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Autore: Hika86    14/06/2013    1 recensioni
Il Giappone è in subbuglio: le guerre si incrociano sul territorio, i potenti si alleano e si tradiscono ogni giorno, l'amico che ti ha sempre difeso, un giorno potrebbe pugnalarti alle spalle, coloro che ti sostengono potrebbero non farlo la vota successiva e d'improvviso chi ami oggi, domani potrebbe essere il nemico...
Ora, in tutto questo casino: io che ci faccio qui?
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kazunari Ninomiya , Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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A quasi un mese dal mio arrivo nel Giappone del sedicesimo secolo ogni mia ferita era guarita. Il giorno del colloquio avevo chiesto ancora una settimana, dicendo che non avrei mai potuto combattere bene se zoppicavo e non accennando al fatto che non avrei saputo combattere nemmeno quando mi fossi sentito sano come un pesce.
Mi era stato concesso ancora un po' di riposo quindi, ma mi avevano cambiato di stanza: quella dov’ero stato fino a quel momento era in realtà la camera da letto del mio nuovo zio, Morikawa Toshiya, che vi tornò. L’ala est della villa, ossia la parte lungo la quale avevo camminato prima di andare alla mia “udienza”, era composta esclusivamente da camere da letto. Quella in cui ero stato fino a quel momento era la più grande e si trovava all’angolo con l’ala sud, che dava sul giardino del retro, poi ce n’erano altre tre. Quella subito adiacente era la camera di Toshinori, il primogenito maschio, nella seconda avevano dormito Nagatoshi e Toshiaki insieme per molto tempo, mentre l’ultima era stata delle due sorelle, ma da quando Akemi era andata in sposa, Rie aveva cominciato a condividerla con Toshiaki, lasciando che anche il secondogenito maschio della famiglia avesse una stanza tutta sua: non sia mai che una ragazza abbia più privilegi di un ragazzo!
Comunque Rie in quella casa non c’era mai. A una settimana dalla sua partenza non era ancora tornata, così tutti i figli maschi di casa Morikawa erano finiti con l’avere le loro stanze private. Almeno fino al mio arrivo.
In quanto cugino di primo grado non potevo certo dormire con la servitù o con i guerrieri che trovavano alloggio nella villa, quindi mi misero in camera con il piccolo Toshiaki. Fortunatamente ci andavo d’accordo, mi bastarono poche parole scambiate con lui per capire che era una specie di Aiba in miniatura, inoltrei beveva qualsiasi balla gli raccontassi, il che mi divertiva parecchio. Ormai per lui le mie mutande erano indumenti tipici dell’isola da cui provenivo e servivano a facilitare i nostri guerrieri quando usavano una tecnica speciale in cui si facevano molti salti e piroette; inoltre gli dissi che sognavo di entrare negli “Arashi”, un gruppo speciale composto dai cinque guerrieri più valorosi delle nostre terre.

«Uno viene chiamato J-musha»² gli raccontai una notte in cui nessuno dei due prendeva sonno. «”J” sta per “jōzu”.³ Combatte con grande eleganza, sul campo di battaglia tutti lo seguono perché non c’è situazione nella quale si faccia prendere dal panico. Lui sa sempre cosa fare ed è uno dei samurai più fedeli di mio padre. Il secondo guerriero, invece, è Keio-musha»⁴
«Che significa?» mi chiese confuso.
Facevo veramente fatica a trattenere le risate quando capivo dalle sue espressioni o dal tono di voce che non aveva il minimo dubbio che quella fosse la verità. «Ha imparato a combattere in una scuola di addestramento di altissimo livello chiamata Keio» mi inventai. «E’ lo stratega migliore di tutto il nostro regno, lui riceve notizie da tutto il Giappone, ha spie ovunque e sa sempre tutto dei nostri nemici. È talmente intelligente che i suoi piani d’attacco falliscono raramente»
«E quando succede, lui che fa?» mi chiese nel buio, sotto strati di coperte per tenerlo al caldo
«Se succede è perché aveva calcolato una sconfitta» gli risposi: Sho non falliva mai, comunque.
«Ma se uno perde, ha perso e basta» mi fece notare
«Le guerre sono più complicate di così, fidati. Dalle mie parti ce ne sono tante quindi sono esperto». Non ho combattuto alcuna guerra mondiale, ma le ho studiate e nel mio tempo effettivamente ci sono guerre che non possono essere giudicate solo in base ad averle perse o vinte. «Andiamo avanti, va bene? Allora, un altro guerriero è Aiba chan» continuai rigirandomi nel mio futon
«E’ un bambino? Oppure è un soprannome?»⁵ chiese confuso
«No, si chiama Aiba Masaki, ma tutti lo conoscono come Aiba chan. È un guerriero molto coraggioso, ma nonostante abbia combattuto tante guerre e abbia visto tanta morte, è rimasto una persona gentile. Non gli piace uccidere, un po’ come al tuo papà, e lo fa solo se costretto o per difendere i più deboli e quelli che ama» mi spiacque non trovare un soprannome cool per la versione samurai di Aiba, ma tutto sommato la sua qualità migliore era proprio la spontaneità e la trasparenza, quindi non riusciva nemmeno a me di nasconderlo dietro uno pseudonimo o di snaturarlo.
«E l’ultimo chi è? È il loro capo?»
