Kise era riuscito a ripetersi di avere la coscienza
pulita in un unico modo: sommergersi di lavoro.
Durante il suo primo anno al Kaijou, benché non fosse da lui rifiutare lavori,
aveva sempre cercato di fare in modo che i servizi fotografici non rubassero tempo
al basket. Dopo la prima sconfitta contro il Seirin, sebbene si fosse trattato
di un semplice match di allenamento, aveva desiderato come mai prima di allora
allenarsi e migliorare, sempre di più – per la squadra che finalmente aveva e
capiva cosa fosse davvero, ma anche
per se stesso e per poter stare sul campo a testa alta o uscire da una
sconfitta sapendo di aver dato tutto quello che poteva dare.
Aveva cercato di non saltare gli allenamenti se non quando era strettamente
necessario, ma anche di far sì che le sue prestazioni non fossero influenzate
dall’eccessiva stanchezza al lavoro. Dall’ultima volta che aveva sentito Momoi,
invece, non aveva fatto che riempire ogni spazio libero della giornata, spesso
fuggendo letteralmente dagli allenamenti e concentrando il grosso degli impegni
professionali nel week-end.
Per i primi tempi, nessuno gli aveva fatto notare che forse avrebbe dovuto
evitare di mantenere quei ritmi troppo a lungo; sua madre aveva pensato che
fosse semplicemente un momento particolarmente roseo sul lavoro per quanto lo riguardava,
e anche le due figlie maggiori di casa Kise avevano rassicurato la madre in tal
senso.
Con l’avvicinarsi della Winter Cup, tuttavia, la palestra aveva richiesto
ancora più impegno e dedizione oltre che allenamenti sfiancanti; la quasi
totale assenza di riposo e i ritmi sostenuti avevano non tanto peggiorato la
prestazione – era pur sempre di uno de Miracoli, che si parlava – quanto più a
livello psicologico. Kise continuava a spostarsi da una parte all’altra senza
sosta: scuola, palestra, casa, studio, lavoro.
Inevitabilmente, si innervosiva con più facilità, sebbene stesse provando a
fare del suo meglio per non sfogare la frustrazione e lo stress su altre
persone che non c’entravano nulla; apprezzava persino i senpai del Kaijou, che
pur avendo notato la cosa si erano dimostrati comunque discreti nel non
imporgli cose come diminuire la mole di impegni. Nonostante i lati negativi,
però, non aveva potuto non notare quanto lo scopo ultimo fosse stato raggiunto:
aveva così poco tempo, solitamente usato per riposarsi, studiare un minimo e le
cose di prima necessità, che non aveva avuto tempo di concentrarsi sul fulcro
dei suoi problemi.
Si era davvero convinto – per non dire illuso – che la cosa potesse migliorare
allontanandosi dalla causa.
Aveva fatto un enorme passo indietro rispetto alla presa di coscienza a casa di
Jun, e da quest’ultimo si era tenuto lontano, sebbene fosse stato molto meno
voluto rispetto a quanto fatto con Aomine. Nel caso del castano era stato anche
dovuto all’impossibilità di incastrare gli impegni lavorativi di entrambi e i
diversi orari scolastici, trattandosi pur sempre di un liceale e di un
universitario.
Eppure, non senza un leggero senso di colpa ogni volta che chiudevano una comunicazione
telefonica o uno scambio di e-mail, continuava a ripetergli che stava bene; un
insieme di inutili frasi tutte uguali: “sto bene”, “non preoccuparti”, “sono
solo impegnato, ma è tutto a posto!” – bugie
senza un minimo di fantasia.
«Ki-chan?» sentì chiamare dall’altro lato del telefono, ritrovandosi a
sospirare impercettibilmente, attento a non farsi udire da Momoi; non sapeva
bene nemmeno lui perché avesse preso la chiamata, anziché rifiutarla come aveva
già fatto una volta, mandandole un messaggio in cui diceva di essere al lavoro
e non poter rispondere.
«Momoicchi.» salutò, il sorriso leggero e il tono un po’ stanco: alla fin fine
non era colpa dell’ex manager, tutto ciò che stava succedendo e che riguardava,
a conti fatti, solo lui.
