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Autore: Fanny Jumping Sparrow    14/06/2013    7 recensioni
Tutti quanti conosciamo l’eccentrico ed affascinante Capitan Jack Sparrow, ma poco o nulla sappiamo delle sue origini.
Chi erano i suoi genitori? Come si sono conosciuti? Quanto hanno inciso i loro caratteri e la loro storia d’amore sul famigerato pirata che ha conquistato i nostri cuori?
Con questa breve long-fic proverò a dare risposta a questi spinosi ed enigmatici interrogativi, usando molta fantasia, qualche dato certo e parecchie speculazioni personali.
Buona permanenza a chi vorrà imbarcarsi!
La terra arsa poteva conciliarsi con l’intemperanza del mare?
Poteva trattarsi di un sofferto addio, oppure del nodo definitivo di un cappio di fuoco che non si sarebbe spento nemmeno con la forza di mille maree future.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Capitan Edward Teague, Jack Sparrow
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Buona sera, ciurma!
Torno dopo molte maree e con un carico di scuse, a proporvi il secondo capitolo di questa breve long avente per protagonisti i genitori del nostro stimatissimo Capitan Sparrow.
Ho ancora una volta immaginato le vicende aggrappandomi a quell'unica scena che li vede insieme (^^), e al carattere del Capitano, cercando di separare le doti apprese dal papà e quelle ereditate dalla misteriosa mamma.
Inutile dirvi che ho dovuto scavare e spolverare sotto spessi strati di rughe per immaginarmi un Capitan Teague ventenne e nel frattempo, dovendo cercare di capire che faccia e aspetto potesse avere, ho accuratamente vagliato clip e foto del suo interprete, per chi non lo sapesse Mr Keith Richards dei mitici Rolling Stones, cui lo stesso Depp ha dichiarato più volte di essersi esplicitamente ispirato per costruire il personaggio di Jack.
Sarà anche per questo che io nel frattempo me ne sono perdutamente innamorata? <3

Comunque sia, come al solito commenti, critiche, proiettili, bottiglie sono sempre ben accetti.
Ringrazio infinitamente chi ha già letto il capitolo precedente e chi ha dato fiducia a questa storia mettendola tra le seguite, preferite o ricordate.
Il capitolo è pienamente ARANCIO (o almeno credo) per linguaggio e temi. Spero di non deludere le vostre aspettative.

Al prossimo approdo!)

ps: ci sono alcune citazioni stonesiane per chi leggendo lo sospettasse...





II – CRAZY SEAGULLS




Serrate e asciutte. Così le labbra, così le palpebre.
Non perché non avesse motivo di urlare o piangere. Era uno sfogo cui non voleva più cedere, tanto ormai sapeva che non avrebbe smosso la sua compassione. Uno scarto come lei non la meritava, piuttosto si sarebbe guadagnata gratuitamente altri insulti. Alcuni non li capiva neanche, li riconosceva dall’ansito sgraziato con cui gli vibravano in gola in quegli orribili momenti di buio.
La sua indole da rondine infine era stata tarpata, e per lei, catturata e ingabbiata, era iniziata una lenta agonia. Aveva lottato, si era ribellata, aveva morso e picchiato, vedendosi ritorcere ogni azione con gli interessi.
Rinchiusa lì dentro aveva visto spegnersi almeno nove tramonti. Il suo fragile corpo reclamava fosse da troppo.
Sperava che con quella resistenza passiva lo avrebbe sfinito, anche se quella convinzione stava perdendo consistenza, come la rugiada non protetta dall’ombra.
Avrebbe dovuto rimanere con i piedi ben saldi sulla terra, suo padre l’aveva ammonita in un’infinità di occasioni sull’assurdità dei suoi sogni: viaggiare, vivere alla giornata, conoscere gente al di fuori della sua cerchia. Era sempre stata impulsiva e cocciuta, ma anche vulnerabile e debole. Infatti non aveva mai avuto l’intraprendenza di abbandonare davvero la sua bella casa per più di qualche ora: era sgattaiolata alcuni pomeriggi dalla sorveglianza della servitù e delle sorellastre maggiori per poi reintrufolarsi prima che fosse troppo tardi e i suoi fossero troppo in ansia. Aveva visto poco o nulla in quelle brevi fughe, giusto il tempo di provare l’ebbrezza di affrontare da sola quel che c’era al di là della sua quieta e perfetta esistenza da privilegiata.
Ma il mondo era molto più grande e pericoloso di qualche stradina di periferia e lei era stata punita per la sua avventatezza. Aveva scioccamente scambiato l’apprensiva saggezza del suo genitore per arida autorità, e nonostante tutto gli aveva disobbedito ancora, dopo che le era stato portato via. Perché voleva misurarsi e forse dimostrargli che poteva essere diversa da tutti loro.
Aveva vagato per mesi imbarcandosi clandestinamente su chiatte e feluche che pullulavano i mari d’Oriente, ma ogni qual volta provava a fermarsi troppo a lungo in un porto un incomprensibile malessere l’attanagliava. Ora era stremata, priva di volontà; e questo la stava uccidendo più della prigionia e degli abusi che era costretta a subire quasi quotidianamente.
Anche all'esterno la natura stava infuriando.
Il suo carceriere si legò la fusciacca, candida come i calzoni, e riaffibbiò i bottoni dell’elegante giacca blu con le mostrine. Si assicurò che i bracciali fossero ben stretti, quindi le lanciò in fretta un ripugnante saluto che equivaleva ad un’ennesima promessa di male:
- A domani, passerotta.
Se non altro si era trattenuto meno, soltanto perché l’infimo senso del dovere, o forse il timore di essere accusato per la sua assenza, l’avevano indotto a rinunciare.
Lo avvertì immettere quelle due maledette mandate e allora, dolorante e nauseata, si alzò dal pavimento per raggomitolarsi sulla misera brandina sfasciata. E mentre nell’aria rombava l’eco di un temporale, la ragazza liberò i singhiozzi che le gonfiavano il cuore.
La pioggia batteva sulle pareti confortandola con il suo suono argentino.
Era insensato, ma le sembrò la premonizione che qualcosa stesse per cambiare.


