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Autore: Fanny Jumping Sparrow    29/04/2013    10 recensioni
Tutti quanti conosciamo l’eccentrico ed affascinante Capitan Jack Sparrow, ma poco o nulla sappiamo delle sue origini.
Chi erano i suoi genitori? Come si sono conosciuti? Quanto hanno inciso i loro caratteri e la loro storia d’amore sul famigerato pirata che ha conquistato i nostri cuori?
Con questa breve long-fic proverò a dare risposta a questi spinosi ed enigmatici interrogativi, usando molta fantasia, qualche dato certo e parecchie speculazioni personali.
Buona permanenza a chi vorrà imbarcarsi!
La terra arsa poteva conciliarsi con l’intemperanza del mare?
Poteva trattarsi di un sofferto addio, oppure del nodo definitivo di un cappio di fuoco che non si sarebbe spento nemmeno con la forza di mille maree future.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Capitan Edward Teague, Jack Sparrow
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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* Qualche premessa introduttiva alla lettura…

Salve gente! Alcuni di voi mi conosceranno, altri probabilmente non ancora, anche se bazzico da qualche annetto in questa sezione di EFP.

Per questa nuova storia ho deciso di adottare uno stile introspettivo, un linguaggio e dei toni leggermente più adulti e a volte duri, per alcuni motivi: 1) i veri pirati di certo non si esprimevano come galantuomini, checché ce li rappresentino così la Disney e un po’ tutti i film anche più datati sulle loro imprese; 2) di mezzo ci saranno personaggi alquanto neri (nonna Sparrow) e situazioni drammatiche e macabre (ricordate come appare nei film la mammina di Jack, no?).
Un ringraziamento speciale alla stimata e fedele collega Spanish_Sparrow per le notizie preziose, a tutti i blog dedicati a Keith Richards e all’insonnia da gelato al caffè che mi ha dato l’ispirazione iniziale.

Ultimo appunto: i capitoli saranno più lunghi perché, salvo ripensamenti, non ne scriverò più di tre. Spero di non risultare pesante! Qui comunque ho inserito anche qualche spunto più umoristico, nei prossimi prevarrano gli elementi drammatici, un po' come nella prima trilogia piratesca.

Ad ogni modo: commenti, insulti, tiri di schioppo, coltelli sono sempre ben accetti.

Al prossimo (imprecisato) approdo!)



I – WORTHY THING


Un truculento fremito di budella lacerate esalò insieme ad un rantolo spezzato.
Le dita incastonate da vistosi anelli restarono strette all’elsa d’argento, mentre un caldo fiotto vermiglio imbrattava il logoro acciaio, addensandosi attorno al codolo.
I ferrigni occhi bistrati fissarono con indolenza quelle orbite giallognole rovesciarsi indietro, finché il grassone con il turbante non stramazzò sul ponte già viscido di altro sangue, misto alla salsedine e alla polvere da sparo.
Aveva snudato l’affilatissima sciabola e l’aveva spinta a fondo, poco sopra l’arancione fusciacca di seta, non lasciandosi sorprendere dal suo tentativo di aggredirlo alle spalle con un vile moschetto.
Un gesto meccanico e inesorabile che aveva imparato a compiere poco dopo esser sceso dalla culla e che ormai non gli suscitava che un tenue senso di nausea, presto sopraffatto dalla soddisfazione di essere uscito vincitore.
Il giovane filibustiere concesse un veloce esame critico a quel corpulento sconosciuto dalla carnagione violacea, toccandolo con la punta dello stivale e appurando che avesse smesso di respirare. Le sue labbra screpolate dal sale si stropicciarono in un borbottio:
- Non mi sono divertito neanche un po’ con te … - schioccò la lingua deluso, saettando uno sguardo accigliato allo stillicidio di combattimenti che impegnavano i compagni di scorrerie, animando il resto della stretta tolda.
Gli ultimi sopravvissuti alla raffica di pallottole e all’ineguagliabile furia dei suoi intrepidi diavoli resistevano per onore e disperazione, proprio come quei soldati invasati dalla fisima del dovere e dei giuramenti prestati a parrucconi rammolliti, propensi a tessere subdole trame politiche per arricchirsi a discapito dei nemici, ma non inclini a sporcarsi direttamente le vesti in quella spietata guerra di corsa che insanguinava i mari, riempendone i fondali di cadaveri di vascelli e uomini.
Lui l’aveva combattuta in prima persona sin dalle fasce; non aveva mai capito quale valore potesse avere rimetterci la pelle per qualcuno diverso da se stesso.
Neppure sua madre, per quanto disonesta e dispotica da incutere terrore anche ai più navigati masnadieri, gli aveva mai imposto un tributo di tale calibro.

“Io t’ho portato in grembo nove mesi, senza cessare un solo giorno di saccheggiare. T’ho partorito patendo le peggiori pene dell’Inferno, mi sono squarciata tutta! E nessuno me lo aveva chiesto con la pistola puntata! Ora sbrigatela da solo. E fatti valere.”