Si perse per un attimo in quella considerazione fatta quasi distrattamente: la
situazione in cui era non riguardava nessun altro se non Kise Ryouta.
Nemmeno Aomine.
«Tutto a posto? Ti serviva qualcosa?» domandò, senza metterle fretta,
sistemandosi meglio nella macchina con cui sua madre lo stava accompagnando al
lavoro; la donna gli sorrise, riconoscendo nel nomignolo del figlio l’identità
di Satsuki, di cui si ricordava dai tempi delle medie.
«Ki-chan, ti devo parlare.» iniziò, con tono anche piuttosto serio che portò
Kise a drizzarsi inconsapevolmente contro il sedile, assumendo una posizione
corretta rispetto a quella rilassata di poco prima: «Eh? Cos’è successo?»
«Non è una cosa grave, ma non possiamo parlarne al telefono. Possiamo vederci?
Sei libero nel week-end?» lo incalzò lei, non così sbrigativa da suonare
brusca, ma nemmeno intenzionata a tenerlo troppo al telefono, a quanto
sembrava.
«Uhm, nel week-end…» lasciò in sospeso, cercando di pensare velocemente e fare
mente locale: «Non lavoro di sabato, ma la domenica sì.» replicò infine. Non la
sentì chiaramente, ma gli sembrò che l’altra avesse tirato un sospiro di
sollievo.
«Possiamo vederci? Va bene anche dove ci siamo incontrati per il regalo a
Dai-chan.» assicurò, facendo inconsapevolmente sobbalzare Kise; razionalmente
sapeva che l’altra non l’aveva fatto di proposito, ma gli sembrò che in un
attimo gli sforzi degli ultimi tempi non fossero serviti a nulla e che fosse
bastato persino meno di un nome per
rendere tutto vano e senza senso.
Deglutì, imponendosi un tono calmo: «Va bene! Per che ora, nel pomeriggio?»
chiese per sicurezza, ricevendo una risposta affermativa ed un saluto
sbrigativo.
Non da Momoi, si disse, ma la cosa riuscì ad impensierirlo persino di più.
Quando raggiunse Momoi al luogo dell’appuntamento, Kise non si fermò se non per
il tempo necessario a farsi riconoscere – alzando un poco la visiera del
berretto che indossava – e di prendere la mano, guidandola per un paio di vie
abbastanza trafficate, senza il rischio di perdersi di vista.
Quando si fermarono, il respiro leggermente velocizzato per il passo sostenuto,
Momoi riconobbe vagamente la zona, più che sicura di non esservi capitata
spesso; Kise inspirò, indicandole la porta di un bar poco distante, accennando
ad un sorriso, muovendosi per primo verso l’entrata. Una volta dentro il biondo
si liberò del berretto, scuotendo un poco la testa con la buffa espressione di
chi ha trattenuto il respiro per una qualche sciocca scommessa ed è felice di
prendere aria a pieni polmoni.
«Scusa, Momoicchi. Ho provato a non dare nell’occhio, ma…» lasciò cadere la
frase, facendo comunque intendere quale fosse stato il problema. Lei sorrise di
riflesso, perché quel momento era troppo familiare per non sentirsi a proprio
agio nonostante il silenzio degli ultimi tempi.
«Succedeva anche alle medie, eh Ki-chan?» gli fece notare, seguendolo in
direzione di un tavolo libero e prendendo poi posto: «Sì, ma ultimamente è
perché ho lavorato di più.» ammise con un sospiro.
Ai tempi delle medie a Satsuki c’era voluto del tempo per legare con i ragazzi
della squadra da pari: essendo l’unica ragazza ad approcciarsi a loro in quel
modo era sempre stato difficile rapportarsi in quel modo e non semplicemente da
“manager”. All’infuori del legame con Aomine, però, il membro del club a cui era
stato più semplice avvicinarsi era stato proprio Kise: con Akashi c’era sempre
stato un rapporto di stima e rispetto, da parte di Momoi, dato non solo dal
ruolo di capitano del ragazzo, quanto anche dall’aria che c’era attorno alla
sua persona a livello di puro e semplice atteggiamento. Con Kuroko era sempre
stato più complicato per i sentimenti che erano coinvolti, da parte della
stessa Satsuki.