Alla fine aveva ceduto. Quella cagna assatanata gli aveva sbavato dietro dal primo istante in cui l’aveva incrociato, anche se lui si era addentrato in quel postribolo per altri affari.
Quale impressione gli avesse fatto, poi, non lo capiva affatto. Era l’intoccabile moglie del proprietario, lui era uno spiantato che aveva ad occhio e croce la metà dei suoi anni, e lì brulicava di marinai infoiati che si sarebbero giocati fino all’ultimo dente d’oro pur di accattivarsi i suoi favori.
Lo aveva stuzzicato tutte le volte in cui, esattamente come quella sera, si recava lì per rivendere grosse partite di liquori, tabacco e spezie che avevano razziato in settimane di piratesche imprese. Era entrato per arricchirsi, non per sperperare, e avrebbe dovuto trattenersi poco perché quel mare nero non prometteva un viaggio privo di intoppi.
Invece si era crogiolato nella lussuria. Poteva dare la colpa alla sbornia, alla stanchezza, alla solitudine, alla noia, o, senza voler essere tanto disonesto, esclusivamente al crudo bisogno di appagare un prurito che avrebbe dovuto tacere o colmare con la fantasia negli interminabili mesi lontano da voluttuosi approdi.
Era finito nel suo letto e già non sopportava il suo sudicio aroma di carne corrotta dal vizio impregnargli la pelle e i capelli. Aveva un retrogusto pestifero e asfissiante, come la morte che avvinceva e cancellava. Doveva uscire subito e riempirsi i polmoni di salsedine per scacciare quella ributtante sensazione che gli affaticava il respiro.
Edward saltò su con un impeto di repulsione, scostando dal rorido addome le pallide braccia dell’amante clandestina, gettandosi nella penombra del mattino a recuperare i vestiti sparsi sui rozzi mobili. Un lamento soffocato lo costrinse a voltarsi per accertarsi di non averla destata, ma, sfortunatamente, quando si girò la donna era seduta tra le lenzuola spiegazzate e lo fissava maliziosa invitandolo a restare ancora, torcendosi tra le dita una ciocca biondo paglierino ed inarcandosi felina.
Dopo un attimo di indecisione il giovane le andò incontro, passo ciondolante e un’espressione impassibile e losca che la infiammò mentre si chinava su di lei e infilava la mano nella giacca, poggiandole un pesante borsello tra le cosce.
La bionda sgranò gli occhi cerulei, corrugando i floridi lineamenti e annaspando di indignazione.
- Spendili bene, almeno tu – le sussurrò il giovane pirata, allontanandosi e portando tre dita alla fronte in un galante saluto che stonava con la beffarda offesa appena elargita.

Un pungente vento di burrasca flagellava il molo galleggiante del porto di Cork, rendendolo oltremodo instabile, ma Edward avanzò imperturbabile assecondandone le oscillazioni, ritemprato dall’aria salmastra che si infiltrava in ogni poro, ripulendolo.
- Stavamo per salpare senza di te, rubacuori! – lo schernì Ismael, indicandogli la scialuppa che beccheggiava vistosamente tra i flutti verdastri. Teague ruotò le orbite al cielo con un burbero mugugno, afferrando la sua mano e prendendo posto sul sedile in fondo a poppa.
Tre ore più tardi la Dama di Nebbia aveva detto addio alle scogliere frastagliate della verde Irlanda e solcava superba le profonde e immense acque dell’Oceano Atlantico. L’inverno era alle porte sicché apparivano desolate e gelide in quella stagione. Pochissime navi vi si avventuravano, così anche loro erano costretti a migrare verso i mari del Sud per trovare qualche allettante carico da arrembare, poiché nessuno osava mai pensare di arrestarsi. E dopotutto non esisteva luogo sicuro in cui mollare le ancore per più di una notte, esclusa la Baia dei Relitti, che però era riservata ai filibustieri di alto lignaggio. Occorrevano anni di esperienza e fama da vendere per potervi attraccare senza correre il rischio di finire impallinati appena avvistati. E inoltre solo ad un numero ristretto di bucanieri era dato conoscere la sua reale ubicazione.
Edward Teague non riteneva di essere presuntuoso nel lasciarsi lusingare dalla certezza che presto quel posto sarebbe divenuto la sua seconda dimora, dopo il mare, ovviamente. Perché in fondo tutti quanti iniziavano imitando i propri eroi, e lui aveva cominciato in anticipo rispetto a chiunque altro.
Sua madre gli aveva donato una vera spada per il suo terzo compleanno, e al settimo già gli aveva affidato il timone del suo catamarano. Ora attendeva l’abbordaggio più propizio per rivelarsi al mondo, perciò non poteva permettersi di oziare, neanche con quel tempaccio ostile. Restava vigile, corroso da una viscerale smania che si riversava nella conquista imperterrita di nuovi orizzonti, immolando i momenti di meritato riposo, e imponendo con durezza lo stesso comportamento alla ciurma.
E poi venivano i giorni in cui semplicemente non aveva la minima intenzione di parlare, tantomeno di vedere qualcuno, e allora si eclissava a lungo nella sua cabina, oppure compariva sporadicamente, più somigliante ad un fantasma prigioniero che ad un orgoglioso Capitano.
Diventava taciturno e assente, al punto che gli altri si dimenticavano quasi che voce avesse.
Taceva perché nessuno lo capiva. Rinnegato, ribelle senza causa, insoddisfatto e frustrato da scelte che non sapeva più se fossero state sue. Rimescolato da domande che teneva per sé o trasformava in note, affidandole alla corrente. Poco importava se non otteneva risposta, tormentare quelle sette corde era uno dei rari diversivi che dissipava la sua inveterata inquietudine.
Abitualmente funzionava, ma quell’oggi una sorta di malevolo incanto sembrava essersi abbattuto su quegli unici sprazzi di serenità quotidiana che era solito concedersi, rimanendo seduto a cavallo sul rostro di prua. Era già il terzo crine che si spaccava escoriandogli le falangi intirizzite.
Malgrado il sole risplendesse nel meriggio azzurro e limpido, era dicembre e l’atmosfera rimaneva terribilmente fredda insinuandosi in ogni articolazione. Il fiato che espirò si condensò all’istante in una nuvola bianca mentre una sagoma meno evanescente prendeva forma sull’orlo delle onde.
Buttò di lato la tracolla e lesto inforcò il cannocchiale, individuando un vessillo nero sventolante in cima all’antenna. Recava la nota sigla VOC1. Un sorriso allucinato gli rigò le guance scavate e arrossate di brina. Un vascello di quella categoria in mare aperto in quel periodo significava una consegna urgente e speciale, possibilmente argento e gemme dalle Americhe, a giudicare dalla presunta rotta di provenienza. Proprio la fonte di opulenza che gli avrebbe permesso di ascendere nell’Olimpo della pirateria.
Si inerpicò a bordo e, precipitandosi sul cassero di poppa, diede un’energica scossa al torpore dominante: - È ora di spiegare le vele e far risuonare i cannoni, cani pulciosi! – strepitò con trascinante entusiasmo, sguainando la spada in direzione della fregata olandese – Murate a dritta e andiamo a fotterli!
Al carismatico ordine il ponte della Dama di Nebbia fu invaso da una folla di manigoldi che si alternavano alle manovre e all’artiglieria, terzarolando e brandeggiando i falconetti per colpire l’appetibile obiettivo.
Edward nel frattempo era rientrato nel suo alloggio per riporre la chitarra e, già che c’era, ingollò di seguito qualche foglia di qat e una fiaschetta di grog che gli erano capitati tra le mani, giusto per iniziare a scaldarsi e aggiungere quella botta di incoscienza in più che non guastava.
Riguadagnato il timone, diresse il mistico all’abbordaggio, abbandonando il comando ad Ismael quando la distanza tra i due vascelli si ridusse tanto da permettere agli equipaggi di scambiarsi i convenevoli di rito.
Il suo fervore si accrebbe dacché si accorse che stavano superando l’ultimo veliero di un piccolo convoglio, situazione che gli confermava l’inestimabile valore di quel carico.
- Merda, Teague! Ma sono tre! – lo distolse il suo luogotenente, lui stesso basito, raggiungendolo trafelato tra le pallottole vaganti mentre si apprestava a catapultarsi sui nemici.
Il Capitano osservò una per una le imbarcazioni, un luccichio di sfida nelle iridi fuligginose: - Sceglitene una! – masticò sbruffone, la cicca accesa nella bocca, passandogli una bottiglia quasi vuota e lanciandosi con un grappino sulle sartie del bastimento che navigava in mezzo agli altri due.
Ismael sacramentò in arabo guardando la bottiglia: come trovasse uno scampolo pure per bere e fumare nella frenetica preparazione dell’arrembaggio, ancora non se ne capacitava. La scolò e gli si lanciò dietro, atterrando sulla drizza di un pennone. L’amico lo dovette agguantare per la collottola perché non perdesse l’equilibrio e si schiantasse di sotto.
- Se ti ammazzi, non intendo sostituirti! – lo sgridò il turco strappandogli una mezza risata, di scherno più che di riconoscenza, prima che entrambi si scagliassero indomiti e scatenati nella baraonda di urla, sferragliamenti e colpi di moschetto.
La disinvoltura e l’arguzia con cui combattevano intontivano e sorprendevano gli avversari, ignari ed impreparati nel trovarsi al cospetto di una ciurma di giovani scapestrati agli ordini di uno spregiudicato brigante che pareva possedere il coraggio e la sfrontatezza di chi avesse vissuto un milione di vite e non avesse il minimo timore di soccombere, perché ogni respiro in più era già un premio.