«Ryōshi-musha»⁶ dissi a voce bassa. «E’ il più temibile dei quattro»
«Usa un arco?» fece Toshiaki tutto eccitato. Non gli stavo conciliando il sonno, ahimè, stavo facendo l’opposto.
«No, una rete» risposi confuso, poi capii dove stava l’equivoco. «E’ un pescatore, non un cacciatore.⁷ È chiamato così perché è nato in una famiglia di pescatori»
«E come ha fatto a diventare guerriero? Non può» mi fece notare il mio piccolo compagno di stanza. L’errore era stato mio, avevo dimenticato che pur non essendoci ancora stato il periodo Tokugawa, all’epoca non era comunque pensabile che un pescatore diventasse un samurai famoso.⁸
«Quando ha compiuto dieci anni hanno scoperto che era di nobili natali ed è tornato alla sua famiglia d’origine» cercai di correggermi. «Comunque lui è il leader»
«Il cosa?»
«E’ una parola usata nella mia terra per dire che uno è il capo» dissi con pazienza. «E’ uno astuto sai? Se lo vedi non diresti mai che è un grande samurai. Si finge goffo, è sempre silenzioso ed assonnato e sembra interessarsi a qualcosa solo se gli parli di pesci, ma la verità è che lui finge. Vedi, in questo modo ci si accorge difficilmente di lui, allora le persone parlano senza notarlo e lui invece sente tutto. Ascolta chiunque parli e trae in inganno tutti quelli che lo sottovalutano. Dietro l’unità dei quattro membri degli Arashi ci sono la sua calma e la sua capacità di equilibrare le forze»
«J-musha, Keio-musha, Aiba chan, Ryōshi-musha… ma non erano cinque? Chi è il quinto?».
Dovetti spiegargli che il posto era vacante e che speravo un giorno di occupare io quel posto, ma dato che ero un buono a nulla, ero lì, in casa sua, per migliorare sotto l’allenamento di mio cugino Toshinori. Dopodiché ci zittimmo: Nagatoshi, nella stanza accanto, diede un pugno alla parete di carta che separava le due stanze e ci intimò di fare silenzio.

Nagatoshi mi odiava.
In quei giorni però non ne ero ancora consapevole, avevo solo il sospetto che non sarei mai stato il suo cuginetto preferito, ma più avanti avrei avuto occasione di rendermi conto che mi avrebbe sgozzato con piacere se avesse potuto.
Era il secondogenito, quindi non gli spettava nulla in eredità, inoltre non eccelleva nel combattimento dove era Toshinori a prevalere, quindi veniva tagliato fuori da qualsiasi decisione, militare o familiare che fosse. Io, in quanto lontano cugino e quasi estraneo alla famiglia, avrei dovuto essere trattato peggio di lui, ma così non era. Non avevo voce in capitolo nelle decisioni militari, né mi veniva chiesto un parere perché chiaramente non avrei potuto aiutarli, ma il fatto che il capofamiglia mi ricevesse spesso e che Toshinori avesse piacere a stare con me quando non aveva altro da fare, dava l’idea che mi riservassero un trattamento di favore o che fossi tenuto in considerazione più di Nagatoshi. E questo non gli andava giù.
Il giorno prima dell’inizio dell’allenamento chiesi carta e penna e mi misi a scrivere nella mia stanza, lasciando aperti gli shogi che davano sul quadrato del giardino interno della villa. Mi piaceva guardare i servitori affaccendati che pulivano i tatami, curavano le piante o lucidavano il legno dei corridoi. Dalle cucine arrivavano sempre dei buonissimi odori, alcune servette erano delle ragazze molto carine e la sera, quando pulivano i piatti dopo la cena, cantavano a bassa voce.
Fu una di loro a portarmi l’occorrente per scrivere: pennello, barra d’inchiostro solido, suzuri,⁹ contenitore per l'acqua, fermacarta, shitajiki¹⁰ e poggia pennelli. Anche la carta, sì, un rotolo lungo e ruvido.
Davanti a tutto quell’armamentario quasi mi passò la voglia di scrivere: niente penne a sfera nel sedicesimo secolo, maledizione.
Nagatoshi passò davanti alla mia porta proprio durante quel mio momento di sconcerto: si teneva una pezza bagnata sul braccio destro, scoperto dopo aver arrotolato le maniche del kimono; doveva aver preso l’ennesima batosta dal fratello maggiore. «Che succede cugino, non sai usarli?».
Non mi chiamava mai per nome. Usava sempre “cugino” e avevo l’impressione che ci fosse una sottile vena d’ironia in quel suo modo di chiamarmi, come se non si fosse bevuto l’intera storia del parente venuto da un’isola lontana. Il padre aveva deciso di raccontarla a chiunque e di lasciare che la verità la sapessero solo io, lui, Toshinori e Rie, ma dubitavo che Nagatoshi ci avesse creduto fino infondo.
«Non bene, abbiamo queste cose da me, certo, ma solitamente usiamo strumenti più piccoli per scrivere» spiegai con pazienza: il “vengo da lontano” mi salvava il culo in molte occasioni.
«Fūko, porta a mio cugino un pennello più piccolo, sbrigati» ordinò alla giovane inserviente. Nagatoshi sembrava perennemente mestruato e non potendo sfogarsi né col padre, né col fratello maggiore o con i guerrieri da lui comandati, sfogava la sua rabbia su chiunque gli fosse inferiore, il che comprendeva la servitù, la gente in paese e suo fratello minore. Io probabilmente contavo come uno di loro, ma doveva adottare metodi più raffinati per offendermi dato che ero sotto l’ala protettrice dei suoi superiori.
