Disclaimer: i personaggi sono proprietà del sensei.
Le frasi in corsivo, ad eccezione dell’ultima in chiusura, vengono dalla
canzone “March is
the bottom of the night”.
Note: per eventuali note esplicative
sul senso generale della fanfic, rimando alla fine
(qualunque cosa io possa dire ora sarà usata contro di me con l’accusa di auto
spoiler XP).
Unica nota davvero utile: ad un certo punto si parla di un “Aarni”. Non
mi sono drogata, ma per esigenza narrativa che sarà poi chiara, ho dovuto
modificare il nome di Armin mantenendo l’assonanza più possibile.
A Yoko, capirai da sola il perché, immagino.
E a Nari, Rota, Carla, Kam, Rin
e Lucifer.
Perché sono fermamente convinta che la vita sia una ricerca continua per tutti,
ma che non sia mai senza speranza o inutile.
Si dice che il filo del destino sia colorato di
rosso.
Un istante prima della morte uno, alla fine, se ne accorge.
Prima no. Prima sarebbe troppo comodo e troppo facile: darebbe il tempo alle
persone di abituarsi all’idea, di ponderare i pro e i contro che hanno fatto
parte della loro vita.
Prima aiuterebbe a farsene una ragione.
Invece no: uno passa tutta la propria esistenza a combattere e scegliere, a
incrociare bivi e fare sempre affidamento su qualcosa che gli suggerisca dove
andare – un susseguirsi di “destra o sinistra” che si ripetono – poi arriva il
momento in cui bisogna dire “basta”, o in cui qualcuno lo dice per te e tu sei
lì che muori e te ne accorgi.
Nessuno sceglie mai davvero.
Rivaille ha passato la sua
vita a vedere morte, ed è un paradosso che non riesce a farlo ridere più,
sempre che questo sia mai successo.
Sono pochi quelli ancora vivi per poter affermare di aver visto Rivaille fin
dai suoi inizi, eppure da raccontare non c’è niente: anni passati a vivere e
sembrano l’uno la brutta copia dell’altro. A volte si ha persino la sensazione
che abbia rimosso dalla sua mente tutto ciò che non implicasse combattimenti, e
morte, e giganti grotteschi che uccidevano, dilaniavano e masticavano esseri umani che un tempo avrebbe potuto chiamare
compagni.
Nei suoi ricordi c’è un affollarsi di cadaveri e morte, di spade, odore di gas
e disperazione, paura e poi un momento, uno solo, in cui nella testa scattava
un sangue freddo che di umano non aveva nulla; qualcuno lo chiamava istinto di
sopravvivenza, ma chi aveva visto Rivaille doveva aver capito che c’era
qualcosa di più, c’era nello sguardo la follia di chi non ha modo di combattere
la paura con il semplice coraggio.
Perché non basta, perché c’è un limite all’orrore a cui si può assistere
mantenendo un briciolo di umanità.
I ricordi di Rivaille sono il ripetersi di questo, di sangue e di sguardi ai
compagni morenti – di strette di mano in punto di morte, di rassicurazioni
dimenticate nell’ultimo respiro di un uomo.
Ma chi combatte sceglie di farlo; chi si arruola sceglie di accorciare
ulteriormente la propria vita, e per questo la città che dorme tranquilla nelle
notti in cui la legione è insonne, le orecchie attente al minimo vibrare della
terra su cui ancora – chissà come – stanno in piedi. Dorme e si sente
legittimata a non piangere i morti, ricognizione dopo ricognizione, fallimento
dopo fallimento.
Rivaille ha sempre provato un sentimento contorto, nei confronti degli umani
dentro le mura. Qualcosa che non ha mai saputo analizzare freddamente, a metà
tra il senso del dovere e di disciplina che gli imponeva di proteggerli e
annientare i giganti, e la voglia di ucciderli in massa.
