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Autore: Low_Armstrong    17/06/2013    2 recensioni
Raccolta di brevi (o non molto brevi, a volte) one-shot che altro non sono che flussi di pensieri di Billie Joe (o di chi gli è vicino) sui/nei momenti più importanti della sua vita o che (secondo me) lo hanno particolarmente colpito e segnato. Scusate l’assurda sdolcinatezza di tanto in tanto, il calcare la mano su fatti dolorosi ancor più spesso, ma è tutto spontaneo, qua, e pubblico le cose così come vengono.
#rageandlove #stay(arm)strong
Enjoy.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrienne Nesser Armstrong, Altri, Billie J. Armstrong, Mike Dirnt, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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16 giugno 2001


SOMETIMES YOU’RE AT YOUR BEST, WHEN YOU FEEL THE WORSE

Sono le sette e un quarto di mattina, di un sabato mattina per essere precisi.
Tua moglie e i tuoi figli sicuramente dormono… e come biasimarli, pensi.
Stai per entrare in casa tua nello stesso modo in cui lo farebbe un ladro, o quasi. Beh, tu le chiavi perlomeno le hai. Così, con leggerezza, malgrado in volo tu non abbia dormito poi molto e il tuo viso possa eufemisticamente essere definito stanco, abbandoni il trolley nero un paio di gradini sotto di te e infili la chiave nella serratura. Piano, cercando di non fare rumore, ruoti saldamente il polso verso sinistra, un paio di volte. Sembri uno scassinatore consumato… o un papà a cui piace fare sorprese. Entri, sembra proprio che tu non abbia svegliato nessuno. Anche perché le vostre camere sono un piano e diversi metri lontane dall’ingresso. In ore di volo, non hai pensato a come stupire i tuoi famigliari senza far prendere loro un infarto al risveglio. Eh, questo in effetti non ha mai molto preoccupato un tipo come te. Almeno in apparenza. Alla fine, opti per una scelta, diciamo così, comoda: il tuo morbido, grandissimo letto ti attrae parecchio, e decidi che ti saresti semplicemente disteso accanto a tua moglie. Così avresti visto il sorriso che tanto ti mancava quando dormivi solo in stanze d’albergo sparse per il mondo non appena si fosse svegliata. E, soprattutto, avresti causato un solo arresto cardiaco mattutino. Ti togli la giacca di pelle (decisamente troppo calda per la California, ma ancor più decisamente troppo impicciosa per il tuo piccolo trolley) e la lanci sul divano da una distanza di un paio di metri. Anzi no. Altra idea. La riprendi, sali le scale in silenzio e la posi sul pavimento, come se fosse stata lasciata cadere, davanti alla porta della stanza di Joey, la prima sulla destra. Avanzi e, sulla sinistra, davanti alla porta socchiusa della stanza del piccolo Jakob ti sfili e abbandoni una scarpa. Infine, davanti alla camera matrimoniale, lasci l’altra. Spingi piano la porta semidischiusa e ti si illuminano gli occhi vedendo tua moglie raggomitolata nel suo lato del letto con le braccia attorno al tuo cuscino. Dopo tutti questi anni, vi riscoprite innamorati come due pazzi diciottenni ogni volta. Perché, in fondo, che lo vogliate o no, da qualche parte, siete ancora quei due pazzi diciottenni. Senza ulteriori indugi ti distendi accanto a lei, ancora profondamente addormentata.

Sei talmente agitato e, un po’ infantile a dirsi, emozionato all’idea di rivedere e riabbracciare la tua famiglia dopo quarantuno (sì, tieni il conto esatto) giorni di forzata lontananza da non riuscire a prendere sonno, malgrado la stanchezza, neanche per dieci minuti. Passato poco più di un giro della lancetta corta del tuo orologio, vedi le palpebre di Adie dischiudersi lentamente e, in silenzio, ti giri sul fianco e ti sollevi un po’, puntando il gomito sul letto, come per guardarla meglio. Come se non l’avessi già osservata in quell’intimo momento che separa il sonno e la veglia almeno un milione di altre volte. Mentre la osservi, lei distende il braccio poggiato sopra il cuscino in un primo, maldestro tentativo di stiracchiarsi. Senti i suoi polpastrelli raggiungere e sfiorare la t-shirt che indossi, all’altezza dell’addome e, contemporaneamente, vedi i suoi occhi spalancarsi in fretta. Formuli la preghiera più rapida che il mondo abbia mai visto (o quasi), augurandoti che la sua immediata reazione sia di gioia, e non un urlo di paura al pensiero di avere un ladro stupratore steso accanto.
Grazie al cielo, è la prima.
In un secondo, ti è addosso, ti abbraccia forte e il suo profumo, il suo corpo stretto attorno al tuo, la tua pelle contro di te sono il successo più anelato, il balsamo per ogni ferita della vita, il premio che ricambia ogni dolore.
«Che ci fai tu qui?» Ti sorride, con il viso appena umido di lacrime di gioia. È vero, della risposta non gliene frega niente, è solo una scusa come un’altra per sentire la tua voce. Dal vivo, a pochi centimetri dalle sue orecchie, non da un oceano di distanza attraverso un cellulare.
«Ti amo». Che cosa stupida! Ti chiede come mai ti sei fatto otto ore di volo dalla Francia per essere lì di primo mattino, quando il giorno seguente avresti dovuto già essere di nuovo in Europa e tu le rispondi che la ami. Beh, forse non è poi così fuori luogo come risposta. Anzi, è proprio il centro della cosa. È vero, sei lì perché la ami. E ami i vostri figli. La guardi per così a lungo negli occhi che pensi di non poter smettere mai più. Poi lei ti si avvicina e ti lascia un piccolo bacio sulle labbra, uno di quei baci teneri e infantili che sono davvero apostrofi rosa tra le parole t’amo. Le passi le mani tra i capelli e per un bel po’ di tempo ve ne restate semplicemente sul letto come due ragazzini, abbracciati, con lei seduta tra le tue gambe fasciate in jeans neri piuttosto pesanti e le sue, scoperte dal ginocchio in giù, allacciate dietro la tua schiena.