«Non hai dimestichezza a maneggiare cose grandi, cugino?» domandò con un sorrisino di scherno.
Mi venne voglia di insultarlo, era irritante come poche cose al mondo: probabilmente era ancora un verginello che pure con una donna nuda davanti non avrebbe saputo cosa fare, eppure veniva a fare battutine di quel genere a me? A me che se solo avessi voluto avrei potuto avere una donna diversa ogni notte (nel mio tempo e, perché no, anche in questo)?
«Mai quanto te con le cose taglienti» gli risposi trattenendo gli insulti e accennando al braccio su cui stava comparendo un livido violaceo piuttosto grosso. «Fai più attenzione, altrimenti saremo in due a non poter maneggiare cose grandi. E ti assicuro che, per quanto parenti, non penso avrei voglia di darti una mano in quel caso?».
L’arrivo della servetta mi salvò per un pelo da qualsiasi sua reazione. Diventò paonazzo e se ne andò senza aggiungere niente: nessun uomo ha voglia di parlare di abilità manuali davanti ad una donna.
Rimasi solo con quel mucchio di aggeggi per scrivere, ma ero convalescente e quindi avevo tempo da buttare. Disposi la pagina e preparai l’inchiostro. La cosa buona era che essendo mancino e dovendo scrivere in maniera tradizionale –dall’altro al basso, da destra a sinistra- non mi sarei impiastricciato le mani. Rimaneva da vedere se fossi riuscito ad evitare la stessa fine anche al foglio.
Avevo passato un giorno intero a tormentarmi quando mi ero reso conto di essermi preoccupato solo di ciò che era capitato a me e di non aver pensato a cosa poteva essere successo nel mio tempo. Tutto poteva essere: magari il tempo si era fermato nel ventunesimo secolo, in attesa del mio ritorno, oppure no, ma in quel caso non sapevo come scorresse. Un giorno nel 1500 equivaleva ad un giorno nel mio mondo? Oppure il tempo era calibrato in maniera diversa?
Alla fine decisi di pensare all’ipotesi peggiore: se ero nel 1500 da più di tre settimane, allora ero scomparso da altrettanto tempo nel 2000. Dovevo sbrigarmi a trovare un modo per tornare indietro, ma era anche vero che non avevo nessun indizio per capire come fare, e prima di tutto dovevo assicurarmi un posto e una vita più o meno sicuri in quel mondo se non volevo mettere piede fuori casa e venire sgozzato appena giravo l’angolo.
Così mi ero imposto la calma, perché l’avventatezza mi avrebbe ucciso, ma mi ero anche dato delle priorità, cioè che prima veniva il mio ritorno a casa e poi tutto il resto. Se la possibilità di usare la magia e tornare nella mia epoca avesse richiesto di tradire i Morikawa e andare dai Tokudaiji avrei dovuto farlo. Non mi piaceva l’idea, ma non potevo avere dubbi su quel punto.
Scrivere mi sarebbe servito a schiarire le idee. Mi erano accadute tante di quelle cose in poche settimane che avevo bisogno di fare ordine, inoltre fingevo di essere un’altra persona, ventiquattro ore su ventiquattro dovevo modificare il mio carattere e la mia parlata e non avevo più il mio nome. Forse avevo paura di dimenticare chi fossi veramente. Chiesi “carta e inchiostro” perché pensavo di tenere un diario.

Il giorno tanto temuto arrivò.
Avevo passato tutta la settimana a chiedermi come avrei affrontato la mia prima giornata di addestramento perché, parliamoci chiaro, io non sapevo combattere. Il nemico più temibile che io abbia mai affrontato è stato uno scarafaggio grosso quanto il mio pugno e non ho usato molte armi all’infuori di uno spray anti-insetto. Certo, avevo preso qualche lezione in vista di alcune scene di combattimento in alcuni film, ma un conto è saper tenere una spada e fare qualche mossa davanti alla telecamera, un conto è usare un arma con la consapevolezza che è l’unica cosa che impedisce all’altro di sbudellarti.
Non volevo farmi del male, non volevo sudare tutto il giorno nei vestiti da allenamento e l’idea di dover faticare mi faceva sentire stanco ancor prima di cominciare! Quel che mi convinse, fondamentalmente, era che il sudore fosse preferibile alla morte. Quelli non erano anni in cui si dava tanto spazio alla diplomazia, o meglio, il capo famiglia dei Morikawa forse era nella posizione di parlamentare, ma il nemico che mi fossi trovato in faccia una volta fuori di casa non mi avrebbe dato nemmeno il tempo di dire “parliamone”.
Venni presentato al gruppo insieme ad altre due nuove reclute. Uno di loro si chiamava Kazuo e solo per il fatto che aveva un nome simile al mio lo sentii subito affine, ma a parte quello, eravamo diversi come il sole e la luna. Era un energumeno alto ben più di me: ma da dove spuntava un giapponese così in un epoca in cui la popolazione superava a fatica il metro e sessanta?