Quel che da soldato semplice erano stati sentimenti contraddittori, con il
tempo erano diventati freddo disprezzo per i propri simili al di fuori della
propria squadra: ogni fibra del suo essere odiava l’idea di sfilare in pompa
magna per la strada principale di una città immobile e impaurita dentro le
mura, che viveva relativamente tranquilla mentre loro erano fuori a morire, e
che quando rientravano li accoglieva con il silenzio sgomento e atterrito – e
il loro unico, egoistico pensiero era che non potevano fare affidamento su una
squadra i cui membri morivano come mosche.
Erano falsi eroi.
Nessuno li avrebbe acclamati, nessuno li avrebbe ringraziati, nessuno gli
avrebbe mostrato nemmeno la pietà, figurarsi la riconoscenza.
Rivaille aveva capito prima di molti altri che scegliere di combattere e andare
a morire per chi era dentro le mura avrebbe consumato lo spirito di chiunque
ben prima di consumarne il corpo ferita su ferita.
Umano o soldato.
Destra o sinistra.
Sinistra.
Una sola volta aveva
parlato con Irvin di Eren Jaeger in maniera approfondita e personale, al di
fuori di un più ampio concetto strategico e di analisi.
Eren veniva definito “la speranza dell’umanità”, un’idea con cui tanto lui
quanto lo stesso Irvin sembravano concordare; a rendere diversi i loro punti di
vista in merito era cosa di un ragazzino di quindici anni rendesse quest’ultimo
una speranza.
Oltre al sottile dettaglio della trasformazione in gigante.
Rivaille aveva passato con lui molto più tempo di chiunque altro,
probabilmente, da quando Jaeger era entrato a far parte della Legione
Ricognitiva e aveva capito, a lungo andare, che il punto non era tanto la
trasformazione: era l’ingenuità, a suo modo. Non quella che ti rendeva stupido,
come se l’altro si fosse presentato da lui dicendo che il mondo era buono e
caro, ma quella di chi ha fede.
Non sa nemmeno lui come, ma ne ha.
Eren Jaeger, si è reso conto ad un certo punto, spera; ed è questo che lo rende, a sua volta, la speranza di
qualcuno.
Eppure, si è detto nel momento ultimo della vita di Eren, non era ironico?
Avevano passato ore a chiedersi quale fosse la scelta migliore, giorni a
domandarsi se la decisione presa fosse stata quella giusta, istanti nel mezzo
di una battaglia che poteva essere l’ultima a pensare che forse il gigante
sarebbe prevalso sul ragazzo – ed Eren poi cos’era, umano, soldato o mostro? –, a vagliare le possibilità,
per poi arrivare lì.
Ritrovarsi in mezzo a cadaveri sinonimi del tuo fallimento come soldato, di
fronte ad uno troppo giovane per doversi fare carico di una cosa complicata e
spietata come la guerra, uomo e gigante, vittima e minaccia e dover uccidere, e
vedere per la prima volta nel suo sguardo la rassegnazione ad essere ucciso, la
resa di fronte alla morte – un tratto che da speranza lo fa diventare
disperazione, emblema di un’umanità finalmente salva e al tempo stesso
annientata.
In un unico istante bastardo non esistono più valori né decisioni giuste o
sbagliate, si perde il senso di vita e di morte tanto quanto quello di
vincitori e vinti.
Nel rumore lieve e famigliare di una lama estratta, tutto perde di significato
ed è in quel momento fatto di secondi e respiri che Rivaille comprende che non
è mai stata davvero una questione di scelta, di uomo o soldato, di combattere o
arrendersi, di fare il bene o il male degli esseri umani, di odiare o compatire
i giganti.
Alla fine muoiono come mosche macchiandosi di una colpa che li renderà cadaveri
che deambulano sulla terra.
Mentre la lama si sporca del sangue di una vittima fra le tante – l’ennesima – Rivaille si chiede a che
cazzo serva poi sopravvivere in mezzo a tanta merda.
Dovrebbe esserci qualcosa di più,
oltre ciò che mi hai detto.
(Eppure mi sfugge tra le mani e i pensieri)
Aarni non avrebbe saputo dire di preciso quando quella sensazione si era fatta
più pressante, vera; era un uomo come tanti, lì in Finlandia.