Quello era stato l’aspro e incontestabile monito con cui l’aveva allevato, tra arrembaggi, sbronze e omicidi efferati. Aveva iniziato a ripeterglielo dacché avesse memoria, e prepotentemente quelle ingrate parole, intrise di una lapidaria crudeltà che non aveva mai penetrato, riecheggiavano all’approssimarsi di ogni nuova sfida, pungolandolo ad armarsi di ferocia, ardimento, determinazione. Onorava il dovere di sopravvivere perché era destinato a succederle come Pirata Nobile, essendo il suo primo ed unico erede. Un contratto stipulato quando era ancora un poppante, consenziente perché privo di coscienza. Eppure, ora che la possedeva, nulla era cambiato: si era adeguato perché non era stato impossibile, e non avrebbe saputo immaginarsi altrove.
Sfregò la lama ricurva sulla balaustra del parapetto per sgrondarla dal viscoso fluido scarlatto che vi si era rappreso e, non riscontrando altri bersagli su cui doverla brandire, la risistemò nel fodero di cuoio, raggiungendo i sodali che cincischiavano a poppa attendendo suoi ordini.
- È una bella nave, peccato l’equipaggio fosse composto da insulse femminucce! – commentò briosamente il suo quartiermastro, accendendo una ciarlante approvazione tra gli altri pirati.
Il Capitano di contro si incupì ulteriormente: giacché solcava gli oceani ed era in competizione con la terribile madre, sognava grandi e memorabili imprese che l’avrebbero eguagliato alle leggende viventi del suo tempo, temute e riverite. Non gli serviva cumulare una quantità di successi facili che nessuno avrebbe menzionato negli anni a venire.
Ma non tutti erano sospinti dalle sue stesse ambizioni.
Ismael, quell’arabo fuggito eroicamente “da una sporca galea cristiana”, come raccontava allo sfinimento, aveva un modo di ragionare per certi versi alquanto infantile. Anche se, per la spigliatezza e la forza di cui in più occasioni aveva dato prova, l’aveva eletto suo braccio destro. Il fisico particolarmente massiccio e dei lineamenti induriti e maturi permettevano all’ex galeotto di dimostrare il doppio della sua età, pur essendo in realtà di un anno più giovane di lui.
Comunque dovette dargli ragione almeno sul primo punto: quella giunca dallo scafo color malva e le vele triangolari ocra era un’imbarcazione di singolare eleganza, agile, snella, lussuosa nei legnami, nelle definizioni e nel complesso intreccio di arabeschi che scolpivano ogni pezzo, artiglierie comprese. La sua struttura tuttavia era abbastanza fragile e l’imprecisione di quelle antiquate bocche da fuoco avevano reso una passeggiata abbordarla ed impadronirsene, dopo che i due bastimenti che le fungevano da scorta erano stati affondati a cannonate.

- Avanti ora, insolenti canaglie! Arraffate tutto ciò che può giovare alle nostre tasche! – incitò con ritrovata cupidità i suoi fedeli che non esitarono a sparpagliarsi a frotte, buttandosi chi sulle vittime, catturate o uccise, per spogliarle delle armi e dei loro averi, chi per i corridoi di sottocoperta, in una febbrile ricerca dei beni di valore che di sicuro erano stati ammassati nella stiva.
Il giovane Capitano non partecipò a quel concitato saccheggio: rinunciava volentieri a quella parte del lavoro, ritenendola la più volgare e noiosa. Dopotutto la ciurma era assoldata per quel preciso scopo.
Affidandosi ad una cima penzolante si catapultò sul suo mistico, la Dama di Nebbia, e, assicuratosi di non essere visto dagli altri, si accese un sigaro che conservava da un po’ di tempo in un astuccio di osso e pelle di foca. Socchiuse le palpebre inspirando avidamente quella narcotica composizione di tabacco, canapa e oppio che gli avevano venduto a Malacca; la assaporò pigramente fino ad inebriarsi dell’illusione di galleggiare nel nulla.
L’incognita e la morte avevano accompagnato la sua breve esistenza, ora dopo ora.

In fin dei conti quella vita priva di leggi, certezze, legami, nel bene o nel male, scorreva veloce e forse l’avrebbe obliata prima che diventasse un fardello sopportarla. Al momento era quello l’unico rimedio che adoperava per rimuovere quei tetri pensieri, soffocanti, freddi. Onnipresenti.
Quel forte sedativo non poté tenerlo a lungo veramente distante dalla cruda realtà in cui sguazzava dalla nascita. Tra le spirali grigiastre gli parve di scorgere relitti di velieri in fiamme inghiottiti con famelica indifferenza da onde di cobalto, un dimenarsi di anonime vite aggrappate ottusamente all’estremo anelito combattivo, come sciocchi pesci già finiti nelle nasse. Poteva sentire persino le loro grida inascoltate, le bestemmie urlate contro divinità imperturbabili o forse solo inesistenti.
E, mescolato a quel vocio indistinto, udiva anche qualcuno chiamare il suo nome.

- Edward!