Ci misero subito in mano delle tachi da allenamento, quindi non affilate. Quelle erano armi talmente antiche che io non le avevo mai viste da vicino nemmeno in un museo, anche se ammetto di non aver mai prestato attenzione a nulla in quei pochi musei che ho visitato. Negli sceneggiati in costume ho usato quasi sempre le katana: sono ben riconoscibili da tutti e l’arte della loro fabbricazione è sopravvissuta negli anni, mentre le tachi sono pezzi d’antiquariato pregiato. Se fossi riuscito a riportarne una a casa avrei potuto rivenderla per un sacco di soldi…
Tornando al combattimento, dovevamo fare una dimostrazione delle nostre capacità, il che avrebbe significato ben poco nel mio caso, ma non volevo fare la figura dell’imbecille fin dal primo giorno, così decisi che in un modo o nell’altro avrei perlomeno tentato di zampettare in giro evitando gli affondi.
Ovviamente la mia era una speranza sciocca, non avevo idea di come fosse uno scontro reale: al primo incrociarsi di lame sentii un brivido salirmi sulla schiena per lo stridere del ferro e in un attimo mi resi conto che sarei morto sul serio se quell’affare fosse stato affilato e se mi avesse preso nei punti sbagliati. Allora ebbi paura, una paura gigantesca che cancellò ogni altra emozione: quella fu la prima volta in cui in me, uomo del ventunesimo secolo, si risvegliò l’istinto di conservazione, un istinto primitivo e selvaggio fortissimo che prima non avevo mai avuto bisogno di sentire. In un attimo l’adrenalina cominciò ad aumentare e tutta la mia attenzione si focalizzò sul bestione che avevo davanti e sulla sua lama. Non sapevo cosa farmene della mia, ma usai tutto ciò che ero in grado di fare per difendermi: lo guardavo, percepivo i suoi movimenti e li evitavo. Sbalordii persino me stesso.
Andai avanti per lunghissimo tempo ad evitare e parare colpi. Quando Kazuo mi diede un attimo di tregua, ebbi il tempo di realizzare che ero sudato marcio, che i muscoli mi facevano male per l’eccessivo sforzo e che avevo il fiato talmente corto da far pensare ad un attacco d’asma. I guerrieri mi stavano gridando di smetterla di scappare e di affrontare il mio nemico. Ma come? Lo squadrai e ripensai a quei momenti di lotta: questo ragazzo era grosso e forte, ma non aveva tecnica -come me del resto- e inoltre non era rapido, infatti non avevo avuto grossi problemi a sfuggirgli. Dovevo sfruttare in qualche modo la mia piccolezza e metterlo fuorigioco per potermi afflosciare in un angolo a riprendere fiato.
Ad un suo ennesimo attacco, schivai accovacciandomi a terra. A quel punto mi trovai davanti agli occhi le sue gambe, del tutto prive di difesa, quindi pensai di allungare la spada per dargli un colpo alle caviglie: se la lama fosse stata reale gliele avrei affettate. Non avevo calcolato però che la portata del suo braccio era più lunga della mia, così falciai l’aria e, rimanendo accucciato come una ranocchia, mi ritrovai la punta della spada di Kazuo puntata alla gola. «Ha vinto Kazuo! Bravo Kazuo!» applaudivano alcuni.
Un gruppetto ridacchiava di me, ovviamente tra loro c’era anche Nagatoshi. «Non te la prendere cugino, sarebbe potuta andare peggio» mi disse divertito
«Illuminami» sbuffai sbilanciandomi all’indietro e lasciandomi cadere col sedere a terra: i muscoli delle mie gambe imploravano pietà.
«In quella posizione poteva decidere se tagliarti la testa o il braccio. Ha scelto la testa e in uno scontro reale te la saresti cavata in un attimo senza sentire niente, ma se avesse scelto il braccio, stai pur certo che saresti sopravvissuto a lungo per sentire tutto il dolore possibile prima di morire dissanguato».
Quali soavi prospettive! Ma dovevo aspettarmelo: dalla bocca di Nagatoshi non usciva mai niente di soave, almeno non quando parlava con me.
Il mio avversario mi allungò la mano, offrendosi di aiutarmi a tornare in piedi. Sarei rimasto volentieri in mezzo alla sabbia a boccheggiare come una trota morente, ma in quanto al ridicolo, me n’ero coperto a sufficienza per quel giorno. «Grazie» sospirai ancora con il fiato corto
«Di nulla, sei bravo» fece questi ed io lo osservai di sbieco, sicuro che mi stesse prendendo per i fondelli e nemmeno troppo velatamente
«E’ vero! Hai molto da migliorare, certo» fece Toshinori avvicinandosi a noi con un sorriso. «Ma hai dei riflessi niente male, si può cominciare a lavorare su quelli». Non so se da un uomo del futuro si aspettasse qualcosa di più e se l’avevo deluso non lo diede a vedere. «E’ anche vero che Kazuo non ha una stazza particolarmente adatta ai combattimenti rapidi» rise dando una pacca sulla spalla all’altro. Tra tutti e due era questi ad essere più massiccio, ma anche Toshinori non scherzava. «Mettiamo alla prova i tuoi riflessi contro qualcuno di più abile?»
«Ma no, sono sicuramente scarso» cercai di sminuirmi per evitare di rimettermi a combattere, ma il mio fu un tentativo vano: mi toccò dimostrare la mia incapacità altre due volte.
Uscii a pezzi da quella prima giornata. Tre combattimenti di allenamento in cui non avevo né battuto, né ferito, né sconfitto nessuno non erano un risultato grandioso in un periodo in cui gli scontri armati erano all’ordine del giorno. Era anche vero che –a parte il colpo di grazia- io non avevo ricevuto nemmeno un graffio, quindi in uno scontro vero sarei stato un cadavere molto pulito! Comunque, essendo stato un allenamento, il mattino dopo mi sarei dovuto preoccupare solo dei dolori muscolari e non degli ematomi. Magra consolazione.