Capitan Teague controllò rapidamente che i tafferugli si fossero placati e che i suoi fidati compagni avessero terminato il lavoro sui navigli di scorta, rendendoli inoffensivi. Balzò allora di nuovo davanti all’ufficiale con i glaciali occhi grigiastri che aveva appena sconfitto, pungolandogli la spada sullo sterno: - La nave è nostra, damerino. Qualche obiezione? – gli intimò ammiccando con sarcastica esuberanza, mentre altri provvedevano ad annodargli i polsi dietro la schiena.
Il soldato digrignava e si dimenava sbuffando come un toro: - Immonda feccia! I vostri corpi marciranno appesi ad una corda, prima o poi! – vomitò con marcato accento tedesco, verde di livore.
Il giovane filibustiere lo fissò per qualche attimo pensoso, quindi gli annuì gravemente, scrollando la testa: - Preferisco pensare poi – affermò prosaico, richiamando con uno schiocco Finn e Olly – Inchiodatelo all’albero maestro. Non sia mai che il capitano debba crepare lontano dalla sua nave – sostenne con tono falsamente rispettoso, ciondolando le braccia e allontanandosi senza aggiungere altro, sottintendendo che dovessero occuparsi loro di depredare quel che c’era.
Raggiunto il castello di poppa, bighellonò tra i ricchi arredi della sala ufficiali, rimestando tra cassettoni e credenze in cerca di mappe, bottiglie o gingilli curiosi. Si era disinteressato di quale carico vi fosse nella stiva, tanto quello sarebbe andato disperso; gli pareva più interessante appropriarsi di oggetti personali appartenuti alle vittime delle sue ruberie per poterli sfoggiare e testimoniare quante leghe avesse attraversato e quanti uomini diversi fosse riuscito a fregare.
Requisì un paio di carte nautiche di buona fattura e intascò un astrolabio e un trombone, aggiungendolo alla sua collezione di armi da fuoco ben in mostra nel cinturone a tracolla. Varcata la stanza adiacente, riconobbe quello che doveva essere l’alloggio privato di quell’allocco del Capitano: una cuccetta spartana e pulita con neppure la minima impronta di imperfezione. Odiava gli Olandesi, sempre così parsimoniosi e puritani, si credevano i migliori sulla faccia della terra!
Per contrasto gli sovvenne il motivetto della loro canzone, e le corde vocali cominciarono a vibrare intonandola.

Rapiamo e devastiamo, non ci importa un fico secco!
Trinchiamo allegri, yo oh!
Siam diavoli e pecore nere, proprio uova marce,
brindiamo allegri, yo oh! …