Non il suo cognome. E neppure il titolo che con vanto si era precocemente guadagnato con le sue prodezze, con la spada, col sudore della fronte, non comprandoselo con ignominiose ruffianerie.
Solo una persona si permetteva di chiamarlo così confidenzialmente; a parte sua madre, qualora per chissà quale fortuita coincidenza non fosse tanto incazzata. Quando accadeva, sovente c’era sotto qualcosa di spiacevole che quello spiritoso considerava molto divertente.
Edward Teague scacciò frettolosamente le nuvolette di fumo che gli annebbiavano la mente e la vista.
- Fottuto figlio di cagna! Potresti smettere di alloppiarti come un turco e tornare con noi?
Ismael si sbracciava animatamente sulla tuga dell’imbarcazione arrembata, sventolando il cappellaccio di fustagno per attirare la sua attenzione.
Buttò fuori lentamente un fumo denso che pizzicava le narici e stese un pugno drizzandogli il dito medio, assieme ad un’occhiataccia più che maldisposta cui quello rispose con un altro improperio. Edward tirò un’ultima nervosa boccata, quindi sbriciolò il consunto involucro di erbe bruciacchiandosi i polpastrelli. Scrollò energicamente la scarmigliata capigliatura sforzandosi di tornare lucido.
Recalcitrante, balzò dalle scalette e si lanciò nuovamente sulla giunca, sbuffando e scansando col suo cipiglio indispettito e spigoloso quanti gli si paravano davanti smozzicando frammenti di frasi sconnesse e infarcite di colorite esternazioni da taverna.
- Di qua, Capitan Teague! – continuavano ad instradarlo tra le rampe, con eccitazione e ilarità. Tutti quei sorrisini ambigui e ammiccanti lo stavano urtando peggio di una merda di gabbiano piovuta sulla giacca nuova: - Insomma, cos’è che vi ha rincitrulliti?
Finn, il biondo nostromo irlandese che guidava il gruppetto, si costrinse a restare serio e compito, ma invano, poiché alla seconda ripetizione di quella lecita domanda annunciò platealmente: - Abbiamo beccato un bel carico di puttane!
Teague strizzò ripetutamente gli occhi, poi scosse la testa maledicendo quel viziaccio che lo aveva avviluppato da qualche settimana e di cui i suoi talvolta si approfittavano: - Se mi state prendendo per il culo, vi giuro che vi appendo per gli intestini! – li tacciò sostando davanti ad una porta riccamente intarsiata. Nonostante la sua serratura fosse stata scassinata e scardinata, reggeva quel tanto che bastava ad isolare un incognito locale dal quale, ora si accorse, proveniva un sommesso chiacchiericcio che lo indusse ad acuire le orecchie, scontento.
- Ecco a voi il tesoro! – si frappose con un sorrisetto Finn, spalancando con un calcio la porta.
Al giovane comandante si schiuse spontaneamente la bocca trovandosi di fronte un accecante tripudio di colori, drappi, suppellettili e sete trasparenti che avvolgevano maliziosamente decine di corpi e volti femminili ornati da luccicanti monili. Le sue profonde iridi castane, sprizzanti diffidenza ed imbarazzo, si posavano ora su quelle seducenti curve appena celate da veli variopinti, che indietreggiavano ad ogni suo passo inoltratosi nello stanzone, ora sulle espressioni di rimbambimento e animalesco fervore dei suoi compagni, che pendevano da un suo assenso per scatenare i già labili freni inibitori.
Lui taceva, attonito e impreparato dalla stravaganza di quella inaspettata situazione che, se non gestita con misura, avrebbe potuto ritorcersi drasticamente contro di loro. Troppo allettante per non nascondere una trappola. La nomea di marmaglia di debosciati li precedeva, doveva per certo esservi stato qualcuno che aveva escogitato quella messa in scena. La Marina Britannica ad esempio. Erano mesi che si preparavano a sferrare l’attacco definitivo dopo averli coinvolti in una lunga serie di scontri minori e inoltre le abili incursioni dei Fratelli della Costa nei loro porti avevano causato parecchie perdite di merci.
Ormai gli Inglesi stavano estendendo il loro predominio incontrastato anche nel Golfo Indiano, stringendo alleanze con i vari rajà, solo per non ammettere che li stavano sottomettendo alle loro direttive, senza invadere esplicitamente i loro territori.
Edward, prima di parlare, cercò la complicità dei marinai più affidabili tra i suoi, di quelli che avevano abbastanza senno da non lasciarsi ingannare tanto stupidamente da lusinghe generose e apparentemente casuali.
- Vi è andato in pappa il cervello, amici miei! Sembrate un branco di cani in calore! Neanche fosse la prima volta che vedete qualche paio di tette e gambe discinte!
Li sbeffeggiò duramente ottenendo il graduale silenziarsi dei loro scomposti schiamazzi, fissandoli truce per assicurarsi che il rimprovero avesse sortito l’esito voluto, ossia obbedienza, la principale qualità richiesta ad una ciurma, oltre che la più ardua da preservare, specie nell’eterogeneità e nell’incostanza di certi caratteri.
Neppure lui a quasi ventiquattro anni poteva considerarsi risolto in quanto ad uomo, tanto meno nel ruolo di Capitano. Almeno sapeva ciò che non voleva: usare la violenza su ostaggi deboli ed inermi era una di quelle codarde azioni che avrebbe tranquillamente evitato. Scontata e spregevole.
Camminò in tondo meditativo, osservando l’enorme quantità di oggetti da rubare ivi concentrati, quindi afferrò per i fianchi una delle giovani velate. I compagni si infervorarono, quella mormorò sottovoce nella sua estranea lingua, chinando la fronte e tremando di paura ad ogni suo sfioramento. Ma Teague non intendeva oltraggiarla.
Con garbo da far impallidire un vero gentiluomo, le sottrasse spille, orecchini, bracciali e collane che l’adornavano: - Piuttosto non vi siete accorti che queste gallinelle sono piene di orpelli preziosi? – li ammonì mostrando loro il pugno colmo di gioielli, risvegliando con quell’ipnotico sfavillio la loro acquolina.
– Placherete i bollori a terra. Queste donzelle possono fruttarci parecchie ghinee sul mercato … a patto che siano presentabili. – puntualizzò con affettata galanteria, abbonando un sogghigno di intima soddisfazione per l'astuzia in cui aveva dissuaso i loro depravati propositi, riconducendoli alla sua volontà.

Vi era un confine molto sottile tra il frugare e il palpeggiare, ed Edward certo non poté soffermarsi a riprendere ogni mano che si allungava più o meno distrattamente a perquisire le gonnelle, cercando ben più del lecito. Dopo qualche tentativo rinunciò a quell’ambiziosa pretesa di giustizia, compiacendosi comunque per l’ininterrotto tintinnare di gioie nelle sacche. Quell’arrembaggio, alla fine, li aveva ripagati molto più di quanto sperasse, e la sua faccia tesa per il sentore di un vergognoso fallimento a poco a poco si rilassò, anche se la mascella leggermente squadrata ed ispida restò contratta e serrata nel suo abituale contegno che lo faceva apparire oltremodo rigido, orgoglioso ed introverso.
In verità lui aveva imparato a sospettare di tutto e tutti, non si sentiva mai troppo sereno lontano dalla sua nave. Desiderava solo rientrare nella sua cabina, chiudere tutto il resto fuori e suonare le flessuose corde della sua chitarra, poltrendo nella sua branda fino all’alba.
Era uno di quei ricorrenti periodi di immotivata uggia e molestia per tutto, comportamenti idioti dei suoi furfanti in primis.
Tra una sconcezza e l’altra, invece, quelli si stavano attardando a terminare quel metodico spoglio, scordandosi di essere nel bel mezzo del mare aperto, e non in un bordello di Singapore.
- Ah, basta con queste manfrine! Trasferite immediatamente tutta la mercanzia sulla Dama di Nebbia, prima che qualche dannata corvetta della Compagnia venga a porci i saluti. E fate sparire ogni traccia del nostro passaggio – ordinò in tutta fretta, spazientito dall’eccessiva sosta che li stava esponendo ingenuamente al reale pericolo di un’imboscata.
Ismael, riscosso dal suo tono collerico, gli volse un cenno affermativo, tralasciando per una volta la sbruffoneria ed istruendo i marinai ad uscire alla svelta.
Teague attese sulla soglia che tutti si allontanassero, ma, anziché confondersi in quella bolgia, si intrattenne ad esaminare gli innumerevoli oggetti d’arredo di quella sfarzosa cabina. Non ricordava di avere mai incontrato tanta opulenza su una nave e non se ne era reso conto subito con la folla di fruscianti stoffe che l’occupavano e che avevano lasciato nell’aria una penetrante fragranza floreale.
D’un tratto fu colpito da alcune stilizzate incisioni che riproducevano i tratti di un uomo somigliante al corpulento indiano che aveva infilzato poc’anzi. Probabilmente doveva essere lui il proprietario di quell’imbarcazione ricolma di ricchezze. In effetti, era stato il più mediocre tra coloro che aveva affrontato in duello, non aveva dato prova di tecnica né prontezza di riflessi; però aveva un certo gusto per gli arredamenti ricercati.
Valutò accuratamente cos’altro trafugare tra quelle anticaglie, ignorando di essere in compagnia durante il suo placido curiosare.
Per la precisione di essere ostilmente spiato.