Kise invece aveva sempre avuto quel modo di fare amichevole e gentile, capace
di farti sentire a tuo agio fin dalla prima volta; certo, Momoi non avrebbe mai
potuto affermare di avere un’amicizia profonda con il ragazzo, di quelle in cui
ci si dice tutto e si conoscono le abitudini e i gusti dell’altro, ma di certo
parlare con lui era sempre stato facile – però, al tempo stesso, era
altrettanto vero che i discorsi tra loro non erano mai andati troppo sul
personale.
Questi erano stati i pensieri che si erano formati nella sua testa quando si
era ritrovata a formularli in maniera quasi forzata: forse sarebbe potuto suonare
assurdo, dire che proprio negli ultimi tempi aveva prestato maggiore attenzione
all’allontanarsi di Kise, specie considerando che già una volta la squadra
della Teikou era andata in frantumi. Eppure quella volta gli sembrava diverso,
e magari proprio perché non erano una squadra o una presunta tale; proprio in
virtù dell’essersi divisi ed essere – chi più e chi meno – maturati accanto ad
altre persone e compagni di gioco, ritrovarsi le era sembrato normale e semplice rispetto a quanto sarebbe stato
altrimenti.
Invece no, ma la cosa non l’avrebbe preoccupata se fosse valso per tutti. Per
assurdo sembrava riguardare solo Kise, proprio quello che di loro era stato il
più amichevole.
Allora Momoi ci aveva pensato: quante volte Ryouta aveva davvero parlato di sé?
Forse mai.
«Però è una buona cosa, giusto? Tanto lavoro.» osservò, mentre la cameriera gli
portava i menù, posando di fronte ad entrambi un bicchiere d’acqua,
raccomandandosi con loro di prendersi il proprio tempo per scegliere e di
chiamarla quando fossero stati pronti per farlo.
«Direi di sì!» esclamò il biondo in risposta, aprendo quindi la lista di dolci
e bevande che era possibile richiedere per poter dare un’occhiata. Satsuki lo
imitò, lasciando cadere un silenzio naturale tra loro.
«Ah, ho deciso.» lo ruppe distrattamente lui, pur mantenendo ancora gli occhi
sulla pagina che stava esaminando; quando anche la ragazza ebbe scelto Kise
alzò una mano, richiamando l’attenzione della cameriera e ordinando per sé,
lasciando fare lo stesso a Momoi e riconsegnando quindi entrambi i menù.
Quando furono nuovamente soli, la consapevolezza di non poter evitare per
sempre il vero motivo per cui Satsuki gli aveva chiesto di vedersi fu
palpabile: aveva un sospetto, ma preferiva aspettare – sperare che Momoi lo
confermasse come errato e gli parlasse di tutt’altro.
Ma sapeva già da solo che se c’era una cosa in cui la ragazza era stata – ed
era tutt’ora – seconda solo ad Akashi, quello era lo spirito di osservazione.
«Ki-chan» richiamò la sua attenzione, il tono serio ma non brusco, portando lo
sguardo direttamente su di lui: «posso chiederti una cosa? Vorrei che mi
rispondessi sinceramente.» proseguì.
Kise avrebbe mentito dicendo che il suo primo pensiero era stato diverso dal
semplice volersi alzare e andare via; fu solo un attimo, però, un istante di
completa impulsività che non aveva assecondato.
Aveva semplicemente annuito – e, dopotutto, non era quello che aveva sempre
fatto? Non tanto con Momoi o con una singola persona nello specifico, ma Kise
con il tempo aveva imparato a fare anche quello: annuire e assecondare, non
tanto nel modo dei vinti e dei ruffiani, di chi per ingraziarsi qualcuno non si
esprime e nemmeno come chi è privo di una personalità propria.
Lo faceva e basta, quasi senza rendersene conto a volte, e quando aveva cercato
di capirne il motivo, tutto si era risolto in una risposta scomoda e fastidiosa
nella sua semplicità: era più facile che spiegarsi e mettersi a nudo.
In definitiva, probabilmente, poteva considerarsi davvero codardo in realtà.
«È successo qualcosa con Daichan o con gli altri?» aveva domandato Satsuki a
bruciapelo e a quel punto, ogni supposizione di Kise, ogni speranza che il suo
spirito di osservazione non avesse colto troppo, semplicemente sfumò.