Nato da una famiglia modesta, ad averlo portato davvero avanti nella vita era
stata la curiosità, una di quelle vive e impossibili da soffocare che lo aveva
portato fin da bambino – o almeno, da che avesse memoria – a guardare il mondo
con negli occhi il desiderio di esplorarlo e conoscerlo più possibile.
Ma escludendo quell’innata fame di sapere, non era mai spiccato per nulla in
particolare, se si escludeva quella che lui considerava niente più che una
modesta capacità di analisi.
Inizialmente era stata solo una sensazione passeggera come se ne hanno tante e
lui l’aveva lasciata lì, in un primo momento, messa da parte e senza dargli importanza;
poi però un giorno era stato improvvisamente diverso, anche se spiegare come
sarebbe stato difficile, a parole.
Aarni aveva solo sentito che c’era qualcosa di inespresso e di vitale, se l’era
sentito nelle ossa.
A volte faceva sogni
strani, soprattutto nel periodo dell’università.
Nella maggior parte dei casi non li ricordava con chiarezza: portavano con
loro, al risveglio, solo quella fastidiosa impressione di ricordare ma non
riuscire a mettere a fuoco il frammento di sogno ancora nella propria testa e
pronto ad un’immediata fuga.
Però c’erano anche volte in cui riusciva a trattenere qualcosa, non sapeva bene
dove ma ci riusciva; non erano sogni piacevoli, di questo era abbastanza certo.
C’erano come dei pezzi di puzzle, ma non c’era l’ordine in cui incastrarli fra
loro: odori, colori, voci che sembravano familiari ma a cui non sapeva
accostare dei nomi.
C’era paura e si svegliava agitato, il sudore sulla pelle e il battito del
cuore veloce.
Nel buio della sua stanza, si ritrovava in una realtà sicura – eppure, in quei
momenti, non riusciva a far altro che sentirsi fuori luogo, imprigionato e incompleto.
Provava ad elaborare, a trattenere quanti più frammenti gli riusciva, ma non
erano mai sufficienti ad avere un sogno completo da analizzare e comprendere;
attribuiva tutto alla stanchezza e alle notti a volte troppo fredde, a scherzi
nella sua testa e rielaborazioni di uno stress.
Poi, quando ogni superficiale spiegazione sembrava inadatta, leggeva qualsiasi
libro gli capitava in mano e una sera c’era stata una frase sola, una in righe
su righe, su centinaia di pagine ingiallite dal tempo; un tomo così vecchio che
nessun suo coetaneo si sarebbe mai dato la pena nemmeno di provare a
sfogliarlo. Un libro che parlava di un viaggio mai fatto e solo fantasticato,
in un continente lontano che non esisteva in nessun luogo ad Aarni conosciuto e
a cui i protagonisti della storia non arrivavano mai davvero – una frase piena
di speranza verso un futuro impossibile da guadagnare nel contesto di una
guerra crudele come la storia ne aveva viste fin troppe: “Andremo a vedere il mondo!”
Quella notte, svegliandosi da un incubo di sangue, grida, terrore e macerie, un
solo nome era rimasto più delle immagini o delle sensazioni; una richiesta
disperata di una voce mai sentita e al tempo stesso cara come può esserlo una
figura materna al figlio devoto, che gli riportava alla mente una promessa da
bambini che non ricordava di aver mai pronunciato.
Il senso di colpa di un sogno lasciato sfumare, deludendo forse le aspettative
di qualcuno che non sapeva nemmeno che volto avesse.
Quella notte aveva deciso di vedere il mondo assecondando un sogno e aveva
pianto, a vent’anni, con la violenza e la sincerità di un bambino.
Armin.
Aarni è un uomo adulto, di
quei grandi che ormai non sai più indovinare di che colore avevano i capelli un
tempo: ha il sorriso gentile che forse solo le persone che hanno raggiunto la
loro personale felicità riescono a rivolgere sinceramente agli altri.
La sua vita è stata piena di cose buone: mentre tira le somme è sulla comoda
poltrona di una casa che lo ha visto diventare marito, padre e nonno, di fronte
ad un camino davanti al quale ha passato molti inverni felici con le persone
care.