D’un tratto un cigolio e un debole gemito giunsero alle sue orecchie. Percorse a ritroso le scricchiolanti assi, fischiettando di nuovo quel ritornello, le pistole strette in pugno. Stavolta udì di rimando dei colpetti e un rantolio sommesso che lo scosse tutto. Quel bussare si intensificò e Teague analizzò ogni metro della stanza, oramai convinto che ci fosse qualcuno o qualcosa che richiedesse il suo aiuto. Provò ancora a canticchiare senza parole, non sapeva se si trattasse di un animale o di un moribondo. Un brivido premonitore che non comprese guidava i suoi movimenti verso quei rumori ovattati. Finalmente ne scoprì l’origine. Un pannello mimetizzato da un brutto ritratto celava una porticina.
Senza pensarci ripose le armi nel cinto e infilò il pugnale nella toppa, scassinando la serratura.
L’ambiente che lo accolse era angusto e umido, un minuscolo lucernaio bastava però a rischiararlo a sufficienza da consentire di vedere.
Ed Edward deglutì spine acuminate. Un fremito gli risalì lungo la spina dorsale e si trasmise alle ginocchia, mentre un’esile figura claudicava sotto il fascio di luce, palesandosi.
Tremava, di freddo, di caldo, di paura e speranza, rivestita da un consunto abito di stracci che col suo rosso stinto mascherava macchie dello stesso colore, a differenza della carnagione terrea su cui erano evidenti i segni della reclusione e della violenza. Non aveva più alcun ninnolo nella cascata di onde scure che le ricadevano fino ai gomiti, e la sua bocca tumefatta non poteva sgorgare le stesse faville di arcobaleno che l’avevano abbagliato.
Gli sembrò che un arpione gli fosse penetrato nello stomaco e glielo stesse dilaniando.
Era una rosa troppo bella ed era stata sradicata da un viscido fiume di fango. L’aveva sognata un paio di volte dopo il loro breve incontro. Aveva presentito quella fine per lei, ma non gliel’aveva evitata, e adesso si sentiva unto dall’umana crudeltà da cui era stata travolta.

Aveva pregato le fosse concessa una seconda possibilità, mai aveva vagheggiato che avrebbe avuto il suo volto sporco e cattivo e i suoi occhi cerchiati di antracite. Eppure per una strana coincidenza erano dinanzi a lei, intensi e stralunati, seri e distratti da mille pensieri turbinosi, e stranamente la confortarono. L’aveva riconosciuta e anche lei si ricordava di lui: ogni dettaglio di quell’ombroso figuro le era rimasto impresso. Forse era solo un po’ più alto e robusto e perciò le sembrava in qualche modo più maturo. I capelli neri e ispidi, che neppure la bandana sbiadita poteva tenere in ordine, gli erano cresciuti ribelli sulle spalle, increspati dalla salsedine e schiariti da tanti soli. Gli davano un aspetto ancora più maledetto e sciroccato che avrebbe dovuto metterla in guardia, invece di rasserenarla.
O forse lo credeva perché non voleva soffermarsi sulle sue labbra imbronciate e socchiuse e sul suo sguardo inorridito, leggendovi delusione e pietà, provando disprezzo per se stessa.
Aveva sprecato la libertà che lui le aveva accordato. Si odiava. Si sentiva bruciata, indesiderata, fallita. Era inutile fingersi forte, lui aveva capito ogni cosa.
Ansimando, reggendosi a stento sulle caviglie sottili incatenate da grossi ceppi arrugginiti, la giovane indiana gli poggiò il capo sul bavero, bagnandolo di tiepide lacrime che sapevano di dramma e liberazione. Era trascorso appena un anno, ma era come se si fossero incontrati in una vita precedente: la sua innocenza era ormai sepolta sotto strati di ricordi.
Edward iniziò a tremare senza rendersene conto, come se in quel pianto sommesso e spezzato stesse riversando su di sé la sua indescrivibile sofferenza. Avrebbe voluto darle conforto ma ignorava un qualsiasi gesto che lo suggerisse e per non sbagliare non mosse un muscolo.
Con tutto quello che aveva visto e subito rifiutava di credere in qualche Dio che vegliasse su di lui, era più probabile stesse simpatico al Diavolo. Come ogni marinaio era superstizioso, il mare era la sua unica fede, avaro e impietoso. Se porgeva un dono lo si doveva accettare al volo, andava assecondato. Era la seconda volta che gliela sbatteva addosso. Ora non sapeva neanche lui distinguere quale errore gli sarebbe costato di più, permetterle di fuggire e perdersi, oppure riprendersela e smarrire se stesso.

Si irrigidì percependo le sue mani brancolargli sul petto, e ancor più avvertendo lo scatto del caricatore che la ragazza con celerità si piantò alla tempia.
Il bucaniere riagguantò l’arma approfittando della sua terrificata esitazione e tranciò con un colpo di sciabola le sue catene, spingendola sul lettino. C’era una patina di lacerante mortificazione nelle sue iridi di liquirizia che gli sobillò una tremenda vendetta.
Non comprendeva la ragione per cui volesse salvarla: andava fatto e basta. Qualcuno aveva attorcigliato una sagola tra loro due che non s’era sfilacciata né allentata.
- Non sei tu a dover pagare! – la rimproverò, inasprito da una montante brama sanguinaria, uscendo di gran carriera da lì.

Il baccano scemò nell’istante in cui lo videro ricomparire, gli occhi di catrame fumante che suggellavano inequivocabilmente il preciso intento di uccidere qualcuno.
I marinai si scansarono bisbigliando scongiuri, tutta la collera di Teague convergeva però su un unico individuo designato a subirla nella maniera più atroce. Nell’approssimarsi a lui trascinò con sé due della ciurma, tirandoli per le orecchie. I ragazzi si scusarono confessando colpe delle quali non erano stati accusati e che il Capitano non ascoltò neppure.
- Sollevatelo e allargategli le gambe – ordinò loro spicciamente, rilasciandoli ai piedi del prigioniero – Voglio vedere come sta messo a virilità – aggiunse ghignando con espressione feroce e delirante.
I due titubarono, interrogandosi a vicenda sullo scopo di quella controversa richiesta, anche se non avevano il fegato di contrastarlo e finirono per ubbidirgli con soggezione.
Tentò invece di intromettersi Ismael: - Dannazione, Capitano! Fermatevi, siete sbronzo! – lo assalì strattonandolo e venendo respinto da un secco ceffone.
- Brutti pervertiti! Lasciatemi! – strillava intanto l’ostaggio, con la fronte imperlata di orrore.
Edward si piegò all’altezza della sua patta, valutandone la sporgenza attraverso i pantaloni avorio: - Hmmm … Tutto qui? – commentò con rabbiosa impertinenza.
Il suo vice lo riavvicinò, cincischiando imbarazzato: - Eddy, torna in te. Guarda che non ti piace …
Quello si raddrizzò frizzandogli un’occhiataccia a metà tra l’ovvio e l’indispettito, suggerendogli che ciò che aveva intenzione di fare non sarebbe piaciuto neanche a quello scarafaggio. Scelse la pistola più grande e gliela premette sull’inguine bene esposto, fissando ad una spanna la sgomentata reazione che rattrappiva i lineamenti squadrati dell’uomo, ora che aveva intuito come si sarebbe concluso quel sadico gioco: - Te le regalo io due palle … – gli fiatò con caustica ironia, schiacciando il grilletto – … Di piombo.