«No, non abbiamo litigato o altro! Lo chiedi per il compleanno di Aominecchi,
vero?» domandò, il tono allegro che aveva sempre, il broncio che sempre aveva
in quelle situazioni, in quel tipo di botta e risposta – il vizio di mentire
che ultimamente sembrava persino peggiorato: “Va tutto bene?”, “Certo!” affatto.
«Ma ero davvero al campo estivo! Anche Kagamicchi e Kurokocchi non sono andati,
eppure Aominecchi se l’è presa solo con me!» si lamentò, occhieggiandola come
in cerca di un valido alleato nella sua lotta contro quell’evidente
ingiustizia.
Satsuki lasciò che un sorriso leggero ammorbidisse i propri lineamenti: quel
modo di fare di Kise, che tanto ricordava un bambino nel senso più positivo del
termine, l’aveva sempre messa di buon umore e non l’aveva mai infastidita.
Tuttavia non voleva nemmeno farsi distrarre, perché di Kise vedeva un sorriso
stanco e voleva comprenderne il motivo.
«Non parlo del compleanno, non ci si poteva fare molto per i campi estivi.»
assicurò con un sorriso accondiscendente, per poi tornare seria: «Parlo
dell’ultima volta che siamo stati al telefono, Ki-chan.» riprese, esitando un
attimo mentre la cameriera portava loro quanto ordinato poco prima.
Aspettò ancora una volta che si allontanasse per riprendere.
«Scusa se sembro invadente all’improvviso. So che non abbiamo mai parlato
davvero di problemi personali Ki-chan, e so anche che non è magari con me che
vuoi parlarne o che farlo potrebbe non cambiare granché. Ma tu non avevi mai
detto una cosa come quella.» confessò quel che, a conti fatti, l’aveva
definitivamente convinta che qualcosa non andava.
Non avrei tempo o voglia, e non avrebbe
senso.
Quella frase l’aveva colpita, perché anche quando Kise aveva avuto di fronte
qualcuno che non gli andava a genio o che gli aveva fatto un torto, piccolo o
grande che fosse – come la questione con Haizaki alle medie, o l’iniziale
scarsa considerazione per Kuroko – non si era mai espresso come se lo stare in
presenza di qualcuno fosse una perdita di tempo. E proprio quello le aveva dato
da pensare più di quanto fosse sembrato dalla sua reazione sorpresa al
telefono, nel momento in cui il biondo si era pronunciato in quei termini.
«So che forse è una cosa che devi risolvere da solo, o con Daichan, o
Tetsu-kun, o chiunque sia la persona interessata. Però Ki-chan… dopo il modo in
cui la squadra si era sciolta l’ultimo anno delle medie, ero la prima a credere
che sarebbe stato difficile riuscire ad avere di nuovo qualche tipo di
rapporto. Poi però sono successe tante cose, anche grazie a Tetsu-kun e
Kagamin. Forse proprio perché non siete più nella stessa squadra riuscite ad
andare d’accordo in un modo che prima non era possibile. Penso che sia una
buona cosa, che sia positiva.» proseguì accalorata, mostrando fin troppo
apertamente quanto tenesse a quel che stava dicendo.
«Ki-chan, non allontanarti come fece Daichan in passato. Solo questo.»
concluse.
Per tutto il tempo in cui la ragazza aveva parlato, lui aveva mantenuto lo
sguardo sul caffè che aveva di fronte ai propri occhi. Era falso sostenere di
non capire il suo punto di vista: solo perché era stata la manager della
Generazione dei Miracoli e aveva avuto a che fare con loro senza alcuna
apparente difficoltà, si tendeva a dimenticare che Momoi era pur sempre una
ragazza. Aveva visto il suo migliore amico, con una passione per il basket
sconfinata, chiudersi in se stesso e cambiare, fino a giocare per i motivi
errati – quello che era sempre sembrato solo il desiderio di umiliare il
prossimo che nascondeva la disperata e spasmodica ricerca di qualcuno che gli
dimostrasse che stava sbagliando – e allontanarsi sempre di più dal basket,
dalla squadra e da lei. Come conseguenza, quasi, l’intero gruppo si era
sfasciato completamente, diviso in un modo che aveva fatto sembrare la
situazione irrecuperabile.