La mano che poggia sul bracciolo sfiora leggermente il legno di un tavolinetto
messo per necessità da una moglie premurosa, per un consorte troppo abituato a
leggere per ricordarsi anche di riporre i tomi sugli scaffali appositi; il
libro che poggia su quel piccolo mobile è il suo preferito, persino più vecchio
di lui, e parla di un viaggio.
Di luoghi ne ha visti tanti, nella sua vita, e pensa di aver raggiunto la
propria personale felicità, nonostante rimanga indelebile nella sua mente il
sorriso di una moglie che se ne è andata da qualche anno già e che gli
rimproverava sempre con affetto di perdersi a guardare qualcosa che agli altri
era precluso.
Di vedere cose che non sarebbe mai stato in grado di condividere, forse, ma che
gli erano sempre mancate; lei gli diceva che pensava ci fosse un posto in cui
lui, Aarni, dovesse arrivare ma che per qualche motivo non era riuscito ancora
a trovare o a raggiungere.
Non lo definisce rimpianto, mentre ci pensa; per lui è come aver respirato a
pieni polmoni eppure avere la sensazione di essersi fermato un istante prima di
quanto avrebbe dovuto. La sensazione di vuoto che ha dentro non è dolorosa, sa
più di insoddisfazione, un sentimento complesso e personale che non sarebbe mai
in grado di descrivere con precisione neanche scrivendo milioni di quegli
stessi libri che ha letto, nella vana ed infantile ricerca di un mondo di
fantasia che somigliasse a quel luogo sempre cercato.
Mentre chiude gli occhi con un sorriso leggero sposta lo sguardo fuori dalla
finestra di quella sala: il tempo fuori è di un bianco strano, un bianco a cui
non è riuscito ad abituarsi anche se tornare a casa, in inverno, aveva sempre
significato un paesaggio fatto di neve.
Anno dopo anno, ha sempre sentito annidarsi dentro di sé un disagio vago ma
sempre presente.
È un istante appena, quello in cui troppe immagini si affollano nella sua
mente; mentre sorride tra la paura di un ricordo di sangue e l’affetto di una
parte di sé ritrovata, piange di nuovo come la notte di tanti anni fa, solo più
silenzioso.
Gli sfiora le labbra il nome di un ragazzo che un tempo fu speranza, ma ciò che
pronuncia è solo una domanda – nel barlume di lucidità ultimo di un uomo che
muore alla fine del proprio tempo, la domanda è quante vite ancora serviranno
in quel gioco di prese di coscienza di anime che ancora si cercano.
…Dopodiché, mi sveglio.
(Si fa strada nella tua mente un nome che non sai
pronunciare)
L’Istituto era piuttosto
famoso livello sia nazionale anche internazionale: diviso in tre corsi
specifici, uno dei quali ammetteva solo gli studenti migliori, era estremamente
selettivo.
Una prima scrematura avveniva con una vera e propria prova d’ingresso: settanta
posti di cui dieci riservati ai meriti scolastici di eventuali borse di studio.
Alcuni pensavano che fossero fin troppi, visti i pochi già disponibili per chi
tentava la sorte, ma quando veniva specificato che si trattava di dieci per l’intera Nazione, nessuno aveva mai
da ridire oltre.
Dei sessanta posti rimasti, solo i dieci con il punteggio più alto avevano
facoltà di scelta tra tutti e tre i corsi disponibili: uno di questi, infatti,
ammetteva solo determinate predisposizioni che il test iniziale racchiudeva in
esercizi ben ponderati. Si poteva pensare quindi che i dieci che avevano la
fortuna di rientrare tra i migliori – tra essi non venivano inclusi gli aventi
diritto per borsa di studio – puntassero tutti al corso altrimenti
inaccessibile, ma non era così, come le matricole di quell’anno dimostravano.
Delle dieci passate con il punteggio più alto, solo una sembrava intenzionata a
scegliere il primo corso, ossia Annie Leonhardt; l’altro che si vociferava
volesse orientarsi in tal senso – Jean Kirschtein – sembrava
aver cambiato idea all’ultimo momento.