Lo aveva osservato con interesse e impazienza, tenendosi ben nascosta, camuffandosi tra arazzi e paraventi.
Figura superba e distinta, tono deciso e stentoreo, occhi fieri e profondi: era lui il Capitano di quell’ammasso di canaglie di diversa foggia e colore che avevano preso d’assalto la sua dimora.
Gli dei erano stati doppiamente benevoli, non ci avrebbe mai sperato. La avevano condotta a lui e, ora che erano rimasti da soli, avrebbe finalmente potuto compiere la sua vendetta. Per la sua famiglia brutalmente trucidata, prima di tutto, e per gli incubi che l’avevano tormentata da quella infelice notte di spade e fiamme che aveva spazzato al pari di un monsone ogni frammento del suo passato.
Era giovanissima, nubile, priva di dote e di qualsiasi protezione. Era diventata meno di niente, lei che aveva avuto il meglio di tutto: affetti e averi, corteggiatori e servi, perfino una raffinata educazione inglese. A causa sua, di quelli come lui, aveva perduto ogni cosa trasformandosi in un’ombra insignificante tra la fiumana di disgraziati che vagavano per le strade della sua città.
Dopo lo sconforto e la rabbia che l’avevano resa una pallida copia dell’aggraziata e ammirata fanciulla tra le più invidiate della sua cerchia per l’acume e la bellezza, la miseria l’aveva cambiata, abbrutita. Vedendo chiudersi ogni portone, si era ingegnata a vivere di mille espedienti, ingannando il prossimo, fingendosi sempre un’altra persona. Non dimenticando però chi era stata e chi l’aveva ripudiata.
Così, bazzicando per qualche giorno nel porto, aveva intercettato la notizia di una giunca che stava per partire alla volta del Golfo Persico. Si era imbarcata come clandestina e poi a bordo aveva indossato il costume da odalisca, confondendosi con le altre vergini destinate a scaldare il letto di un facoltoso pascià. Stava per mettere a segno il miglior colpo della sua breve carriera. Entrare in quella corte principesca l’avrebbe riportata ai fasti che le spettavano di diritto. Invero, oramai che aveva sperimentato la libertà, non credeva di poter resistere confinata da mura.
Rubare qualche ninnolo le avrebbe permesso di scappare dove voleva. E ricominciare.
Ogni progetto era sfumato dal momento in cui aveva intuito che erano sotto attacco di un vascello pirata. La paura era riapparsa a stringerle il respiro e aveva pregato di non dover crepare.
Poi, riconoscendo il famigerato nome, aveva sentito risorgere la brama di assolvere quella promessa, sussurrata tra le lacrime sulle loro pire trasportate dal fiume. Vendetta. Come un fiele che circolava nelle vene, non si era mai riassorbito e ora pompava prepotente nel cuore, istruendo le movenze di ogni muscolo.
Prese un profondo respiro e scattò in avanti, agile e lesta come una pantera.

Ciò che il pirata avvertì fu un fulmineo frusciare prima di percepire un modesto peso abbarbicarsi sulle spalle e una lucida punta di coltello spuntare minacciosa da sotto il mento.
- Ho già provveduto a radermi, stamane! – stigmatizzò iniziando a divincolarsi e reclinando il collo indietro, inalando un sottile profumo di patchouli e cannella, decisamente femminile. Di sbieco notò due gambe affusolate fasciate da larghi pantaloni glicine attorcigliate all’altezza del cinto. Provò a sciogliere quella fastidiosa stretta che gli impediva di impugnare la pistola ma, ponderando male i movimenti, favorì l’avvicinarsi della lama che gli si impresse sulla gola marchiandolo con un taglio.
- Mannaggia! – sbottò il ragazzo inarcandosi ancora, agguantandole il magro polso e torcendolo, perché mollasse il pugnale. Quella sibilò come un aspide, scivolandogli con un piede sull’inguine e colpendolo furiosamente.
Edward imprecò continuando a muoversi e a stringerle il braccio, procurandosi altri sfregi. Non avrebbe chiesto soccorso a nessuno. Sarebbe stato ridicolo: in fondo doveva essere soltanto una mocciosetta ostinata, però non capiva per quale ragione volesse ucciderlo. Non la avrebbe accontentata in quel modo: alla morte, se proprio fosse arrivata lì, voleva sputare il suo disprezzo in faccia.
Si tuffò di schiena su un sofà, schiacciandola sotto di sé. L’aggreditrice, tramortita dalla testata che gli aveva rifilato, fece cadere l’arma, mentre lui, ribaltando rapidamente le posizioni, la bloccò accavallandosi sul suo bacino. Quella si difese graffiandolo e soffiando, ma nell’istante in cui il pirata sfoderò la canna metallica piantandogliela nella pancia nuda, le sue unghie si ritrassero, come fosse una gatta, e il seno madido cominciò a sobbalzarle rotto dai singhiozzi.
Solo ora che aveva smesso di dibattersi il predone poté guardarla e subito venne rapito dal magnetismo dei grandi occhi dall’esotica forma allungata, scuri e lucenti come le più preziose onici, risaltati da uno sbavato kajal blu. Erano enigmatici, languidi e fieri, anche se tersi di lacrime.
Istintivamente le strappò via la veletta appuntata sulla nuca che la occultava dal naso in giù scoprendo i capelli nerissimi con alcune ciocche intrecciate da fili e perline colorate, la calda sfumatura di sabbia carezzata dal tramonto della pelle levigata, il dolce profilo delle labbra tinte di rosso ciliegia.
Aveva un’indocile e adorabile espressione da bambina smarrita in cerca di aiuto, e al contempo il sembiante di una donna scaltra che mirava ad irretirlo subdolamente con le sue grazie.
Fremette scombussolato: l’acuta sensazione che di quel volto non si sarebbe mai liberato gli attraversò il midollo, irragionevole e travolgente. Sconsigliabile. I pirati non possedevano, altrimenti non avrebbero avuto l’ansia continua di esplorare e saccheggiare posti sconosciuti.
Pensò che fosse una sicaria, inviata da qualcuno che lo odiava. E moltissimo.