Momoi non aveva potuto fare altro che guardare dopo tanti, troppi tentativi di
salvare il poco che di salvabile le era sembrato esserci. Non era bastato e a
quel punto non le era rimasto da fare altro che seguire Aomine alla Too – Kise
sospettava lo avesse fatto nella speranza di vedere quel qualcuno che Aomine
cercava arrivare e di poter quindi riavere indietro l’amico di sempre, pur con
la sua pigrizia e la sua fissazione quasi ossessiva per quello sport. Era certo
che quei tratti di Daiki le fossero mancati e che ci avesse anche sofferto,
seppur senza darlo troppo a vedere.
Lo sapeva perché, in modo diverso e privo di una qualsivoglia consapevolezza,
avevano fatto star male anche lui.
«Però questa cosa ad Aominecchi non l’hai detta.» sputò fuori, sorprendendosene
lui stesso, tanto che sgranò impercettibilmente gli occhi, conscio di avere
quelli di Momoi su di sé.
«L’ho detta anche a Daichan—»
«Allora non è servito.» tagliò corto, mordendosi il labbro inferiore. Aveva
avuto ragione Kasamatsu, mesi prima – non si era propriamente espresso, ma il
suo sguardo era bastato a Kise per capire cosa stesse pensando a grandi linee:
non era da Kise quell’atteggiamento, quella scortesia, quel parlare come
avrebbe fatto Daiki un tempo, con una totale noncuranza per i sentimenti di chi
gli stava di fronte.
Sapeva che Momoi non c’entrava, che la sua preoccupazione era lecita e
comprensibile. Ciò che lo metteva alle strette era sapere di non poterne
parlare con lei, sapere di non potersi spiegare e senza farlo non poteva
nemmeno cercare di rendere sensato il proprio allontanamento – come lo
spiegava, che c’era qualcosa che non lo faceva più sentire a proprio agio,
senza dirle non solo di Jun, ma anche di quel che lo riguardava e a cui cercava
di non pensare troppo sommergendosi di lavoro e di cose che gli occupassero abbastanza
la mente?
«Ma non è solo colpa tua.» riprese, forse per fare ammenda o forse solo per
stare in pace con la sua coscienza almeno un minimo: «Nessuno di noi ci ha
parlato davvero. Non che potessimo farlo, a parte Kurokocchi. Perché tanto
Aominecchi non ci avrebbe mai dato retta. Perciò, quando abbiamo capito che
anche Kurokocchi non poteva farci nulla, abbiamo lasciato perdere, no? Ci siamo
detti “magari migliorerà da solo” oppure “magari dobbiamo aspettare”. Ma lo sapevamo
tutti che non sarebbe servito a niente, vero?» la incalzò, alzando finalmente
lo sguardo su di lei.
Si sentì rinfrancato, in parte, dal fatto che non sembrasse sul punto di
piangere o simili – poi ricordò a se stesso che Satsuki era una delle ragazze
più forti che conoscesse, se non la più forte in assoluto – ma la sorpresa che
lesse nel suo sguardo ebbe il potere di farlo sentire persino peggio, come se
ormai non potesse tornare indietro e dovesse sputar fuori tutto.
Anche quello di cui accusava se stesso e nessun altro.
«Io ammiro Aominecchi, e tu lo sai, Momoicchi. Forse lo sai meglio di tanti
altri.» proseguì, stringendo impercettibilmente i pugni sul tavolo «Ma non so
più quanto servisse, o cosa se ne facesse Aominecchi di tanta ammirazione.
Probabilmente nulla. Non significava niente. E non mi sembra che lui si sia mai
fatto alcun problema, allora, quando si allontanò dalla squadra. Certo ora gli
dispiace, so che non si sente fiero di quello che ha fatto. Ma ci hai pensato?
