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Autore: Kimmy_90    01/01/2008    1 recensioni
“... hai problemi a casa?”
“No.”
Fu investito dal no rapido del ragazzo. Il mulatto stava ergendo un muro fra i due: un muro che il giovane, per primo, avrebbe voluto infrangere.
“Con le ragazze?”
“No.”
E ci aggiunse una trincea, già che c'era.
“... ho capito.”
Genere: Generale, Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Attenzione.
Questo è uno scritto un po' così. E' un tema difficile che conosco da lontano, da qualche amico di amico. La mia storiella è solo un esperimento per provare a calarmi in questo genere che non ho mai toccato, nemmeno da lontano. Quindi sono perfettamente cosciente di presentare una visione distorta, romanzata e molto immatura del tema proposto. D'altro canto, non essendo parte in causa ne' strattamente legata a persone chiamate in causa, poco conosco di questo mondo, ne' ho mai avuto occasione di esplorarlo in prima persona.

IMMANENCE



Il vento soffiava invadente e presuntuoso contro i vetri dell'aula. Gli infissi, ormai vecchi, come reazione fischiavano arrabbiati: ora di più, ora di meno, man mano che l'aria vi fluiva insistente. Le piccole correnti, gelide, si spandevano nella stanza, e Neve andava a rintanarsi fra le spalle protette dal maglione di ciniglia, candido e soffice. L'espressione si manteneva vacua, perfetto specchio della sua mente.

Le parole della donna in piedi a qualche metro da lui lo attraversavano senza lasciare il minimo cenno del loro passaggio. Nozioni su contro nozioni. Teorie. Pratiche. A tratti il ragazzo non capiva nemmeno più di cosa si stesse parlando, e, onestamente, non gli interessava. La sua testa, perfetta nella sua immaturità, era impegnata ed impigliata altrove. Si limitava ad attendere, mentre il Tempo passava, e lo sorpassava, per non tornare mai più.

“Neve!”

Fissava fronte se', perdendo la percezione di tutto e tutti.

“Ale!”

Sbatté le palpebre, che andarono a nascondere, in quell'istante, le iridi color cacao. Si voltò, ma con lentezza.

Sulla soglia una ragazza gli porgeva un sorriso. Lui la guardava. Lei lo guardava.

Si alzò.

“Bella lì, Neve! Te la fili con la Cate?”

Lui non rispose al commento dell'amico, mentre avanzava verso la ragazza. Avvolta da una chioma biondo-rossastra, Cate stringeva le mani dietro la schiena: la maglietta corta, nera, lasciava intravedere le ossa del bacino, sporgenti sotto la pelle tesa e pallida. In mezzo una riga, lunga ed ampia, saliva a denunciare la presenza dell'ombelico. Come le fu di fronte sorrise a sua volta, portando le mani scure sul volto dell'altra, a sfiorare un isto gli zigomi.

“Ciao, Ale.”

La Cate era timida. Talmente timida da essere pronta a presentarsi ogni giorno, alle dieci e venti, davanti alla porta della 5F: e ogni giorno era lì a porgere al mulatto quel suo sorriso bianco, incorniciato dalle labbra carnose ricoperte di gel lucido.

Neve le afferrò le gote fra indice e medio, lasciandosi scappare una lieve risata.

Eccola. La tensione che se ne andava, il tempo giusto che giungeva.

No, non era la Cate.

Perchè la Cate sorrideva e basta. Neve la osservava, la studiava, in quei dieci minuti scarsi in cui la vedeva. Nelle pupille v'era quel qualcosa che faceva sentire la ragazza a suo agio, quell'espressione che solo gli occhi sanno dare.

Ma no, non era la Cate.

Perchè la Cate rideva. Sarebbe bastato, se la mente di Neve non fosse impigliata ed imprigionata altrove: talmente altrove da non poter dare degna attenzione ad un fiore come lei, che di attenzione ne domandava con costanza, ogni giorno, ogni volta, quasi disperata.

La Cate dovette andare via presto, perchè il tempo era poco. Neve portò il pollice alla bocca mentre la vedeva allontanarsi, lasciandosi cadere poggiato sullo stipite della porta.