I sensi confusi e anchilosati, come al risveglio da un incubo, afflitta dal permanente dubbio di aver sognato o piuttosto ricordato. Quell’acuto vagito straziato l’aveva riscossa con la strana sensazione di sollievo e soddisfazione. Non provava nessuna pietà e nessun senso di colpa, e non le pareva sbagliato. Avanzò sulle punte dei piedi scalzi affacciandosi abbacinata dai raggi, e con lo sguardo titubante si aggrappò impulsivamente a lui.
Il suo salvatore, acclamato da tutti, gironzolava con la stessa leggerezza di chi stesse passeggiando su un campo di grano, anziché tra feriti agonizzanti e frantumi di vario tipo. Declinando i colpi d'occhio degli altri uomini, scese in fretta le scalette, svolazzò verso di lui e gli si attaccò fermamente alla coda della giacca, nascondendo il volto solcato di dolore sulla sua schiena, cercandone di nuovo quell’inquieto tepore che le trasmetteva protezione.
Teague non si bloccò, né la guardò, continuando a percorrere la passerella: - Possiamo sbaraccare.

La terra arsa poteva conciliarsi con l’intemperanza del mare?

In fondo non era stato difficile né ignobile salvare una donzella, il problema semmai sarebbe stato conviverci. Disconosceva la maniera di comportarsi con un’ospite del genere, anche perché non gli era per niente indifferente. Era cresciuto solitario ed egoista, arido e scostante. L’unica gretta consolazione era sapere di non poter rivelarsi peggiore del lurido verme da cui l’aveva liberata.
Si era prefissò che l’avrebbe tenuta con sé solo il tempo di svernare nell’altro emisfero, per poi trovarle una sistemazione più adeguata. La traversata sarebbe stata parecchio lunga e lei nel frattempo si sarebbe rimessa in sesto.

- La stiva trabocca così tanto che peschiamo il doppio! – affermò il grugno esaltato del suo primo ufficiale scomponendo le sue riflessioni.
- Ottimo – approvò distrattamente, grattandosi sotto il naso, deviando lo sguardo sul ponte che stava sgombrandosi dal marasma di casse e barili.
Evitò appena di inciampare nello sgambetto che Ismael gli oppose, ammiccando tagliente alla sua cabina: - Cosa intendi farne di quella lì? – lo interrogò impedendo che si defilasse senza fornirgli qualche lecito chiarimento su quella scriteriata decisione.
Edward sostenne sfuggevolmente le sue iridi scure, stringendosi il fasciacollo con meticolosa indifferenza: - Non ci intralcerà il lavoro, se è ciò che pensi.
Il turco gli scoccò un sorriso maligno: - Erro o è la troietta che ti era scappata un anno fa?
Il compare sollevò il mento serrando la mascella fino a scrocchiarla: - Erri. Non è una troietta, ma la vittima della mia vigliaccheria – sentenziò brusco, sfilandogli davanti – Resterà nei miei alloggi e voi fingerete che non ci sia. Ti è limpido? – lo rimbrottò sfiorando la tracolla carica di armi.
In quell’istante un vociare indistinto gettò scompiglio tra i marinai. Teague ignorò la frecciatina dell’arabo che lo guardava di traverso con un sorrisino accusatorio, e istintivamente pensò all’irragionevolezza della sua buona azione. Erano pirati, non eroi.
Brontolò sottovoce osservandoli dall’alto che si calunniavano a vicenda, spintonandosi e insultandosi.
Era consapevole che se l’ozio forzato fosse stato contaminato dal malcontento ne sarebbe derivata una miscela esplosiva.
Sguainò la pistola e fece partire un colpo su di loro: - Hey! Hey! Di grazia, vi dispiace informare anche me? – li sollecitò saltando giù dalla balconata.
Un mulatto che gli altri degnarono appena di considerazione si ritrovò un buco alla milza e barcollò fuori bordo, nel frattempo un ometto dalla spelacchiata peluria castana gli si parò davanti con in mano un mestolo: - Non c’è più acqua in cambusa. – sbottò incrociando le braccia.
- Lo so … – ammise il Capitano con un sospiro accompagnato da una smorfia colpevole.
Il marinaio lo scrutò insospettito: - Ah … La zuppa di tartaruga come la cucino?
Era il più anziano tra loro, e talvolta provava a comportarsi da padre; in quella circostanza già di per sé complicata era la mossa meno opportuna: - Cribbio, Ronnie! Sei tu il cuoco: inventati qualcosa! – lo criticò allontanandosi speditamente per troncare quell’argomento, scomodo oltremisura.
- Se dovessi avere un’altra di queste felici idee, ti prego di consultarmi! Io non vengo a dirti come navigare – gli sbruffò dietro quello, agitando il grosso cucchiaio di legno.
Edward trascurò la sua pretenziosa minaccia, conscio dell’innocuità di quell’uomo, pur prestando attenzione a che la sua maldicenza non influenzasse gli altri suscettibili bucanieri.
Proseguì fino al parapetto di tribordo sporgendosi per metà della sua altezza per dare un’ultima sbirciata al carcame dei velieri olandesi.
- No! Non ci sarà d’intralcio – infierì il suo primo ufficiale comparendogli a fianco, tanto per corroborare i suoi dubbi. Il più temibile era proprio lui: insistente e succiasangue come una zanzara!
E sembrava più ostinato del solito: - Se la situazione non ti sconfinfera, puoi anche andartene a …
- Nah! Sono troppo curioso di vedere come ti barcamenerai! – lo interruppe rifilandogli una derisoria pacca sull’avambraccio sinistro, quello in cui si era oltretutto beccato una pallottola di striscio.
Teague si mordicchiò il labbro inferiore e gli drizzò contro l’indice, soffocando a malapena la tentazione di strozzarlo o scaraventarlo: - Sei una carogna.
L’ex schiavo incassò con un sogghigno impenitente per poi recuperare un briciolo di ritegno:- Se potrà rimanere, andrà messo ai voti. E comunque è risaputo che donne e navi non vanno d’accordo …
Stavolta fu il ragazzo più grande a concedersi una risata dissacratoria: - Azzardati a proferire un apprezzamento del genere a mia madre, e come minimo di ritrovi qualche dente rotto o un coltello nella pancia – glissò voltandogli le terga e risalendo sulla tuga.
- Muoio dalla voglia di conoscerla! Quanto ti deciderai a presentarmela? – replicò sardonico il saraceno accettando una bottiglia di alcol da un altro bucaniere.
Edward lasciò volutamente in sospeso una risposta che pesava soprattutto a lui. Se la figurava, se avesse saputo in che guaio si era cacciato, lo avrebbe definitivamente diseredato.
Non che avessero un rapporto idilliaco, tutt’altro.
Erano anni che non aveva notizie sul suo conto, eccetto quelle racimolate per caso in qualche taverna in cui si magnificavano, con incredulità e riverenza, le sue imprese per i sette mari. L’aveva abbandonata alla sua sfolgorante carriera di nobile piratessa dell’Atlantico proprio per non essere un eterno secondo. E si impegnava da anni per riuscire. Niente e nessuno lo avrebbe ostacolato.