La fissava incantato ed esterrefatto, tempestandola di muti interrogativi che restavano impigliati nella sua lingua, curvandogli la sottile bocca. La scrutava con il candido stupore tipico della sua età imberbe. Era più giovane di quanto si figurasse; non avrebbe pensato che l’autore di tanti crimini scellerati potesse essere un ragazzo scapigliato e imbronciato, poco più che adolescente. Fissandolo a sua volta, al di là degli zigomi appuntiti che rendevano i suoi occhi più severi e ombrosi, vide altro.
Tra le sue ciglia bruciava il fuoco triste di tante battaglie che prematuramente avevano scorticato la sua innocenza. Neppure la più esaltante di esse l’aveva mai pienamente rallegrato. Era inselvatichito dalla sorte che gli era toccata, ma nel fondo serbava qualcosa di tenero che non seppe spiegarsi, che strideva con l’immagine del famigerato bucaniere di cui la gente parlava accusandolo di delitti indicibili. Non lo conosceva, eppure credette che in parte fossero calunnie costruite ad arte, da se stesso o da rivali.
Le girava la testa al pensiero del sangue di cui stava per macchiarsi, forse ingiustamente. Si scoprì pavida: sottrarre la vita a qualcuno non era semplice quanto rubare qualche spicciolo. Tra tutte le identità che aveva assunto quella dell’assassina non le si addiceva, ed era contenta di averlo compreso grazie a lui.

Uno sparo infranse bruscamente quell’intenso dialogo silenzioso.

La bruna gemette strillando, il bucaniere si maledisse per aver accidentalmente premuto il grilletto e un nugolo di piume svolazzò ricoprendoli.
Edward, appurato che a squarciarsi era stato solo il materasso su cui oziavano, si staccò da lei e rinfoderò la pistola ficcandosi le dita nella folta zazzera per ripulirsi da quella lanugine, emettendo una sequela di parolacce e versacci schifati.
L’indiana singhiozzava piano coprendosi la bocca, non più per le lacrime ma per il riso. Un tintinnio di cristalli.
- Sì, molto divertente – bofonchiò lui fra i denti, indispettito dalla sua ilare reazione, spazzolandosi arrabbiato i vestiti.
La fanciulla si sollevò sui gomiti e protese una mano verso la sua fronte sfilandogli con tocchi delicati un paio di piume bianche dalla frangia che gravava su quegli occhi irrequieti e frustrati, come i suoi, da un’inguaribile malinconia. Non avrebbe avuto ragione di odiarlo, e neppure di smettere di farlo da un istante all’altro; d’altronde non aveva mai brillato per coerenza. I suoi stessi consanguinei la consideravano strana e spesso restavano spiazzati dai suoi comportamenti fuori dall’ordinario. Semplicemente non conosceva misura nelle sue emozioni. Impulsiva e imprevedibile; invece lui sembrava tanto misurato e riflessivo ...

La spontaneità del suo sorriso lo disarmò. Qualcosa di invisibile, misterioso e molto forte gli imprigionò il respiro. Un cappio che avrebbe dovuto recidere prima che lasciasse il solco, anziché permetterle di ipnotizzarlo con il suono del suo respiro leggero e dei gingilli che le pendevano dalle braccia, dalle orecchie, dal collo. Avrebbe dovuto respingerla anziché vagare con lo sguardo sulla sua pelle nocciola che appariva, dietro i veli rosati, decorata da arzigogolati disegni dei quali si domandava con insistenza il significato.

- Brutto bastardo ipocrita che non sei altro! Non hai perso tempo a spassartela! Ci chiedevamo dove diavolo ti fossi cacciato!

La squillante insinuazione del suo vice fu una frustata che lo riportò alla ragione, inducendolo a schizzare via da quella futile trasgressione: - Sei il solito stronzo boccalone, Ismi! – lo screditò rizzandosi dalla lettiga e chinandosi a recuperare il pugnale decorato dal pavimento, sottoponendoglielo. – La serpe mi è saltata al collo ed ha tentato di sgozzarmi come un maiale! – strepitò scaldandosi più del dovuto, grattandosi la bandana olivastra ancora impiastricciata di pilucchi.
La mora alle sue spalle si alzò a sua volta scoccandogli un’occhiata livida, mordendosi un labbro e preparandosi a vibrargli un ceffone, ma l’arabo, senza volerlo, si interpose boccheggiante: - Sia lode ad Allah … Toglie il fiato – mormorò stregato, squadrandole ripetutamente il corpo minuto e formoso, dai lunghissimi capelli d’ebano alla punta delle babbucce rosa, rivolgendosi di riflesso allo scontroso coetaneo.
- Anche il tuo alito! – lo irrise Edward - Sbattetela in gattabuia con le altre – si limitò a chiosare freddamente, senza ricadere nella tentazione di incrociare il suo sguardo pizzuto, che poco dopo, però, gli arrivò come un colpo di cerbottana mentre sul ponte di comando dettava disposizioni.
- Datevi una mossa, rammolliti! Su quelle gabbie! Spiegate i fiocchi e bracciate i pennoni! – ragliò pressante e autoritario, manovrando risolutamente il timone, rincorrendola con la vista mentre veniva scortata dai suoi verso un boccaporto.
Il vento portava il calore del fuoco che stava incendiando la giunca; ma era un altro calore a scaldargli il petto. Si schernì: non poteva davvero averlo accalappiato.