È naturale. Si sentiva tutto stretto addosso, giusto? La Teikou, le mura della
palestra, persino il basket stesso. E allora si è allontanato dalla cosa che
gli faceva male, e nessuno di noi alla fine gli è corso dietro davvero:
lasciavamo solo che si allenasse quanto voleva e se gli andava, e poi che
giocasse. E gli davamo tempo, giusto? Se perché eravamo comprensivi o
menefreghisti io questo non posso dirlo per gli altri. Ma a te importava di
Aominecchi, lo so. E importava anche a me. E a Kurokocchi. Però si è
allontanato. Dammi un motivo per cui io non dovrei farlo.» si lasciò sfuggire
infine, puntando per la prima volta lo sguardo in quello di lei.
«Se ti dicessi che l’ex Teikou mi sta stretta addosso sarei legittimato ad
allontanarmi?» le chiese a bruciapelo, pentendosene l’istante dopo, quando
negli occhi di Satsuki la sorpresa fu sostituita dalla preoccupazione. Era come
se la sua testa stesse lavorando fin troppo velocemente, prendendo tutti gli
elementi di cui era a conoscenza, tutte le sue parole dette fino a quel momento
e mettendole insieme stesse tracciando una linea netta sull’intera questione.
Come se stesse raggiungendo una soluzione che Kise agognava e che non era
riuscito a formulare nemmeno alla lontana.
Era come quando, con tutti gli elementi a sua disposizione, la ragazza riusciva
a comunicare ad Akashi quale sarebbe stato lo schema migliore da usare in una
data partita e con un determinato avversario.
Si sentì spogliato dell’unico segreto che non avrebbe mai voluto mostrare a
nessuno.
Si odiò: avrebbe solo dovuto tacere, invece—
«Ohi.» per un momento in cui irrazionalmente accostò quella voce all’unica
persona che fosse solita salutare o palesare la propria presenza in quel modo,
si sentì gelare sul posto; poi, la vaga curiosità che lesse nello sguardo di
Momoi lo portò a voltare il viso e sorprendersi molto più di quanto avrebbe
fatto se il suo timore si fosse rivelato fondato.
Vicino al loro tavolo stava Akira, arrivato chissà quando e da chissà dove, la
borsa a tracolla che suggeriva mille ipotesi – era in università e lo aveva
viso dalla strada mentre tornava? Era lì con Jun?
«Scusami, ti dispiace se ti rubo il tuo pessimo accompagnatore?» si rivolse a
Momoi, senza degnare di uno sguardo lui pur riferendosi indubbiamente alla sua
persona.
Rispetto a come si era posto, Akira aveva almeno
aspettato che Kise pagasse per sé e per la ragazza, scusandosi
dell’improvvisata; lì per lì non aveva avuto la minima idea di cosa volesse il
moro da lui, né di come spiegare di preciso a Momoi come e perché lui
conoscesse quello che era chiaramente un universitario – e che, altrettanto
palesemente, non aveva granché a che fare con l’ambiente del basket.
Per fortuna Akira gli aveva evitato l’imbarazzo: con una cordialità che non gli
aveva mai visto sfoggiare le volte che aveva parlato con lui, aveva detto
qualcosa a Momoi che Kise non aveva sentito, ma che sembrava aver convinto
senza troppe difficoltà la ragazza della necessità che aveva il moro di
sottrarre Kise alla sua compagnia.
A quel punto, dopo un saluto e la promessa di farsi perdonare in un’altra
occasione, si era limitato a seguire Akira; aveva anche tentato di domandare
dove stessero andando un paio di volte, ma il moro non aveva fornito alcun tipo
di spiegazione. L’unica cosa che si era degnato di dire ad un certo punto, era
stata: «Buon per noi che sei già camuffato, almeno non perdiamo tempo a passare
da casa.»
Osservazione che non faceva ben sperare, dal momento che lasciava sottintendere
la necessità di far sì che non lo riconoscessero.
Man mano che camminavano, Akira un paio di passi avanti a lui, Kise si rese
conto solo di due cose – peraltro inutili allo scopo di rendere più chiaro il
fine di tutto quel camminare: in qualsiasi posto in cui Akira lo stesse
portando, non era esattamente nella stessa zona in cui lui e Momoi si erano
dati appuntamento quel pomeriggio. Inoltre il moro non sembrava intenzionato ad
andare a prendere Jun o a lasciare che il ragazzo li raggiungesse, a giudicare
dalla chiamata al cellulare che aveva effettuato per dirgli che avrebbe
mangiato fuori con un amico.