Armin era stato ammesso con una borsa di studio: le sue capacità di analisi
matematica e situazionale gli erano valse a tal punto da dargli questo
privilegio.
In quel momento attendeva fuori dalla stanza in cui, singolarmente, i settanta
studenti ammessi dovevano comunicare le loro scelte; in alcuni casi, come Annie,
si sapeva già senza che fosse ancora entrata, mentre per la maggior parte il
vociare del corridoio lasciava ben intendere che le idee fossero ancora incerte
o confuse.
«Che palle.» sbottò Eren, al suo fianco, spostando lo sguardo dalla porta oltre
la quale Mikasa era stata una delle prime ad essere chiamata. L’amica aveva
ottenuto il punteggio massimo dei migliori dieci, tra i quali era rientrato
anche lo stesso Eren. Come gli era stato spiegato, sarebbero stati chiamati
prima quei dieci – secondo ordine alfabetico – e poi, nello stesso modo, gli
altri sessanta ammessi.
Conosceva bene il motivo del malumore del suo migliore amico: ad Eren non
andava giù che, nonostante la possibilità di scegliere il corso che preferiva,
Mikasa avesse deciso fin dall’inizio di richiedere lo stesso del castano. Armin
aveva conosciuto i due a scuola: da quanto sapeva le loro famiglie erano amiche
da quando lei ed Eren erano niente più che bambini. Crescendo insieme, erano
praticamente come fratelli più che semplici vicini o amici d’infanzia.
«Dai, Eren…» lo blandì abbozzando un sorriso incerto, mentre Mikasa e gli altri
due chiamati con lei – Braun e Braus – uscivano, un uomo dietro di loro che si
affacciò chiamando altri tre nomi: «Bertholdt Fubar, Eren Jaeger e Jean
Kirschtein.» pronunciò con voce chiara.
Armin spostò lo sguardo su di loro: a conferma dell’averli visti insieme fin da
quando erano fuori dall’aula d’esame, il giovane chiamato Berthold scambiò uno
sguardo d’intesa con Reiner Braun, appena uscito.
Quanto a Jean ed Eren si squadrarono per un attimo in cagnesco, cosa che non
stupì nessuno davvero – dopo aver dato spettacolo mettendosi a discutere di
fronte alla stessa aula, senza sapere nemmeno i reciproci nomi, era stato
chiaro che non sarebbe stato un rapporto pieno d’amore, il loro.
Eppure, anche in quel momento Armin sorrise.
«Cosa c’è, Armin?»
Spostò lo sguardo verso Mikasa e, semplicemente, scosse la testa.
Alla fine dei dieci
migliori della graduatoria, solo Annie Leonhardt aveva fatto richiesta per un
corso diverso da quello degli altri, cosa che aveva stupito non poche persone.
Dopo l’iscrizione effettiva da parte di tutte le nuove matricole erano stati
guidati verso i dormitori messi a disposizione degli studenti che ne facevano
richiesta, vuoi per esigenze di lontananza da casa o per propria preferenza;
Armin in realtà si era stupito che vi fosse possibilità di alloggiare anche
fuori, inizialmente, ma poi aveva dovuto ricordare a se stesso di non fare
confusione: loro non erano militari,
costretti alla condivisione di un medesimo spazio nell’eventualità di un
pericolo sempre imminente.
Raggiunti i due edifici principali, all’esterno erano stati accolti da alcuni
studenti più grandi: mentre questi si preparavano a quello che doveva essere un
discorso di benvenuto, il vociare fra le matricole aveva raggiunto anche il
gruppo dove si trovava Armin.
«Ah, quello è Irvin Smith! Ho saputo che è praticamente a lui che fa capo il
dormitorio maschile.»
«Ma come chi è quello di fianco?! Non hai mai letto il suo nome?!»
«Dicono che Rivaille sia lo studente più dotato dell’Istituto degli ultimi
anni, la sua media è spaventosa.»
«Sì, quanto il suo carattere però.»
«Ma dai!»
«E quanto chiacchierano.» borbottò annoiato Jean, guardandosi intorno – a sua
discolpa c’era da dire che la maggior parte dei commenti che li aveva raggiunti
appartenevano ad un gruppetto di ragazze poco distanti, mosse nei loro apprezzamenti
non solo da dati alla mano sull’andamento scolastico dei due citati.