Qualche ora più tardi, in assenza di altre grane, decise di rientrare a passo spedito nella sala nautica per rilassarsi, ma, varcata la porta, inciampò in cumuli di casse, pallottolieri e bilancini disseminati su ogni superficie d’appoggio insieme a fogli zeppi di numeri e nomi.
- Capitan Teague! I miei più sentiti complimenti! È stato il migliore arrembaggio degli ultimi mesi! – lo accolse da dietro un tavolo Nizar, riponendo il monocolo con cui stava studiando alcune pietre sfavillanti. Per metà arabico, per l’altra, chissà come, tedesco; insomma uno che l’algebra e la precisione le aveva innate, l’unico di cui si fidava quando occorreva calcolare come ripartire i guadagni.
- Potremmo comprarci un’isola! Siamo ricchi! Ricchi sfondati! – trillò saltellando e provando inutilmente a coinvolgerlo.
Edward lo superò con la parvenza di un sogghigno amaro: - Non farmi ridere – commentò ruvido, buttandosi su un’amaca agganciata vicino la vetrata prospiciente il mare – Esiste forse ricchezza duratura per i furfanti perdigiorno come noi? La terra prosciuga tutto ciò che crediamo di possedere – sussurrò mestamente, imbracciando la vecchia chitarra.
Nizar, che navigava da quasi un lustro al suo fianco ed era abituato ai suoi repentini sbalzi di umore, non trovò nulla di sospetto in quell’accento burbero e beffardo, sottovalutando del tutto il nuovo e sconosciuto tumulto che ribolliva nel suo cuore vagabondo.
- Chiamo gli uomini a raccolta, allora? – lo interpellò piazzandoglisi a lato a braccia conserte, dondolando gli occhialetti rotondi tra indice e pollice.
Edward alzò una palpebra interrompendo di punzecchiare le corde: - Prepara le quote. Appena saremo approdati a Malabar procederemo coi pagamenti – lo licenziò preparandosi a scattare fuori di lì senza motivazione apparente.
L’eccelso matematico gli sbarrò la strada: - È già tutto pronto - borbottò saccente e piccato, stroncando la richiesta del Capitano,
- Ma bisogna sommarci la merce di carne, giusto? – gli puntò un dito quello, trovando un’altra scusa per svignare da tutta quella confusione.
E, mandando al Diavolo il buon senso, rivederla.

I locali di dabbasso erano bui, stretti, e stantii, e i più opprimenti in assoluto erano quelli che ospitavano le prigioni di bordo. Benché fossero state costruite con solide sbarre di ottone vi era sempre un marinaio preposto alla sorveglianza, specialmente se i detenuti erano fonte di denaro.
Edward lo rinvenne a poltrire rumorosamente sul suo cigolante sgabello: - Olly! – sbraitò richiamandolo indelicatamente sull’attenti. Il paffuto ragazzotto scozzese si svegliò di soprassalto urlando per lo spavento e asciugandosi la saliva colata sul pizzetto fulvo.
- Stavi sognando di nuovo di scopare con la tua adorata Mary Sue? – ironizzò il Capitano osservandolo severamente nella penombra irradiata da un’oscillante lampada.
Il marinaio rossiccio sgranò gli occhi verdi: - Non stavo dormendo, signore … Stavo riflettendo. – disse molto seriamente. Edward sospirò inarcando le sopracciglia e invitandolo a precederlo nell’altro corridoio che li separava dalle vere celle: - Riflettevi senza specchio …
- Come dite? – strabuzzò quello, impacciato dalla precedente figuraccia, girando le chiavi nella toppa.
- Lascia stare … - sbuffò rassegnato il collega, facendogli cenno di camminare.
- Ma … desideravate? – si bloccò Olly prima di ubbidirgli.
Teague scrollò con indifferenza le spalle: - Oh scusami. Stavamo stimando il bottino. Vorrei sapere quanti prigionieri ci sono.
- Ve lo dico subito – il rubicondo marinaio gonfiò le guance concentrandosi a contare sulle dita – Dunque … venti femmine e cinque eunuchi – concluse lanciandogli un furbo ammiccamento.
- Eunuchi? – ripeté l’altro perplesso, fissando gli esemplari in abiti maschili dietro le sbarre – Oh beh, si trova sempre qualche invertito cui aggradano – glissò contagiandogli la risata.
Quando intravide affacciarsi proprio la bella odalisca con cui aveva avuto quel contatto ravvicinato si insultò beceramente. Dalla maniera indiscreta con cui lo fissava sembrava leggere le confuse emozioni che gli provocava.
Schioccò le dita richiamando Olly che si era tenuto in disparte: - Date loro doppia razione quotidiana di zuppa. Ci attendono due settimane di viaggio. Non vorrei i compratori le scambiassero per rami secchi. – parlottò non allentando di scrutare lei che lo guardava con partecipe timidezza, quasi aspettandosi che potesse e volesse rispondergli. Pensiero ancora più stupido; capì che doveva andarsene: – Avvertimi se dovessero esserci problemi di qualche sorta.
La guardia ghignò chinando il capo in segno di saluto, e lui lo ricambiò sfuggevolmente, acconsentendo a fidarsi della bontà di non complicare ulteriormente la sua sciagurata condizione solamente per essersi infatuato di quella matta ragazzina.