Non esisteva cabina più invalicabile della sua sulla Dama di Nebbia, ed era lì che l’aveva condotta.
Era struccata e provata, deturpata da lividi e sfregi, nondimeno la sua bellezza incattivita restava tale da squarciare il cuore.
Edward inclinò lateralmente la testa facendosi ricadere i capelli sulla fronte: il solo ammirarla fomentava pensieri inappropriati, almeno in quel momento. Abbassarsi al livello di quel porco che l’aveva segregata ed oltraggiata, non era un gran vanto.
Anche se tante volte aveva agito senza riflettere troppo sulle conseguenze, sentiva la necessità di giustificare quell’attrazione perché aveva qualcosa di insolito e sfuggente.
- Pensavo avresti gradito – borbogliò distogliendosi dal suo cipiglio compunto e incuriosito alla tinozza di legno ricolma d’acqua, una stramberia per effeminati, che aveva trafugato ma mai utilizzato.
La bruna fissò il liquido con un lievissimo turbamento, inginocchiandosi e saggiandone la temperatura. Era una coccola cui stentava a credere. Ed era una manna. L’ultimo bagno risaliva a molte settimane prima, in un torrente. Era schifata dal suo stesso olezzo muschiato.
- Non è riscaldata, ma è il massimo che posso offrirti – soggiunse il giovane Capitano, cacciando le mani in tasca, spremendosi per arricciare qualcosa di simile ad un sorriso discolpante che si trasformò in un’espressione smarrita quando l’esotica ospite, abbassando le ciglia, incrociò le braccia sul seno e stracciò l’unica bretella della veste sbrindellata, lasciando che le scivolasse via dalla pelle incrostata di lerciume, spingendola via con i piedi e coprendosi pudicamente le nudità mentre rapida si immergeva interamente.
La leggiadria e la dignità che trapelavano da ogni sua movenza lo ubriacarono. Non aveva vergogna né paura di lui ma neppure si ostentava, risultandogli ammaliante come poche.
Riportò le languenti pupille su di lui, ravviandosi la fluente chioma corvina dietro la nuca. Due fossette le comparvero finalmente sulle guance, solcate da goccioline che le tersero dalle lacrime e dalla polvere: - Mi chiamo Ruth. Mio padre era inglese – pronunciò la sua voce flautata.
- … Edward … - farfugliò lui arretrando confuso intanto che lei si appoggiava al bordo della vasca, adescante come una sirena: - Poi torni, vero?
Una spaurita implorazione con cui lo riagganciò ai suoi lucidi occhi a mandorla.
Ragionare stava diventando incandescente, la gola gli si seccò come se una corda lo stesse strozzando: - Appena starai meglio – se ne uscì protettivo, non avendo la più pallida idea del perché gli desse tutto quell’affidamento. Si scontrò con la maniglia e, chiudendosi la porta alle spalle, oltrepassò di corsa la sala nautica, imbracciando la chitarra e sistemandosi fuori sul ballatoio.
La confusione e gli schiamazzi della ciurma si diradarono in un brusio, e le corde si mossero al ritmo di una struggente nenia che pareva sopraggiungere da un'altra dimensione.

In tre lune non aveva appreso molto oltre al suo nome. Scarne confessioni e sfuggevoli sorrisi erano affiorati da quel viso esotico di cui aveva assimilato ogni particolare. Si limitava a mangiare in fretta e in silenzio, a chiedergli di rado e a raccontare ancora meno.
Non era rilevante in verità, perché lui per primo era poco propenso alla loquacità e credeva più nella luce dei fatti che nella nebbia che poteva sottendere i discorsi. Quantunque azioni e parole con lei avevano entrambe una logica imprevedibile e astrusa.
Traviante.
Come quella volta in cui, con uno slancio degno di una gazza, gli si era avvicinata e gli aveva sottratto uno di quei sigari d’erba che si era acceso in bocca, portandolo con erotica naturalezza nella sua.
"Ci sono già tante cose che possono ucciderci. Non permettiamo possa provarci il passato", aveva cinguettato ammutolendolo.
Un ragionamento da pirata.
Gettandosi indietro aveva sparso spire di fumo imitandolo finché non aveva tossito, scoppiando a ridere e scusandosi.
Edward l’aveva osservata divertito, chiedendosi se fosse più sbadata o sbandata, indispettito dal desiderio sempre più stringente di sprofondare ripetutamente tra i suoi stuzzicanti fianchi. E se non fosse stato per il persistente torpore di quelle fumate, non si sarebbe dileguato con un’arrendevolezza che non gli si addiceva, rivolgendole solo una manciata di minuti quotidiani per accertarsi delle sue condizioni.
Da qualche tempo si era ridotto a pensare di essere lui tra i due quello in convalescenza.