«C’è poco da fare, il ragazzo più basso – Rivaille – pare sia davvero un genio.»
osservò un ragazzetto lì con loro, che si presentò l’attimo dopo come “Conny
Springer”, sebbene non ve ne fosse realmente bisogno essendo rientrato anche
lui nei primi della graduatoria.
«E il biondo precocemente stempiato?»
«Ymir, non è carino quello che hai detto!» soffiò una piccolina che Armin
riconobbe senza troppe difficoltà come Christa, rimprovero a cui la più alta
ridacchiò e basta.
«Ho sentito che anche la ragazza con gli occhiali, Hanji Zoe, pare sia
fenomenale. Alcuni dicono che nelle attività teoriche superi persino gli altri
due, solo che è un po’…»
«Fuori di testa.» concluse Reiner al posto di Bertholdt, che sorrise semplicemente con un’alzata di
spalle, come a dire che non era proprio quello che intendeva, ma poteva essere
una versione alternativa – e un po’ meno cortese.
Il discorso era stato non
troppo lungo ma stimolante e incoraggiante.
Irvin Smith lo aveva pronunciato nella sua interezza, raccomandandosi con le
ragazze del corso due – quello scelto dalla maggior parte dei primi della
graduatoria, ma pur sempre dalla minoranza in un conteggio totale delle nuove
matricole – di far riferimento ad Hanji per qualsiasi cosa e ai ragazzi di
rivolgersi a quello chiamato Rivaille, il cui momento più socievole era stato
uno sguardo in cagnesco che era sembrato più simile ad un “non osate
disturbarmi per le vostre stronzate” che un “venite pure a consultarvi con me
quando ne avete bisogno”.
Aveva presentato gli altri studenti a cui fare riferimento per gli appartenenti
agli altri corsi e poi aveva augurato a tutti loro una buona permanenza nell’Istituto.
La vera sorpresa per Armin era stata dopo: mentre la folla scemava, era stato
chiamato dall’ultima persona da cui sarebbe aspettato di essere notato.
«Sei Armin, vero? Armin Arlert, eh? Quello della borsa di studio!» era stato
l’entusiasta richiamo di Hanji, che gli era quasi trotterellata vicino come una
bambina a cui erano state promesse delle caramelle; Armin aveva annuito più per
riflesso che per reale attenzione e lei lo aveva affiancato in un attimo,
prendendolo addirittura a braccetto.
«Posso rubarvelo, sì?» si era rivolta con un sorriso a Eren e Mikasa
principalmente, portandolo via ben prima che potessero comunque rispondere
davvero e non trasportati dall’entusiasmo di lei.
«Complimenti per il punteggio alto della borsa di studio.» incalzò lei quando
furono abbastanza lontani dal gruppo; Armin balbettò un “grazie” timido e
modesto che la fece ridere bonariamente.
«Riposo, soldato Arlert, riposo.» lo blandì scherzosamente, o così gli parve;
poi lo vide: il sorriso di chi sa di averti detto qualcosa che solo tu avresti
potuto capire. Era il tipo di sguardo che a volte gli era sembrato venisse
rimandato indietro dalla propria immagine riflessa nello specchio: gli occhi di
chi ha visto più di quanto una persona dovrebbe vedere, non in termini di
orrore o meraviglie, non in termini di esperienza.
Erano gli occhi di chi aveva posato lo sguardo su troppe vite – tutte vissute nella loro interezza, nel loro ciclo senza
fine, nell’attesa di qualcosa che dimenticavi ma di cui sentivi sempre la
mancanza.
Negli occhi di Hanji c’era la consapevolezza di chi aveva passato intere
esistenze nella spasmodica ricerca di un’anima lasciata indietro e ritrovata
completamente quando forse aveva smesso di sperarci.
In quell’istante Armin sentì un tremito scuoterlo e mille domande affollargli
la mente: era come lui? Anche lei un giorno si era svegliata con la
consapevolezza che quello fosse solo l’ennesimo ciclo? Anche lei era stata
trascinata in quel risveglio, forzato dal ricordo di troppo dolore di una prima
vita ormai lontana eppure mai completamente dimenticata?