«Papà!» Le voci più belle che tu abbia mai ascoltato ti perforano i timpani ovattati dalla porta della camera e, nel giro di tre secondi, i tuoi figli scalzano Adie dalle tue braccia e vi si fiondano come due missili.
«Papà! Sei tornato!» urla ridendo Jakob, aggrappandosi al tuo collo battendo sul tempo Joey. E così, bastano due marmocchietti in pigiama per scioglierti e mandare brillantemente a quel paese la tua corazza da dura, imperturbabile rockstar. Non riesci neanche a parlare, con quei due esserini stretti tra le braccia. Vuoi solo coccolarteli e tormentarli un po’, è la cosa che più ami fare al mondo. Vedi distrattamente Adie sbirciare veloce con la coda dell’occhio la data sullo schermo del cellulare, per poi ricominciare a fare il solletico a Joey, che ride come un matto, lasciandoti libero di vedere una nuova finestrella tra gli incisivi. Una finestrella che non c’era quando l’hai salutato prima di partire per il tour. Il tuo sorriso si fa malinconico per un millesimo di secondo, ma poi inconsciamente decidi che di tempo da sprecare rimuginando non ne hai e torni a ridere e scherzare con quei batuffolini sul letto sfatto.
Improvvisamente, mentre lasci a Joey e a Jakob il tempo di riprendere il fiato (bugia: una pausa serviva anche a te) e vedi che si stuzzicano i pigiamini a vicenda, tua moglie ti siede accanto e ti passa un braccio attorno alla vita.
«Sei un papà meraviglioso, lo sai, vero?» ti sussurra all’orecchio, commossa, seria e malinconica allo stesso tempo. Le stringi istintivamente la mano che ha poggiato sul tuo ginocchio.
«Adrienne, dovevo esserci oggi, dovevo», bisbigli in fretta, parlando più a te stesso che a lei.
«Lo so», dice calma, avvolgendoti di più in vita.
«Non voglio che non abbiano nessuno a cui fare gli auguri oggi. Lo so che sono troppo piccoli per queste cose, ma… non voglio. Importa a me». Parli tutto d’un fiato, mentre avvicini la testa a quella di Adrienne. Ti posa un bacio tra i capelli e ti accarezza il viso, portandoti ad appoggiare la testa nell’incavo tra il collo e la spalla scoperta. Per un precario istante, ti abbandoni al peso del dolore, alla morsa che ti stringe lo stomaco, tra le braccia della donna che ami. Poi una rinnovata, contagiosa risata raggiunge le tue orecchie e ti fiondi sorridendo sui tuoi figli, pronto a una nuova, infinita sessione di giochi, salti e solletico. Senti a malapena Adrienne, seduta al tuo fianco.
«Buona festa del papà, Billie»

E per un attimo, ti si blocca il respiro.






AUTHOR’S CORNER
E niente, ecco cosa partorisce la mia mente contorta in una noiosa, calda domenica sera-notte. Il capitolo sembra eterno, se confrontato con gli altri, ma boh… mi è venuto così. Dopo tutta la depressione dei precedenti, volevo una bella dose di fluff, anche se una puntina amara ce la dovevo infilare per forza. D’altra parte, è proprio l’idea di partenza, il fatto che Billie Joe non voglia mai mancare per i suoi figli. Il giorno è, come avrete capito dalla battuta finale, quello in cui si festeggia la festa del papà in America e oggi (cioè, ieri!) mi sentivo molto ispirata sull’argomento. Una cosuccia che ci tengo a far notare: il fatto che un semplice dentino da latte caduto porta Billie Joe a rendersi conto che, per via del suo lavoro, che malgrado tutto lui ama alla follia, si perde un bel po’ di cose della sua famiglia (anche se ho un po’ calcato la mano, non credo che stia via senza mai vederla per così tanto… almeno spero!).
Bon, ora vado, vi ho già stufato abbastanza, ma dopo mesi di quasi totale stitichezza (!) creativa, un po’ logorroicità (?) mi sa che sia inevitabile!

A presto,
Lally_Weasley
  
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