Passarono due settimane in cui feci allenamenti tutti i giorni, senza sosta. Non sapevo nemmeno se fosse sabato o mercoledì, non c’era alcuna differenza dato che a quei tempi non conoscevano il weekend di riposo.
Toshiaki tutte le sere mi aiutava a mettere degli unguenti sulle ferite e sulle sbucciature, mentre Fūko chan preparava dei pastrocchi di erbe per fare degli impacchi da mettere sui lividi più grossi. La servetta era molto graziosa e sembrava essersi affezionata a me dopo che avevo difeso lei e un paio di altri servitori dai maltrattamenti di Nagatoshi. Sospettavo che si fosse presa una cotta –nonostante i lividi e le sbucciature fossero molto poco sexy- e probabilmente, se avessi voluto, avrei pure potuto approfittarmene; ma per quanto carina fosse, ogni giorno ero sempre più malconcio e troppo stanco per voler fare altro movimento fisico.
Tra l’altro avevo altri problemi a cui pensare. Combattevo ogni giorno, certo, ma c’era anche il fatto che mangiavo molto meno di quanto il mio stomaco del ventunesimo secolo fosse abituato e poi faceva sempre più freddo: l’inverno irrigidiva sempre di più le temperature e in quella casa ovviamente non era previsto alcun impianto di riscaldamento. Avrei dovuto aspettare parecchio tempo prima di vedere l’elettricità, figuriamoci la climatizzazione! La notte io e Toshiaki cominciammo a dormire nello stesso futon ammassando tutte le nostre coperte e dormendo abbracciati per scaldarci. Era come avere un fratellino minore e con il gelo che si sentiva fuori non me ne fregava un accidente di dormire abbracciato ad un altro ragazzo: la notte bramavo il calore molto più del cibo.
Una notte maledissi chiunque nella mia testa per non aver fatto i bisogni prima di essere andato a dormire e alla fine lo stimolo fu talmente forte che mi decisi a sgusciare fuori dalle coperte. Spesso ci dimenticavamo i pitali prima di andare a dormire e infatti in camera non c’era. Presi la coperta del primo strato e me la misi sulle spalle per poi aprire le porte scorrevoli che davano sul ballatoio del cortile interno: i pitali erano lavati nelle cucine e messi ad asciugare sul ballatoio. Richiusi la porta per non far entrare il freddo e feci per zampettare rapidamente a recuperare il nostro, ma notai che c’era una luce accesa nella prima sala di ricevimento degli ospiti, dall’altra parte del cortile. Era molto tardi e a quell’ora di solito nessuno era sveglio, quindi mi incuriosì vedere che qualcuno era ancora in piedi. Camminai lentamente sul terzo listello di parquet da sinistra (avendo dovuto recuperare il pitale molto spesso durante la notte, avevo scoperto che lungo quel cammino, il legno scricchiolava pochissimo) e mi accucciai con cautela a lato delle porte scorrevoli della sala.
«Mi auguro che il viaggio sia stato tranquillo» sentii la voce di Morikawa
«Siamo ben scortati e sappiamo di non aver nulla da temere in queste terre, non siamo noi il nemico» rispose uno sconosciuto
«Nessuno è un nemico»
«Amico mio, so che tu insisti con la tua linea diplomatica, ma sai anche tu che siamo agli sgoccioli: la tensione sta raggiungendo il culmine, presto o tardi basterà un incidente qualsiasi per scatenare la rivolta»
«Non possiamo permetterlo. Non possiamo» lo sentii opporsi con veemenza. «Hai sentito anche tu le notizie che arrivarono quando i Tokudaiji cominciarono a conquistare i territori adiacenti»
«Orribili, certo, ma»
«”ma” che cosa? Amico mio, parliamo di uomini uccisi a centinaia, donne rapite, figli orfani, popolazioni ridotte alla fame. Noi dobbiamo trovare una soluzione pacifica»
«Parleremo domani, ti dispiace? Sono stanco, questi lunghi viaggi non sono più adatti a quelli della nostra età» lo sconosciuto sviò il discorso, addolcendo il proprio tono di voce
«Ma certo, i ragazzi dormono nella stanza a fianco, per stasera ti farò accomodare qui, domani ci sistemeremo meglio».
Li sentii che si alzavano in un frusciare di kimono e cuscini, quindi mi affrettai a tornare indietro. Afferrai il pitale e tornai in punta di piedi nella camera. Mentre svuotavo la vescica mi maledissi: mi ero gelato il culo lì fuori solo per scoprire che erano arrivati degli ospiti durante la notte, bella scoperta! Ero proprio un fesso.

Il mattino seguente nessuno venne a svegliarmi, quindi continuai a dormire imperterrito fino a metà mattina. Mi alzai quando ormai la luce era troppo forte per continuare a dormire. Mi vestii e consumai una rapida colazione nella stanza. Mentre mangiavo, un inserviente mi avvisò che per quel giorno ero stato esonerato dagli allenamenti ed ero libero di fare quel che volevo. Ormai erano svariate settimane che non provavo la gioia tipica di quando ho un giorno libero dal lavoro, peccato che mi mancassero i miei soliti passatemi: manga, videogiochi e patatine.