Si chiese se anche lei fosse stata preda di tutti i dubbi che lo avevano
afflitto, come se fosse davvero possibile che un’anima si reincarnasse tante
volte al fine di incontrarne nuovamente un’altra, o compiere qualcosa che la
prima volta era rimasta incompiuta.
O se invece aveva creduto di essere pazza, com’era stato per lui, troppo
giovane per comprendere davvero una cosa di una tale entità – giovane com’era
tutt’ora e com’era la stessa Hanji, che però sembrava calma nella sua folle
normalità com’era stata un tempo, mossa da una curiosità senza fine verso ciò
che avrebbe dovuto terrorizzarla.
«Piangi pure. Abbiamo tempo per parlare.» disse, posandogli comprensiva una
mano sulla spalla; solo allora Armin si accorse di essere scosso dai singhiozzi
– come tutte le volte che nelle passate vite, ad un istante dalla morte,
ricordava il nome della speranza che forse aveva reso possibile tutto quello.
Eren.
Le teorie sulla
reincarnazione erano tante, Hanji ne aveva studiate moltissime dalla sua presa
di coscienza, gli aveva confidato.
Aveva incontrato Irvin che lui era già “mezzo sveglio”; non sapeva
coscientemente chi lei fosse, ma aveva asserito di trovare naturale la sua
vicinanza tanto quanto fidarsi di lei. Rivaille invece pareva essere ancora
completamente “assopito”.
«Non saprei ancora dirti con certezza come funzioni» aveva ammesso «anche se
naturalmente lo sto studiando e ho un sacco di ipotesi per adesso!» aveva
aggiunto entusiasta com’era sempre stata, strappando un sorriso ad Armin.
«Di una sola cosa sono abbastanza certa.» aveva aggiunto; aveva detto anche
tante cose, ossia che forse ci si metteva più tempo a seconda di quanto forte
erano i sentimenti di quando la prima esistenza era finita, oppure che poteva
essere un problema di coincidenze, che forse ritrovarsi lì, ora, tutti insieme
ed in un contesto che sembrava il calco di quella che definiva “esistenza
primaria” era la vera chiave di tutto.
Anche se non erano soldati ma studenti, perché la divisione di tre corsi, la
graduatoria e in alcuni casi storie personali simili al passato dovevano aver
smosso le anime in un modo che prima di allora non doveva essere mai accaduto.
«In tutto quello che ho letto sull’argomento, sembra che una cosa metta tutti
d’accordo. Mi piace credere che le anime di chi instaura un legame profondo e
inscindibile in vita rimangano tali anche dopo. E che sia questo che ci
permette di ritrovarci.» aveva ripreso «Questo non è molto scientifico, ma è
l’unica spiegazione che continua a tornarmi in mente ogni volta. Più di
qualsiasi calcolo matematico. Questa non è una cosa di probabilità, non è una
cosa che può rimanere invariata nonostante i troppi fattori.» aveva continuato
a spiegare, seduti di fronte alle scale dell’ingresso dell’edificio del
dormitorio maschile.
«Penso che siamo destinati, in qualche modo, che ci sia qualcosa che dobbiamo
fare e qualcuno con cui dobbiamo farla. Non ho idea di cosa sia, ma c’è. E ci
trascina tutti gli uni contro gli altri, con una forza incredibile. Alla fine,
ci si ritrova. Forse si impiegano cicli infiniti ma alla fine deve succedere,
deve esserci uno scopo. So che c’è, nonostante la sofferenza o il fatto che a
volte sembri di non avere nulla da fare dove si è. C’è una persona a cui devi
ricongiungerti, una cosa che devi capire, una che devi concludere. C’è di
sicuro. Non è male messa in questi termini, no?» aveva concluso, rivolgendogli
un sorriso privo della follia curiosa della Hanji dei giganti.
C’era dolcezza, aveva pensato Armin. Solo dolcezza e qualcosa che doveva aver
vissuto altrove, come lui.