Amico. Neanche aveva nominato Kise e questo aveva insospettito ancora di più il
biondo.
«…Akira-san, perché non hai detto che sei con me?» aveva infatti chiesto,
affiancandolo. Il moro lo aveva guardato distrattamente e di sfuggita, voltando
un angolo: «Perché se gli avessi detto dove stavo andando, ma soprattutto che
ti stavo portando con me, Jun ci avrebbe raggiunti. Ma lui è troppo buono, e
per i miei gusti tu hai bisogno di una terapia d’urto, dopo le stronzate che ti
ho sentito dire.» aveva concluso sbrigativamente.
Quando erano entrati nel locale, Kise non aveva
sospettato nulla inizialmente; era certo che la cosa fosse dovuta al suo non
essere mai stato in quella zona e all’ora del tardo pomeriggio – ancora un poco
distante da quella di punta – che lo aveva tratto in inganno con strade poco
affollate.
Una volta dentro, non aveva avuto subito conferma: si era ritrovato in un posto
pulito e ben tenuto, dall’atmosfera tutto sommato allegra benché ci fossero
ancora pochi clienti e niente più di un uomo dietro al bancone (certamente il
barman) e uno che faceva probabilmente da cameriere a chiacchierare poco
distante ad uno dei tavoli.
Poi il barman, che doveva essere anche il capo o quantomeno il responsabile,
aveva salutato Akira con familiarità facendogli un cenno al quale il moro aveva
risposto con un amichevole “Capo”, che Kise era certo fosse più un appellativo
generico che non dovuto ad un qualche rapporto lavorativo.
Infine il cameriere si era girato notandoli e, con fare disinvolto, aveva
raggiunto lui ed Akira con un: «Eh? Non starai mica tradendo Jun-chan? Aki-chan, sei pessimo!»
aveva esclamato scherzosamente, occhieggiando Kise studiandolo senza troppe
riserve, come se contrariamente alla norma farlo con discrezione fosse quasi un
insulto al biondo stesso.
Tutto era stato chiaro quando, con una pacca leggera sul sedere del modello,
aveva detto divertito: «Oh beh, non potrei nemmeno darti torto, anche se Jun-chan rimane il mio preferito. Ma lui posso prenderlo
io, nel caso, eh!» aveva preso in giro Akira, forse, più che lo stesso Kise – o
così si era convinto quest’ultimo, tra l’imbarazzo del gesto a cui era
tutt’altro che abituato e la pacca che Akira aveva appena dato alla spalla di
quel ragazzo.
«Fai poco il simpatico, è minorenne.» gli fece notare, dettaglio che gli valse
un sospiro leggero da parte del capo: «Ohi, Aki-chan,
non crearmi problemi facendo cose strane con i minorenni.» lo rimproverò
bonariamente, ma Kise fu abbastanza sicuro che il monito fosse serio, seppur
rivolto con un tono amichevole. Akira lo guidò proprio verso il capo – e di
conseguenza verso il bancone – scuotendo appena la testa.
«L’ho portato solo per dargli un’idea dell’ambiente. E lo sai che sono Junsessuale, oltre che fedele.» aggiunse, quasi piccato,
facendo ridere tanto l’uomo quanto l’altro ragazzo che li aveva seguiti e che
si stava rivolgendo di nuovo a Kise.
«Gli dai un’idea dell’ambiente? Che pessimo mentore ti ritrovi. E com’è che ti
chiami?» lo incalzò, amichevole e con un fare che a Kise sembrava provocatorio,
ma non nel modo con cui le persone ti irritano… più quello
di quando cercano di rimorchiarti.
«Ki—» una mezza gomitata di Akira gli suggerì che il
cognome era da omettere «Ryouta.» borbottò.
«Ryou-chan allora.» commentò subito l’altro «Benvenuto,
ne.» aggiunge semplicemente, muovendosi quindi verso uno dei tavoli da cui uno
dei clienti aveva richiamato la sua attenzione.
Kise sospirò senza nasconderlo granché, spostando la propria attenzione su
Akira: «È…?»