Decisi di andare al villaggio, dovevo cercare del materiale per farmi delle altre mutande, inoltre volevo dare un’occhiata al Giappone in cui ero finito. Ero curioso di vedere come si viveva e com’erano fatti i centri abitati, non ricordavo molto di ciò che avevo visto al mio arrivo lì.
Scrissi qualche riga sul foglio che portava la data del giorno prima, completando la pagina di diario, dopodiché andai nell’ala sud della villa e salii le scale per andare a cercare Kazuo nelle piccole stanzette dove risiedevano alcuni degli uomini del piccolo esercito dei Morikawa. Ero curioso di vedere quel mondo, ma non ero scemo: ero ancora incapace con la lama, al punto che mi avrebbero ucciso senza difficoltà, ma portando Kazuo con me avrei avuto una guida per non perdermi, un compagno per guardarmi le spalle e un alleato massiccio con cui la gente avrebbe difficilmente attaccato briga. E dire che lui era un ragazzo tanto tranquillo. Non era un gigante buono, anzi, se doveva tirarti un ceffone te lo dava e se doveva difendersi lo faceva senza alcuna pietà per il suo nemico, ma non era tipo da cercare la rissa e parlava in maniera gentile a confronto degli altri compagni che erano l’equivalente cinquecentesco di un branco quindicenni ribelli e sboccati.
«Kazuo kun, ci sei?» domandai affacciandomi alle camerate
«Ehilà Kazunari» salutarono alcuni compagni d’arme. «Hanno dato il riposo anche a te?»
«Finalmente» mi limitai a rispondere. Erano simpatici, non avevo nulla contro di loro, però non sono mai stato bravo nelle relazioni pubbliche.
«E’ qui che sta sistemando il futon» risero dalla stanza infondo. «Kazuo! Ti cercano!».
Il ragazzo si affacciò al corridoio con in braccio alcune coperte. «Kazunari, buongiorno» sorrise. «Mi cercavi?»
«Volevo fare un giro al villaggio, da quando sono arrivato non sono mai uscito dalla villa, ho voglia di andare un po’ in giro» gli spiegai. «Però mi serve qualcuno del posto, ti va di accompagnarmi?»
«Ma certo, finisco qui e andiamo» annuì tutto contento.
Parlava spesso del villaggio, ci abitavano le tre sorelle con le quali era cresciuto, le uniche parenti che gli fossero rimaste. Una sapeva cucire e guadagnava qualcosa facendo rammenti e piccoli lavoretti, un’altra faceva le consegne per alcuni negozi, mentre la più piccola andava ancora a scuola. Per quanto ognuna facesse del suo meglio, era il salario da guerriero di Kazuo che manteneva tutti quanti.
Un’ora dopo eravamo sulla strada per il centro abitato portando con noi un mulo e una lista di cose da comprare che ci era stata data da Haruko, che era una specie di governante alla villa, la signora suprema della cucina: dato che andavamo fino al villaggio aveva deciso di sfruttarci e farci comprare quel che serviva, così da non dover mandare qualche inserviente o le servette che erano più utili a casa in quel momento, dato che c’erano ospiti.
Io però non avevo visto facce nuove, ma era anche vero che non avevamo incrociato nessuno per i corridoi della villa o nello spiazzo. Ovunque fossero i Morikawa e i guerrieri non a riposo, non erano lì quel giorno.
«E te lo tiene bene?» domandava Kazuo lungo la strada
«Certo che sì, hai visto cosa ho fatto l’altro giorno?»
«Oh sì, pazzesco! Non ho mai visto nessuno fare una cosa del genere» disse guardandomi sbalordito. Durante l’allenamento del giorno prima avevo schivato un colpo e mi ero fatto indietro con un backflip: era una delle poche cose acrobatiche che sapessi fare e aveva stupito tutti, compreso Toshinori. «E dici che è tipico del tuo paese»
«Sì, per quello ho bisogno di questo indumento» annuii, stavo cercando di spiegargli l’utilità delle mutande: non avrei mi fatto backflip senza indossarne un paio. «E’ specifico della nostra zona perché anche quella mossa è delle nostre parti»
«Da come lo descrivi sembra che i combattenti da te volino e saltino tutti»
«Più o meno» risposi stringendomi nelle spalle. Mentire a Kazuo non era divertente come con Toshiaki. Ci credeva quanto il bambino, ma non avevo voglia di raccontargli bugie, non a lui. Avendo cominciato l’allenamento insieme, eravamo un po’ come compagni di classe: eravamo molto diversi, quindi ciò in cui lui riusciva a me non veniva e viceversa, allora cercavamo di aiutarci e di compensarci durante gli allenamenti. Apprezzavo la sua compagnia, faceva poche domande e non era eccessivamente chiacchierone.
Il villaggio mi fece una strana impressione. Molte case erano costruite di sola paglia e poco legno per tenerla insieme, i tetti sembravano ciuffi d’erba gialla pronta a prendere fuoco da un momento all’altro. Alcune costruzioni invece erano soprattutto in legno, sapientemente incastrato come da regola dell’architettura giapponese. Le strade non erano cementificate, chiaramente, ma non c’era nemmeno un acciottolato o una lastricazione rudimentale, era solo terra. C’erano sentieri più larghi e calpestati nelle due vie principali, poi c’erano sentierini meno chiari, alcuni poco visibili e coperti dalle foglie secche. Pensavo di essere finito in qualche villaggio sperduto dell’africa nera, invece ero nel mio paese, in Giappone, il paese che nel mio mondo era la seconda potenza mondiale.
