontano da lì ed essere per lui, per l’ennesima volta, quella luce di salvezza che l’avrebbe condotto altrove ‒importava forse dove? ‒, lontano da lì, dove avrebbe potuto vivere come il re che era.
Quasi riuscendo a palpare di già quel mondo illusorio, il dio si precipitò nella sala sferica con la quale culminava il ponte, il mantello che svolazzava alle sue spalle e il cappuccio che, ancora, come se non volesse nascondere quell’incantevole volto, scivolava all’indietro e gli scopriva i capelli.
Raggiunse il centro del salone, guardandosi attorno come se avesse perduto qualcosa: senza Heimdall e la sua spada dorata che azionava il meccanismo, risultava più complicato mettere in moto il ponte. Si maledisse per la sua condizione, che gl’impediva di affrontare il guardiano come avrebbe fatto in qualsiasi altra occasione: strappargli la spada non sarebbe stato poi così complesso. In quel caso, invece…
Tese una mano verso l’ingranaggio collocato poco sotto il livello del pavimento intarsiato. L’arto gli s’illuminò di una flebile luce verdastra e in essa gli parve di poter vedere il verde di Vanaheim; i prati di Álfheim. Sentì il cuore farglisi più leggero e avrebbe preso il volo con esso se non…
«Dove credi di andare?»
Spaventato, si volse, tendendo davanti a sé un misero coltello dall’impugnatura in osso, la luce nella sua mano che si spegneva, risucchiandosi in se stessa. Nei suoi occhi vibrava il terrore e, assieme ad esso, un odio così radicato da non poter essere estirpato nemmeno dall’amore più sincero.
Tra tutte le persone che potevano giungere e coglierlo sul fatto… Con tutti gli dèi e i guerrieri che abitavano quel palazzo dorato… perché si trovava a specchiarsi negli occhi turchesi di suo fratello?
Aveva tentato a lungo di seppellire e mettere da parte quel sentimento, dicendosi che non aveva la giusta importanza perché gli fosse dato rilievo, ma solo in quel momento si rese conto di quanto lo odiasse veramente: odiava lui, odiava i suoi modi, odiava quel suo fare da spaccone, odiava quel suo modo di credersi superiore e, soprattutto, odiava come lui non riuscisse a fare altrettanto. Se lo avesse affrontato come un nemico, se si fosse limitato a occuparsi di lui come avrebbe fatto con qualsivoglia gigante o troll, sarebbe stato tutto più semplice… E invece c’era quel dannato rapporto fraterno a rovinare le cose, quel filo che lui aveva tentato di recidere così a lungo e che suo fratello non aveva fatto che ricucire di nuovo, ancora e ancora.
Il pugno gli si strinse con tale forza attorno al manico del coltello che le sue nocche sbiancarono e i suoi tendini parvero sul punto di schizzare via: «Se esiste un posto…» cominciò con voce tremante, per  poi portare lo sguardo sulle iridi azzurre del biondo e riprendere a parlare con una sicurezza agli antipodi rispetto il tono precedente. «Se esiste un posto… abbastanza lontano da te, per cui tu non possa più nemmeno pensarmi tanti sono gli abissi che ci dividono… per cui tu dimentichi completamente di aver avuto un fratello… per cui la tua anima venga assolta dal peso che devi provare dopo tutte le sofferenze che mi hai fatto passare… allora è là che voglio andare; è la che voglio scomparire.»
«Sono stanco di rincorrerti…»
«E io di essere rincorso. Ora, se davvero mi vuoi tutto il bene di cui ti vanti e che mai sei riuscito a dimostrarmi, vattene.» sillabò.
Thor, il biondo dio del tuono, sbuffò, agitando la mano con la quale reggeva Mjöllnir: «Loki, tu non capisci…»
«No, sei tu che non hai capito niente! Non lo hai mai fatto!» strillò, esplodendo definitivamente. «Sei poco più di un bambino troppo alto per sembrare tale, che obbedisce a suo padre alla stregua dei due lupi cui getta le ossa durante i banchetti! Affermi di volermi bene, di aver fatto per me tutto quello che hai fatto, ma non ti è mai passato per la mente che io non desideri essere salvato? Qualsiasi cosa io faccia, non ti limiti a scavalcarmi, a gettare ombra su di me, ma continui a pretendere di amarmi! Tu non sai che cosa significhi l’affetto: tu continui a fare a pezzi i cuori di chi ti circonda!»
Con un gesto di stizza, la mano di Loki s’illuminò di nuovo e per un istante Thor credette che il fratello volesse scagliargli contro una qualche magia. Invece, il moro accennò a riportarla verso il basso; verso il centro del salone.
«Se da solo non sei in grado di arrivarci…!» In un moto di rabbia, il dio del tuono si precipitò verso di lui, colpendo con la propria mano libera le dita del fratello proprio nell’istante in cui il lampo verde era riuscito a penetrare il meccanismo, azionando il Bifröst.
Come reagendo a un incantesimo difensivo, una sfera sottile come una pellicola, ma dalla consistenza del diamante, si spanse dal centro della sala, colpendo i due fratelli e scaraventandoli ai lati opposti del salone. Una forte luce esplose dal centro ed entrambi poterono avvertire la parete scricchiolare sotto il peso dei loro corpi.
Gli occhi del biondo si piantarono in quelli di Loki, ora spaventati: il martello gli sfuggì di mano, abbattendosi al suolo senza produrre alcun rumore ‒o erano le loro orecchie piene di un altro fragore più forte che lo copriva? ‒e allungòuna mano, tentando di vincere quella gravitàche lo teneva premuto contro un muro pronto a cedere.
Rimangiandosi in un sol boccone tutti gli spergiuri e le maledizioni di poco prima, l’unica cosa che Loki avrebbe voluto fare era riuscire a liberarsi da quelle catene invisibili che lo trattenevano, dalla luce bianca emanata dal Bifröst che vorticava attorno a loro. Ora la vedeva: vedeva quella mano di salvezza che il fratello gli aveva teso. Non come l’ultima volta: era lì, proprio di fronte a lui, eppure…
Tentò di fare altrettanto, ma la sua debolezza gl’impedì qualsiasi movimento e, mentre la guglia del Bifröst si proiettava verso il cielo, le labbra del fratello che si dischiudevano per chiamare il suo nome furono l’ultima cosa che poté vedere, prima che un colpo troppo potente lo lasciasse privo di sensi.


I  just wanted to see the sky
Open the one last time





Note: Bene, bene, in ritardo, ma sono riuscita ad aggiornare (Meglio tardi che mai, dice il saggio...).
Qui finalmente si entra nel vivo della storia, nonostante sia più che altro un capitolo descrittivo - e spero che il lungo ed estenuante flash-back di Loki non abbia ucciso nessuno dei lettori...
Vi aspetto quindi mercoledì prossimo col terzo capitolo, dal quale comincia la narrazione vera e propria e introdurrò un nuovo personaggio ; )
Per concludere, la canzone è sempre dei The Rasmus - come saranno anche tutte le prossime strofe di fine capitolo -, Sky.
Grazie a tutti,
~Notthyrr

  
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