«Un locale gay nella zona gay della città, sì.» tagliò corto lui «Sarà il caso
che ti abitui all’idea di sentire la parola gay, omosessuale e finocchio, nella
tua vita. E molti altri sinonimi molto meno gentili di questi, ai quali spesso
non potrai rispondere a tono perché significa cercare grane oppure ammettere la
tua sessualità davanti ad un numero di persone fin troppo elevato. Specie
nell’ambiente tuo e di Jun.» spiegò, ordinando poi un succo per entrambi.
Kise lo osservò, senza capire del tutto: Akira avrebbe potuto portarlo in un
posto del genere in qualsiasi momento, eppure si era preso la briga di
interrompere lui e Momoi – si chiedeva, poi, per quanto tempo fosse stato in
attesa visto che sembrava averli fermati volutamente quando Ryouta aveva
concluso più o meno il proprio discorso.
«Questo lo so.» borbottò, perché dalla prima volta che aveva parlato con Akira,
gli era sempre sembrato che il moro lo ritenesse un moccioso che non sapeva
bene da che parte stare, e che nel dubbio stesse facendo solo caos con le persone
che gli stavano intorno.
«No, tu non lo sai, fidati.» lo interruppe, puntando lo sguardo nel suo senza
tante cerimonie, fermo sulla propria convinzione: «Almeno non finché crederai
che ti piace un ragazzo per qualche motivo cretino che non voglio nemmeno
sapere che forma abbia nella tua testa. Ti ho sentito parlare con Jun, e non
dico che tu debba far finta di niente e dire “oddio che bello, sono gay”, va
bene? Hai quanto, diciassette anni? C’è gente che rimane sorpresa a quaranta,
ci mancherebbe altro. Ma ti sei sentito mentre parlavi con quella ragazza?
Perché io, sfortunatamente seduto dietro di voi, ho sentito anche troppo.»
rivelò, chiarendo a Kise almeno i dubbi sulla tempistica del suo intervento in
quel momento.
«Quello di cui parlavo con Momoicchi non c’entra.» tentò, più sicuro perché, con
tutto il rispetto, cosa poteva saperne Akira che lo conosceva a malapena?
«C’entra invece. Perché stai cercando scuse. Pensi davvero che il tuo problema
sia vedere la persona in questione? Che lavorare di più ti renda potenzialmente
meno gay? Fammi il favore di dirmi che non sei così stupido.» lo pregò, un sarcasmo evidente nelle proprie parole.
Lo irritò. Benché capisse che Akira stava – forse – cercando di aiutarlo a modo
suo, si poneva in maniera fastidiosa: vi leggeva la saccenza di chi non cerca
di capire davvero il tuo problema, ma si comporta solo con la superiorità
tipica di chi lo ha già superato.
«Invece essere così masochista da uscire spesso con la persona in questione
sarebbe davvero d’aiuto a risolvere la cosa.» commentò con una punta nemmeno
troppo sottile di ironia, guardandolo apertamente.
Akira tacque per qualche istante, dandogli quasi l’impressione di prendere in
considerazione un dettaglio prima tralasciato; quando parlò di nuovo, però, fu
chiaro che non era esattamente quel che aveva fatto.
«Va bene. Vediamo se il problema è davvero questo qui, questo Aomine.» propose,
portando Kise ad assumere un’espressione piuttosto perplessa.
«Ma so già che il problema è quello.»
«Non credo.» lo blandì il moro, accostandosi perché nemmeno l’uomo dietro il
bancone, occupato con le ordinazioni di un tavolo dopo avergli servito le
bevande richieste, sentisse quelli che erano indubbiamente affari privati: «Non
se, detto senza mezzi termini, finisci per eccitarti anche con un altro uomo.»
Kise fu sicuro di aver sentito male.
Perché l’unica interpretazione possibile per quelle parole, non gli piaceva
affatto.
Non odiatemi <3
Chiedo immensa venia per il ritardo, e approfitto di questo piccolo spazio per
segnalare che anche il prossimo capitolo potrebbe ritardare – spero il meno
possibile, ma non saprei fare una stima.
Purtroppo nel periodo esami è sempre così, e ci aggiungo che Luglio sarà la morte, tra fanfic
di compleanno e contest.
Cercherò comunque di lavorare più celermente possibile 3