Il grande mistico veleggiava nella notte stellata sospinto a fil di ruota dagli zefiri che soffiavano miti e costanti in quella stagione, preannunciando la torrida estate.
Per non mettere a repentaglio il prezioso carico da smerciare, avevano prediletto le rotte meno trafficate e ad ogni avvistamento di vele sospette avevano abbrivato per non rischiare svantaggiosi scontri. Poche leghe ormai li separavano dalla terraferma, il mare stava cambiando odore. Se ne accorse pur essendo intento ad ascoltare la nuova melodia che le dita avevano tessuto fluendo naturalmente sulle sei corde.
Amava intrattenersi con quel poliedrico strumento musicale spandendo le sue note all’aperto, il cielo come unico spettatore.
Tutto era apparentemente tornato come prima.
Aveva placato le insubordinazioni con esemplari punizioni. E a momenti stava cancellando il ricordo di quanto accaduto. Di chi c’era a pochi metri di distanza da dove era seduto.
Sistemò tra le labbra il rotolo di tabacco quasi spento, aumentando lo strimpellare per soffocare l’eco dei pensieri.
- Capitano! C’è un’emergenza!
Un richiamo allarmato, passi affrettati che correvano nella sua direzione. Dopotutto la tranquillità se si protraeva a lungo lo inquietava.
Sospese la sonata al chiaro di luna e si mosse mollemente dal giaciglio improvvisato con alcuni cuscini, volgendo il collo verso il segaligno mozzo inglese di cui non aveva imparato il nome, invitandolo ad esprimersi, mentre gettava oltre il parapetto il mozzicone fumante.
- Una delle indiane sta male, ha perso i sensi. Sembra abbia la febbre!
La concitata rivelazione non gli alterò un battito, diede una pacca al moccioso e rispose con un grezzo: - Sbarazzatevene. Una in meno non fa la differenza.
Il ragazzino deglutì un impacciato: - Come comandate, Capitano. – girandosi e allontanandosi tutto tremolante, ma per poco non ruzzolò sentendosi afferrare il braccio.
- Aspetta. Accompagnami. – mormorò Edward controvoglia, passandosi una mano sulla faccia.
Non c’erano molti altri in giro a quell’ora, incontrò solamente Ismael ed Olly che lo accompagnarono farfugliando tutto il tempo di maledizioni legate al trasporto di femmine e alla necessità di togliere di mezzo tutte quante. Li lasciò blaterare camminando nervosamente davanti a loro, rimuginando sulle soluzioni per zittire quella diceria prima che prendesse campo tra gli altri.
Appena giunto sull’uscio delle celle notò subito una maggiore irrequietezza nelle prigioniere che avevano alzato il tono della voce, dando l’impressione di confabulare. Si avvicinò battendo le nocche sulle traverse metalliche: - Hey! Non sta bene sparlare di una persona in sua presenza – le motteggiò fingendosi offeso. Le donne si spostarono impaurite permettendogli di scorgere chi fosse tra di loro a star male. Immergersi di nuovo in quel viso, che nonostante il pallore emanava un bagliore dotato di uno sconosciuto potere avvincente, lo destabilizzò.
- Ah! Ci avrei scommesso le palle che doveva trattarsi di quella piantagrane! – mugugnò voltandole le spalle, roso da una contraddittoria volontà di lasciarla lì o condannarsi di nuovo a respirarla.
I compagni pazientavano il suo strano indugio, non riuscendo a scorgere una decisione nei suoi occhi impenetrabili benché sbarrati.
- È da una settimana che si rifiuta di mangiare e bere – lo informò Olly – Non sono riuscito a convincerla in alcun modo! Gran bella testarda!
Edward sbuffò stizzito, poi si pronunciò seccamente: - Portatela nella mia cabina.

Si sentì adagiare su qualcosa di non molto soffice ma comunque comodo, e stese le gambe, sgranchendo le articolazioni intorpidite mentre dei polpastrelli callosi le tastavano i polsi e la carotide. Brividi di freddo la fecero sussultare quando sulla fronte percepì qualcosa imbevuto d’acqua e si rannicchiò su un fianco, rilassandosi per il tepore che subito dopo la ricoprì.
- Mandalo giù. Ti riscalderà e disinfetterà.
Una mano le sollevò la nuca ed obbedì alla leggera pressione sulle labbra schiudendole e ingurgitando quel liquido che immediatamente le incendiò la gola e le viscere, riscuotendola di colpo: - Che veleno mi hai dato, farabutto!
Udirla parlare nella sua stessa lingua, seppure con un accento estraneo e incerto, lo sorprese e rassicurò, ma cercò di non mostrarlo: - Ci sono mille modi per suicidarsi, molto più immediati del digiuno … o del rum. Lo bevo da anni, credimi. – ridacchiò il giovane avventuriero, alzandosi dalla brandina e continuando a scolarsi la bottiglia.
La ragazza si guardò attorno non ricordando cosa le fosse successo. Aveva la pelle accaldata ma rabbrividiva.
- Mangia – le ordinò Teague lanciandole una saccoccia di biscotti secchi.
L’indiana portò le ginocchia al petto stringendosi nella coperta sdrucita e piantando gli occhi nei suoi, abbozzando un sorriso di timida gratitudine.
- Perché l’hai fatto? – la fulminò lui, più avvilito che incuriosito, risedendosi sul bordo del lettino per convincerla a nutrirsi e per poterla osservare meglio. Le porse una galletta, speranzoso di vederla riprendersi.
La mora abbassò il mento e il suo accento si colorì di un tenace orgoglio: - Non voglio essere la schiava di nessuno. – si inumidì le labbra rialzando lo sguardo – Liberami, ti prego! Avete già preso tutto ciò che di valore avevamo, non vi basta? – lo supplicò sfiorandogli la sottile cicatrice sul collo.
Edward posò le iridi sulla sua piccola mano che continuava a vellicarlo, innocente e pericolosa, sui languidi occhi a mandorla, incantevoli e misteriosi, sui suoi capelli di seta, sul suo ventre piatto e ornato da un vezzoso brillantino nell’ombelico: - Un pirata non conosce limiti. Ambisce sempre a spingersi oltre – bisbigliò meno disinvolto di quanto volesse, mentre incontrollabilmente aveva iniziato a toccarle i fianchi scendendo verso le cosce, bramando un contatto più diretto e proibito.
Lei non opponeva alcuna resistenza ma tremava e la prospettiva di approfittarsi della sua evidente debolezza lo disgustò. Si rialzò come scottato da olio bollente: - Mangia. Ti concedo di restare qui fino a domani. Dopo di che tornerai con le tue compagne. Qui non esistono favoritismi.
La giovane aggrottò le nere sopracciglia: - Dove ci state portando? – polemizzò fiaccamente, attanagliata da uno sbigottimento che lottava ad armi pari con l’agitazione.
Edward si ravviò la bandana: - Mettiamola così: ammirerete posti che non avreste avuto occasione di ammirare se foste giunte alla destinazione cui eravate destinate – la lingua gli si arrotò veloce tradendo il trasporto che intendeva rinnegare; oramai si era esposto.
La giovane donna si rattristò: - Fingete cortesia e invece ci trattate peggio di bestie! So chi sei e quali cose orribili hai compiuto! – gli rivelò, mortificata dall’effimera e sconclusionata illusione in cui si era cullata per sfatare quella consapevolezza.
Lo spettro del rimorso corruscò il cipiglio fermo e flemmatico di Teague: - Benvenuta nel mio mondo.