Come prima cosa passammo a casa di Kazuo. Girare per le stradine delle case popolari fu un vero trauma. Gli odori erano meno forti della prima volta perché il freddo gelava ogni cosa, ma non poteva comunque nascondere del tutto la puzza di feci, quella degli animali nei cortili o l’odore di legna bruciata. Quelle case ovviamente erano messe peggio della villa in quanto a spifferi, ma erano spesso ad una stanza unica, quindi le persone dormivano lì dov’era acceso ancora il fuoco del pasto serale. Anche per questo le case andavano a fuoco facilmente. Non c’era solo la guerra ad attentare alla vita delle persone.
Noi arrivammo all’ora di pranzo e nessuna delle sorelle era in casa. Preparammo del riso e una zuppa con dentro un po’ di avanzi: i sapori cozzavano tra di loro in maniera quasi disgustosa, ma era un pasto più succulento di quello che mangiavamo nei giorni di allenamento, quindi spazzolammo tutta la pentola senza lamentarci di nulla.
Dopo aver bevuto un pochino di sake da un vecchio otre, ci rilassammo davanti al fuoco su cui avevamo cucinato, aspettando che morisse per poter lasciare la casa in sicurezza. Avrei pagato oro per un fuoco così davanti al letto la sera, ma rischiavo di morire bruciato, quindi a malincuore accettavo il mio gelido destino. Fissai le fiamme annotandomi mentalmente di abbracciare il mio climatizzatore e di trattarlo bene una volta che fossi tornato.
Oltre al fuoco, anche il sake ci aveva scaldato, così ci rimettemmo in strada belli pimpanti, pronti a fare la spesa. Prendemmo il riso, comprammo un paio di frutti e alcuni tessuti. Era lì che stavo rovistando nella vana speranza che mi venisse qualche idea brillante: non avevo fatto caso che le mutande si reggevano grazie agli elastici e di certo non avrei trovato fasce elastiche con cui cucirmene un paio, quindi dovevo trovare una soluzione alternativa, perché in inverno gli indumenti ci mettevano molto ad asciugarsi e non mi andava di affidare alle servette il mio intimo solo perchè al calore della cucina sarebbe stato asciutto più in fretta, quindi avevo urgente bisogno di uno o due ricambi.
Proprio mentre io capovolgevo tessuti e nastri, e Kazuo mi guardava imbarazzato notando gli sguardi perplessi della padrona del negozio, delle persone armate entrarono dalla porta. «Dov’è il proprietario?» chiesero ad alta voce, come se il posto fosse loro
«Signori, sono io. Ditemi, che posso fare per voi?» domandò la donna avvicinandosi a loro a capo chino, con fare ossequioso. Era abbastanza spaventata, il che mi suggerì di rimanere nascosto dietro una pila di stoffe.
«Sequestriamo il negozio» rispose un altro
«Come? Signori, che ho fatto?» squittì la donna allarmata
«Taci donna, esci di qui» fece il primo spintonandola verso l’uscita. «Anche tu garzone, fuori» dissero verso Kazuo.
Il mio compagno lanciò un’occhiata nella mia direzione senza vedermi, quindi si inchinò e si avvicinò alla donna. «Signora usciamo, è meglio»
«No, vi prego! Non potete togliermi la bottega» aveva cominciato ad implorare alzando la voce per la paura
«Falla stare zitta o ci penseremo noi» asserì serio quello che doveva essere il capo
«Lei è accusata di aver venduto ai ribelli del Signore di queste terre. È in combutta con i sovversivi, quindi per legge la priviamo di ogni mezzo per appoggiare la causa di questi individui che lottano contro la pace dei Tokudaiji» spiegò un terzo, intanto altri due cominciavano a girare per lo spazio angusto della bottega, guardandosi in giro.
Per non farmi scoprire mi nascosi sotto un tavolo di stoffe spiegazzate che mi avrebbero coperto. Non sapevo bene perché mi fossi nascosto o che cosa intendessi fare una volta lì sotto: non li avrei certo attaccati per difendere la signora, quindi perché rischiare di farmi scoprire ed essere così sospettato di volerli prendere alla sprovvista? O magari di essere uno dei ribelli! (cosa quasi vera, tra l’altro) Non sarebbero andati molto per il sottile e io non ero ancora capace di difendermi a dovere, quindi perché quella mossa?
Il sake. Doveva essere colpa del sake.
Ad un certo punto, uno del gruppetto armato cacciò un lamento e cadde a terra stordito. «Che succede? Cos’è stato?» domandarono i compagni accorrendo. Il tizio era caduto con la faccia rivolta verso il mio tavolo, se non fosse stato privo di sensi mi avrebbe visto e avrebbe avvisato gli altri.
Altri passi si aggiunsero a quelli del gruppo armato, grida di battaglia e di ordini e sentii lo stridere insopportabile delle lame. Alzai gli occhi al cielo perché quello sicuramente non era il mio giorno fortunato: volevo solo un paio di mutande, era chiedere troppo?
Dopo alcuni momenti di confusione e di battaglia, un ferito venne a sbattere contro il tavolo e lo rovesciò rivelandomi a tutti. Per un attimo non vidi niente perché alcuni lembi di stoffa mi cascarono sulla testa e mi presi un mezzo infarto quando, tolto l’ultimo strato di lino ruvido, mi trovai una lama a pochi centimetri dal viso. Ci vollero pochi secondi per capire che non era puntata contro di me, ma era ancora in mano al tizio che era rovinato sul tavolo.