Aveva fatto una promessa a se stesso e l’avrebbe mantenuta. Era tempo di separarsi.
Per quanto la sua ritrosa presenza avesse lenito un poco la solitudine della stagione più inclemente, e desiderasse conoscerla più intimamente, non avrebbe avuto altro tempo da dedicarle. Oramai avevano oltrepassato le spiagge del Madagascar. Acque brulicanti di prede e insidie stavano per infrangersi sul loro scafo.
Era ora che la graziosa ospite sloggiasse, altrimenti avrebbero mandato via lui e la prospettiva non era affatto allettante. Una maggioranza risicata aveva votato a favore della sua permanenza.
L’aria era torrida già all’approssimarsi dell’aurora e decise di rientrare per tentare di trovare un po’ di frescura. Aveva dormito dappertutto nelle ultime settimane, tranne che nella sua branda. E non c’era migliore pretesto per reclamarla.
Poi accadde che si fermò a scrutarla nel sonno, e quella sicurezza si frantumò in schegge che si conficcarono su tutta la carne. Avvertì il respiro liberarsi da quel tanfo amarognolo e infetto e un piacevole calore liquido espandersi nelle viscere.
Insieme alla primavera, cui avevano navigato incontro, anche lei era rifiorita. Le sue forme si erano ammorbidite e svettavano capricciose da sotto la larga casacca che si era scelta da un baule tra una delle sue, come unico indumento. Il suo colorito era tornato uniforme e nocciolato, le labbra piegate in un tranquillo sorriso somigliavano a dolci e invitanti fragole che chiedevano solo di essere assaporate e morse.
Non l’aveva rapita, ma riscattata.
Era presuntuoso e inammissibile forse da credere, ma reputò la sua completa guarigione la prova che intorno a lui non ci fosse spazio solo per il male, che fosse capace di qualcosa di diverso dal distruggere e rubare.

Ruth si rigirò scrollandosi di dosso il lenzuolo sudato e dischiuse piano le palpebre mettendo a fuoco, nel flebile barlume azzurrino, una sagoma dinoccolata e spigolosa divenuta familiare.
Si curvò su di lei, i pugni sulle ginocchia, così vicino da investirla con il suo odore di sale e vento. Accennò un sogghigno assonnato e i nervi le si incendiarono come dopo un lungo letargo: - Sai, mi sono ricordato che questa è la mia cabina.
La sua voce era un graffio sul velluto. Bassa, vibrante, lenta nello scandire ogni suono. Le era piaciuta subito perdutamente, come il suo naso dritto e appuntito, le pupille ardenti e baluginanti, le labbra disegnate in giù, restie a mostrare i denti.
Si era svegliata con un incontrovertibile buonumore.
- Hai vegliato me tutta la notte? – bisbigliò allungando le braccia contro il cuscino e arcuando la schiena per sciogliere le membra.
Lui si raddrizzò sgranando gli occhi come faceva spesso per cercare conferma: - Ti fa tanta specie che un uomo possa dormire nella tua stessa stanza senza provarci?
Si pentì di quella battutaccia, per nulla indicata, visto quello che la ragazza aveva subito. Ma lei continuò con noncuranza le sue snodate contorsioni, sbirciandolo di sottecchi. Gli aveva spiegato che quell’insieme di torsioni serviva a mantenere rilassata la mente oltre che i muscoli. Edward però ci vedeva altro, una provocazione sfacciata e deliberata.
- Si pecca anche col pensiero … - ribatté vagamente la bruna, ristendendo con grazia le gambe lisce e nude sul lettino.
Si stava rivelando furba e tentatrice, e non gli dispiaceva. Tuttavia gli avrebbe reso tutto tremendamente più difficile. Aveva le vene in fiamme solo per il falso pudore con cui lo fissava.
- Almeno finora per questo non ci trascinano su una forca – ridacchiò, mascherando l’imbarazzo con l’insolenza e trovando sollievo nel bagnarsi la faccia con un po’ d’acqua raccolta in un bacile posato su un ripiano.
Ruth si alzò e lo affiancò con passo di piuma, attingendo dallo stesso catino per rinfrescarsi la fronte e il collo spiandolo, da lui ricambiata, perché l’eccezionale splendore che vi aveva trovato non l’aveva scorto in nessun forziere. Era qualcosa che sapeva di proibito, come le foglie d’erba che si fumava in sua presenza. Forse ancora più oppiacea.
- Non puoi più restare, ragazza.