Come tutti.
«…Eren non ricorda nulla.» aveva mormorato, quasi dovendosene scusare.
«Ricorderanno. Te l’ho detto, no? Forse dipende dalle ferite. Ma alla fine
tutti trovano il loro qualcosa.»
Pur senza rivolgerci alcun addio, ci siamo
separati.
(Tacita era la promessa di incontrarsi di nuovo)
La lama cade a terra,
sporca di un sangue che macchia il terreno sotto il corpo esanime di una
speranza ormai morta.
Perché non importa che Eren Jaeger abbia svolto il suo
compito fino alla fine, che l’umanità sia salva; le perdite sono incalcolabili
e oltre una mera questione di soldati morti in battaglia.
La lama che Rivaille ha lasciato andare ha messo fine alla vita dell’ultimo
gigante rimasto, e il Caporale si chiede a che cosa sia servito.
Non è cambiato nulla rispetto al passato: c’è chi è rimasto a guardare altri
farsi ammazzare per la propria salvezza, ma c’è di più, sono andati oltre.
Hanno preso dei ragazzini e li hanno fatti soldati, sfruttati, resi simboli di
una speranza calpestata e poi se ne sono liberati.
I “salvatori” come Jaeger sono stati in bilico tra
vittima e carnefice e alla fine, considerati non più funzionali ad uno scopo in
terra, sono stati gettati via come armi difettose; dopo aver caricato le spalle
di un moccioso del peso di un mondo ignobile e crudele, gli è stato ordinato di
morire in silenzio.
E lui ha accettato, troppo stanco dopo aver ucciso, e visto morire, e ucciso
ancora, tradito gli amici, essere stato tradito a sua volta, aver perso tutto.
Tutto tranne l’anima, forse.
Quella Rivaille l’ha vista quando quel ragazzino gli ha detto che ucciderlo
andava bene.
«Caporale—»
«Sparisci.»
Lo sibila con un odio che non è descrivibile, un disdegno per l’umanità nella
sua interezza che non è comprensibile né giustificabile, ma così reale che non
la si può ignorare.
La verità è che sono tutti stanchi, che la guerra è finita ma per loro non
cesserà mai davvero.
Non c’è salvezza, perché gli incubi li perseguiteranno fino a farli svegliare
nel terrore di un attacco, nella follia totale della percezione di un nemico
che non esiste più, ma di cui sentiranno sempre lo sguardo addosso.
Rivaille è considerato il soldato perfetto.
Dopo che una squadra ti muore sotto gli occhi e uccidi un ragazzino posto sotto
la tua custodia – uno che dovevi proteggere, uno a cui dovevi forse anche
insegnare qualcosa, uno che era la speranza per cui forse pochi, ma alcuni
erano sopravvissuti – c’è da chiedersi quanta altra merda dovrà annientargli l’anima
perché smetta di avere la parvenza di un essere umano e diventi finalmente il
soldato che aveva scelto di essere.
Che ad essere umani, in un’epoca come quella, era solo un modo doloroso di
morire ogni giorno.
C’è una persona a cui devi ricongiungerti,
una cosa che devi capire,
una che devi concludere.
C’è di sicuro.
Angolo delle lamentele
*ride*
Questa fan fiction nella mia testa era molto diversa, per esempio era più figa
*muore* ma, soprattutto, più chiara.
Sono fermamente convinta che sia una tematica che forse dovevo sviluppare in
una long, o forse in una oneshot lunghissima di
quelle che sputi sangue a correggere.
Di sette pagine, penso di aver voluto cestinarne almeno tre o quattro. Comunque.
Se qualcuno alla fine ha capito che si parlava di “reincarnazione”, gli do un
biscottino. Più che dal punto di vista tecnico e delle varie teorie che fin
troppi nei secoli hanno maturato, ciò che mi interessava davvero era il
concetto di “persone destinate” in qualche modo: perché è l’unico, vero tipo di
“amore” che riesco a vedere in SnK – poi vabbè, scrivo porcate pwp ma
quelle son cose.
E bon. Se qualcuno non s’è schifato, sono tutto sommato felice (L)