Tutti urlarono a tutti della mia presenza, probabilmente nessuno dei presenti mi riteneva dalla sua parte dato che non sapevano che fossi lì, quindi presi la lama che avevo davanti al naso e la tirai verso di me, in preda al panico: se non mi fossi difeso sarei morto su due piedi, per mano dell'una o dell'altra parte. Mi tagliai immediatamente le palme delle mani: non era una tachi da allenamento, ma una reale e ben affilata. Trattenni a stento un grido di dolore, ma non rinunciai a prendere con me l'arma anche perchè con la coda dell'occhio intuii che una figura si stava avvicinando velocemente per scagliarsi contro di me. L'adrenalina provata durante i combattimenti di allenamento non era nulla in confronto a quella che mi spinse a muovermi in quel momento: senza aver ancora impugnato a dovere la tachi del nemico stordito, gattonai rapidamente sotto un tavolo vicino, ma chiunque mi stesse inseguendo ci si avventò contro e lo ribaltò immediatamente. Gattonai sotto il terzo tavolo ancora stringendo nella mano destra la lama. Avevo il fiato corto nonostante non avessi ancora fatto nessuno sforzo fisico, sentivo la gola secca e gli occhi che mi bruciavano.
Ancora una volta il mio inseguitore rovesciò la mia copertura mentre passavo sotto il quarto e ultimo tavolo. Il ginocchio che mi ero ferito quasi due mesi prima cominciò a farmi male e anche l’altro non prese bene il fatto di dover sbattere contro il legno ad una simile velocità. Nel frattempo mi decisi ad impugnare la spada dalla parte dell’elsa, cosa non facile perché dai tagli avevo cominciato a perdere un sacco di sangue e tutto ciò che toccava veniva macchiato e diventava viscido. Sul momento non ci feci caso comunque, perché saltato via il quarto tavolo mi ritrovai totalmente scoperto. L’uscita era vicina però, avrei dovuto resistere il tempo di qualche parata e sarei fuggito. I battiti del mio cuore mi rimbombavano nelle orecchie e quando riuscii a bloccare il primo attacco del mio nemico, l’affondo fu talmente violento che mi sembrò di sentire la percossa come se fosse stata data direttamente sull’osso del mio braccio invece che sulla spada. Rimase a guardarmi con una faccia spaventosa, probabilmente la stessa espressione che ha un leone quando sta per uccidere una lepre, ed io avevo cominciato a lacrimare, il che non contribuiva a rendermi un nemico temibile. Non sapevo nemmeno per cosa fosse quel pianto: paura? Dolore?
Fui fortunato che uno dei nuovi arrivati -vestiti di scuro, incappucciati e col viso coperto- attaccò alle spalle il mio aggressore, affondando la propria arma nella sua schiena. L'espressione feroce che aveva fino a poco prima si sciolse in un misto di incredulità e sofferenza. Mi gridò in faccia il suo dolore e prima di accasciarsi sputacchiò del sangue sul mio kimono.
Estratta la lama dal corpo del nemico che mi morì addosso, l’attaccante in abiti scuri mi fissò per qualche secondo ed io lo guardai a mia volta: ero sicuro che mi avrebbe infilzato come uno spiedino ed io non avrei mai fatto ritorno a casa.

¹ (il titolo) il guerriero delle mutande
² Il guerriero J
³ Significa “bravo”, “capace”, “dotato”
⁴ Il guerriero Keio, il nome dell’università di Tokyo in cui ha studiato Sakurai Sho
⁵ "chan" è un suffisso usato soprattutto per i bambini o comunque come vezzeggiativo, poco adatto ad un samurai insomma
⁶ Il guerriero pescatore
⁷ A seconda del kanji usato “ryōshi” può significare pescatore o cacciatore
⁸ Nell’epoca Tokugawa (1603-1868), chiamata così dagli omonimi shōgun che si sono succeduti negli anni, la società giapponese era divisa in quattro classi molto rigide secondo il sistema chiamato mibunsei: samurai, contadini, artigiani, mercanti (in ordine di importanza). la classe di appartenenza si ereditava, quindi non era prevista alcuna mobilità o scalata sociale.
⁹ E' la pietra su cui si prepara l'inchiostro
¹⁰ Il panno da mettere sotto il foglio, serviva a non macchiare il tavolo con l'inchiostro che fosse eventualmente filtrato attraverso la carta


Più leggo il titolo più rido. Mi spiace per Nino, ma sto morendo di risate nel leggere le sue disavventure (ehm... veramente sei tu quella che le scrive....). Però mi vengono anche i brividi, per gente come noi, finire in un tempo così primitivo dev'essere duro e un po' mi dispiace per Ninuccio. Ma apprezzo l'ironia e l'arrangiarsi con cui cerca sempre di cavarsela. E finora ce l'ha fatta, in qualche modo. Adesso però c'ha un uomo morente tra le braccia e rischia di diventarlo a sua volta, per mano di un tipo irriconoscibile... e poi chi sono i nuovi ospiti misteriori?
Vorrei proprio sapere come va a finire! (ti ripeto che sei tu che la scrivi questa roba!)

Grazie a Rebel Girl e WhenItsTime per i commenti carinissimi e stimolanti *-* I love you!

  
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