L’aveva tacciata con un drastico refolo di risentimento, con quel suo modo particolare di dondolare la testa, quasi fosse in ascolto dello sciabordio delle onde. Un movimento che aveva l’effetto di un rapimento e che, senza accorgersene, l’aveva lentamente ingarbugliata a quel malvivente che non riusciva a disprezzare dall’attimo in cui le aveva risparmiato la vita.
Gli era debitrice, per tanti motivi.
Era un assassino feroce, un ladro incallito, eppure con lui aveva imparato ad accettare ogni cicatrice, a considerarla un’impronta di forza, e a dimenticare per andare avanti. C’era riuscita perché dopo tanto tempo si era sentita benvoluta. Non la maltrattava e aveva rispettato il suo riserbo. Pur nella sua stravaganza, non l’aveva mai giudicata, trattenuta, né trattata con inferiorità. Era un carattere difficile ma sincero.
Lasciò che l’accusa le scivolasse addosso e si incamminò verso la sala nautica, entrandovi da lui tallonata. Anziché proseguire e scappare, come aveva fatto spontaneamente la volta precedente, si soffermò a rimirare la sua chitarra abbandonata su un tavolo, passando i polpastrelli sulle corde che produssero uno stridio simile al frinire di grilli.
- Io avevo un sitar. Ero brava … Ti ho ascoltato suonarla, di notte – rivelò con un’occhiata furtiva – A cosa pensi in quei momenti? – gli domandò con fare tanto neutro quanto insinuante.
Edward emise un sospiro smorzato. Doveva aver riconosciuto certe melodie che gli aveva ispirato, mormorandole durante il dì, quando stava da sola: - A nulla. Mi rilassa – si affrettò a ribadire, togliendole di torno lo strumento musicale a cui tanto era attaccato e riponendolo nella custodia.
Al contrario della tua presenza”, sembrava suggerire il suo infelice aggirarsi da falco in gabbia.
Rintracciò delle mappe arrotolate su un altro scrittoio e le spianò sotto il lumicino di un candelabro con due moccoli: - Allora, dove vuoi che ti sbarchi? – la sollecitò, elencandole alcune opzioni.
Ruth era affascinata dalle sue dita che strisciavano senza meta su incomprensibili simboli. Notò l’anello argentato con l’effige di un teschio che gli adornava il medio della mano destra, talismano scaramantico di un’ossessione che pareva paventare meno di lei. Lo sfiorò, risalendo alle nocche ossute e sbucciate e ne ebbe conferma dalla lama di ghiaccio che uscì dallo sguardo del ragazzo, colpendola dritta alle costole, accelerandole il respiro senza intaccare la sua ostinazione.
- Tu mi hai curata e accudita – guaì mantenendo quel contatto che lui spezzò bruscamente.
- Non sono una bestia – si giustificò, tracciando un cerchio con le braccia e puntandone uno al suo indirizzo con un piglio duro – Ma non devi ringraziarmi. Non si ringrazia la gente come me.
L’indiana lo osservò intenerita: - Ti sbagli. Non ne esiste molta.
Le vide chiaramente, faville d’arcobaleno. Erano ricomparse. Nella sua fede strabiliante non vi era ingenuità, quanto fiducia e stima. Affetto.
Per uno come lui. Doveva aver vissuto una sciagura dietro l’altra per pensarla in quel modo.
Era abituato a non chiedere né pretendere niente da nessuno, poche cose avevano davvero valore, e aveva evitato di giocarsi l’anima e la nave per quella che credeva una carnale infatuazione.
Sua madre lo aveva avvertito sul fatto che le femmine fossero edere velenose di cui bisognava diffidare sempre, ma quella discreta e silenziosa creatura aveva immediatamente esercitato un ascendente diverso su di lui.
Era un fiore di loto, meno espansivo e appariscente, e tuttavia capace di radicarsi nelle profondità di un animo torbido quale il suo e sopravvivere.
Affondò una mano nella zazzera arruffata, impigliandosi un anello nell’orecchino che si era legato ad un ciuffo dietro la tempia. Lo stesso che lei aveva perso nella sua cabina durante il loro primo incontro, e che lui aveva conservato per una frivolezza di cui si era dimenticato; sperò non se ne accorgesse: - Hai un ampio ventaglio di scelte. Il mare non è posto per te – la fulminò inflessibile, accostandosi alla vetrata e contemplando meditativo le onde striate di indaco e viola.
Ruth gli si avvicinò con prudenza e sconforto: - Io non ho niente e nessuno.
- Non sempre si può avere ciò che si vuole – mugugnò amaro e beffardo Teague contro la manica della camicia.
La ragazza inspirò compiendo un altro passo. Era stanca di resistere e mentire. Era evidente che qualcosa danzava tra loro due. Quel perseverante distacco stritolava il respiro. L’avrebbe dovuta ridurre in pezzi per impedirle di restargli accanto.
Aveva voglia di accarezzarlo per scoprire se fosse davvero tanto ruvido quanto appariva. Alzò una mano verso la sua spalla, prima tenendola chiusa, poi allungando le dita: - E tu cosa vuoi?
Il pirata si voltò con lentezza, scollandosi con dolente riflessione da quella postura e lasciò vagare i penetranti occhi anneriti oltre il suo viso prima di incunearli nei suoi, increspando la bocca, indeciso, facendosi lambire le palpebre e socchiudendole.
Ruth gli sorrise cercando di toccargli la guancia mal rasata, ma lui con uno scatto le afferrò il polso: - Il Codice, ho omesso di dirtelo … prevede che la parte migliore del bottino debba spettare a chi in battaglia venga ferito, o resti mutilato … - sussurrò sul suo profilo, estorcendole un leggero tocco sul collo bagnatosi per la calura - … gravemente mutilato – sibilò rauco, trasportandole il palmo fino al torace che pulsava impazzito, stringendole con vigore le dita in corrispondenza del proprio cuore, restando a fissarla, bramoso e inerme.
Non appena il suo alito di mare agitato le solleticò le labbra, Ruth le serrò impetuosamente con le sue. Sentì il sangue evaporare e la testa diventare leggera e gli allacciò il braccio libero attorno alle spalle, esplorandone la muscolatura asciutta e tesa. Risalendo sulla nuca gli acciuffò i capelli che il sudore gli appiccicava sulle tempie e sulla mascella pungente, con cui graffiava deliziosamente la sua pelle mentre le denudava e mordicchiava la clavicola, allentandole i lacci della camicia.
Era cauto e misurato nell’aderire al suo corpo, quasi presentendo potesse svanire. Era sicura che fosse la paura di ferirla a frenarlo. Gli rubò un altro bacio accalorato, per un attimo le sue iridi si offuscarono e temette di nuovo un rifiuto. Strusciando la fronte contro la sua, riprese ad abbracciarlo e tranquillizzarlo sulla sua volontà, solcandogli gli zigomi con i polpastrelli, attirandolo a sé, boccheggiando in uno sconosciuto e dolcissimo idioma il suo cieco desiderio.

Era sensibile al gentil sesso, anche se non era un gran donnaiolo. In certe situazioni era abituato a proiettarsi subito dritto alla meta, senza troppe cerimonie. Non c’era molto altro cui badare e tirarsi indietro ne sarebbe andato del suo onore. Ma in quella circostanza sapeva che era tutto incomparabile. Poteva trattarsi di un sofferto addio, oppure del nodo definitivo di un cappio di fuoco che non si sarebbe spento nemmeno con la forza di mille maree future.
Perché a legarlo c’erano i suoi occhi di ambra fusa e inchiostro che lo cercavano di continuo, la sua bocca dolce e calda che accoglieva la sua lingua assetata, le mani piccole e audaci che percorrevano il suo petto sciogliendo i nodi che lo intrappolavano, i capelli di seta che scorrevano tra le dita ricoprendole la schiena che si tendeva come una corda accompagnando ogni suo minimo gesto, e il suo soffio melodioso, più orgasmico di musica nelle orecchie.

- Voglio appartenerti – asserì determinata e sensuale, tirandogli la camicia fuori dai pantaloni, reggendosi alle sue braccia per riuscire a salirgli addosso e circondargli i lombi con le caviglie, ansiosa di provare la consistenza della sua malcelata passione.
Edward le scoprì le cosce e stringendo la presa la spinse contro il vetro: - Impossibile – protestò imbizzarrito, mozzicandosi una guancia, rinnegando ciò che ogni fibra del suo corpo urlava.
Anche lei se n’era accorta, e la malizia velata con cui abbassò lo sguardo, incagliandolo di nuovo nel suo e scendendo con le dita a toccarlo nel punto in cui i loro impulsi si erano fusi, lo fece irrimediabilmente avvampare.
Le sue labbra erano petali roventi.
Scivolarono sul pavimento.

Ormai erano due folli gabbiani che sfidavano la tempesta, inebriati dal rischio, impazienti di trovare riparo l’uno nell’altra.


crazy-seagulls
Immagine modificata dalla gallery di  KejaBlank su Deviant Art.

1 VOC: è la sigla della Compagnia Olandese delle Indie Orientali (Vereenigde Oostindische Compagnie).
* Il nome Ruth mi è stato spifferato da una cara collega, nonché parente prossima del Capitano...
   
 
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