L’indomani una pallida alba salutò l’ancoraggio della Dama di Nebbia nella verde baia di Malabar.
La ciurma si affaccendò eccitata a scendere a riva, pregustando i divertimenti con cui scialacquare tutti i guadagni accumulati in quelle settimane di scorrerie nelle prospere acque che bagnavano quella miriade di isolotti e penisole. Non appena le scialuppe furono calate sul pelo delle placide onde a bordo piombò un silenzio tombale, screziato solamente dagli scricchiolii delle giunture dei paranchi e dagli spifferi che fischiavano tra le velature ammainate.
Edward si soffermò a contemplare qualche minuto l’alzarsi del sole dal grigio orizzonte, rimandando un’incombente decisione dalla quale intuiva che sarebbe dipeso il suo futuro da Capitano. Controllò che le imbracature dell’unica barca rimasta agganciata alla fiancata fossero sufficientemente sbrogliate, quindi rincasò nella sua cabina.
Ma non la trovò stesa nella branda su cui l’aveva lasciata la sera precedente. Era ritta in mezzo alla stanza ed esaminava le innumerevoli cianfrusaglie sparse o appese alle travi del tetto.
- Perché sono ancora qui? Perché non mi hai venduta assieme alle altre? – lo interrogò senza voltarsi.
Sembrava essersi rimessa completamente; notò che aveva consumato anche la porzione di minestra e la sua andatura non vacillava più. Presumibilmente aveva ingigantito il suo malessere perché voleva affrontarlo di nuovo. Per quanto illogico era possibile.
Le si avvicinò cautamente, sussurrandole sulla scapola che sporgeva dal corpetto traforato: - Il codice prevede che il bottino di ogni battaglia venga distribuito equamente. E che ogni uomo abbia la facoltà di disporne come e quando vuole.
La straniera, sentendosi solleticare dalla sua vicinanza, sfuggì lesta. Il bucaniere la raggiunse e le scagliò un’occhiata in tralice:
- Accomodati.
Non era un vero invito, piuttosto una spazientita imposizione. Ricomponendone il senso, la prigioniera non vi si piegò: - Non sarò la tua scimmia ammaestrata!
Era uno scricciolo eppure sprizzava una vitalità eccezionale, abbagliante. Proprio per questo tenerla con sé l’avrebbe spenta di dispiacere.
– Odio le scimmie! – sbottò Edward, distogliendo il nascente rammarico per quanto stava per accordarle. Un’ultima domanda lo assillava. – Come conosci la mia lingua? – le chiese addolcendo il tono, e, sperò, lo sguardo.
La ragazza sbatté le palpebre diverse volte, disorientata dal non comprendere le sue intenzioni e affascinata dal suo astruso interessamento. Volle essere sincera: - La mia istitutrice la parlava.
- Sei una specie di aristocratica? – si stravolse il Capitano squadrandola in maniera più insistente. Il portamento indubbiamente era tale; poi ripescò dalla giubba l’arma con cui l’aveva minacciato e le si appressò con un sogghigno arrogante – O forse una sicaria? – la accusò oscillando il pugnale sulla sua scollatura.
- Quello era un dono di nozze – mentì la ladra, arretrando e scontrandosi con una seggiola, sentendo risorgere le palpitazioni nell’imbattersi nel piglio intimidatorio presente sul volto cupo del ragazzo.
- Immagino. Glielo avresti infilato nello stomaco o magari l’avresti castrato. – giudicò schietto e sprezzante – Accidenti, quell’uomo mi è debitore … Oh, già … L’ho ammazzato – rifletté ad alta voce, lisciandosi le guance punteggiate da un’irsuta peluria.
La bruna si era accasciata sulla sedia e lo squadrava a metà tra la preoccupata e l’invaghita: quel ragazzo aveva degli slanci assolutamente assurdi. Non era del tutto sano di mente, probabilmente, e per quanto ciò lo rendesse più affine di chiunque altro avesse conosciuto, era consapevole che non si sarebbero mai appartenuti. Era un vascello in tempesta. E lei voleva un ormeggio sicuro.
Teague, intercettata la sua espressione frastornata, andò a sedersi dall’altro lato del tavolo, ripiegando alcune mappe e riponendole nei cassetti: - Ad ogni modo, come ti chiami, carina? – tagliò corto mimando un sorriso sfacciato per ridurre l’imbarazzo.
Ora la trattava come fossero due amici e stessero giocando. Intenzionalmente o no, la confondeva e le pareva di trovarsi in una boccia di vetro, in una finzione.
– Diamine! Puoi anche inventartelo un nome! – si risentì lui, aggrottandosi per l’ineffabile intrigo che gli infondeva quella conturbante sconosciuta.
La replica della mora fu improvvisamente furibonda: - Tu non potrai legarmi! Non potrai!
Il pirata riservò un’incisiva osservazione alla porta lasciata aperta, accavallò i piedi sul tavolo e incrociò le braccia dietro la testa, piantando gli occhi al soffitto: - Non ne ho alcuna intenzione … – confessò pigramente, aspettandosi di vederla volare via, con il desiderio di libertà di un passerotto guarito.
L’affascinante estranea esitò, sentendo formicolare sempre più le vene al richiamo della fuga.
Le stava suggerendo di scappare e che non l’avrebbe ostacolata. Che non le importava di lei, in conclusione.
Il motivo di quella scelta non l’avrebbe indagato, però la accolse con sollievo. E un pizzico di rimpianto. Anche lui era un’anima errante, che agognava la pace ma ancora non era pronto a ghermirla.
Lo aveva capito e le stava dando una possibilità.
Imbracciò i remi, precipitò sulle onde e iniziò a vogare. Osò credere che un giorno, forse, si sarebbero ritrovati. E lo avrebbe ringraziato.

Edward si appollaiò alla boma di trinchetto, sporgendosi sull’azzurro paesaggio marino. E, vedendola svanire dentro una barcaccia, si costrinse a dimenticarla.
Anche se gli era rimasto addosso un po’ del suo sensuale profumo di pioggia primaverile.



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Ruth ed Edward Teague (alias Freida Pinto e Keith Richards).
   
 
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