“Te la curi, la tipa, eh?”

“Uh.”

“Che pezzo di figa.”

“Hu-uh.”

“C'hai un culo.”

“Mph.”

“Cazzo, se fossi stato mulatto anch'io...”

Neve rispondeva monosillabico. Dalla bocca gli fuoriuscivano versi che lasciassero intuire la sua approvazione o meno a quello che dicevano gli altri. Di lì, a vedetta, scrutava il corridoio colmo di mandrie di ragazzi che, con calma esasperante, si recavano nelle aule: faceva saettare gli occhi fra quelli, guardando in alto.

Sapeva che doveva guardare in alto.

Perchè Lui svettava.

“Ale!”

Ma c'era sempre qualcuno che lo distoglieva dal suo intento.

Così una gomitata gli arrivò nel fianco, da parte di uno che non avrebbe nemmeno sospettato si trovasse in quel luogo, in quell'istante.

“Oh, ma 'sta Cate ce l'ha steso, Neve. No?”

Neve non rispose. Non si era nemmeno accorto che il ragazzo era giunto dal corridoio, proveniente esattamente dalla parte opposta in cui stava guardando.

“Gentaglia!”, fece quello.

Espirò, quasi seccato dal dire frizzante del ragazzo. Come se quell'euforia di cui era pieno l'altro sottraesse energia alla sua ansia che cresceva avida.

“Vida non c'è!”

E che, a filo teso, si rompeva con un rumore secco che gli rimbombò nella testa.

Alessandro Neve portò il capo indietro, guardando verso l'alto, mentre le spalle discendevano: prive d'energia, come tutto il resto del corpo.

Volle affondare, ma non poteva. Il pavimento di marmo si frapponeva violento fra lui ed il suo intento, rendendo ciò impossibile. Ed i suoi amici lo vedevano, lo guardavano, lo tenevano sott'occhio tutto il tempo. No, non poteva permetterlo. Racimolando quante più forze riuscisse a trovare nel suo animo che andava corrodendosi, sorrise ampliando il petto: quello che per lui era un pieno cenno di ripresa.

“E quindi ce la teliamo due ore prima, no?”

Manteneva il sorriso.

“Oh, yep, my friend.”

Finì così, con gli altri, a raccattare quei tre libri in croce che aveva, lasciandoli cadere disordinatamente nello zaino, e dunque uscire verso la tanto agoniata libertà.

Che lui non voleva affatto.



“Avete il thè frizzante?”

Dietro il bancone, il mondo cambia. Fece di sì con la testa e lasciò la postazione, per andare a prendere il barattolo verde e porgerlo alla donna.

“Uno e dieci”

Neve faceva volontariato alla Bottega del Commercio Equo e Solidale sotto forti influssi della madre, una nigeriana particolarmente giovane approdata in Italia assieme a mille altri come lei. Lui, che nel pomeriggio aveva tendenzialmente nulla da fare, faceva sì con la testa alla genitrice ed usciva per andare a lavorare, senza ricompensa alcuna: se non una barretta di cioccolata di Quinoa, ogni tanto. Sempre meglio che cazzeggiare sul divano, diceva suo padre, chiarissimo sia di carnagione che di capelli.

Era da quei due opposti che era nato lui.

Spesso si confrontava con la crema al cioccolato del Ringo, color ruggine, pressato fra un biscotto bianco ed uno nero: che non gli lasciavano alcuna via di fuga.

Diede lo scontrino alla donna, che se ne andò soddisfatta aprendo il barattolo, varcando la soglia intenta a bere senza nemmeno pulire la lattina.

Tornò il silenzio.

Aveva bisogno di pensare.

E si rimise dietro il bancone. I gomiti appoggiati, il peso totalmente avanti, sostenuto dal legno.

'Vida non c'è'. Si era sentito strozzato, più di quanto lo fosse stato quando aveva affrontato una morte, più strozzato di quanto Marghe l'aveva lasciato. Erano mesi, ormai, che questa cosa demenziale andava avanti. Lui non la reggeva, non la sopportava: e allora aveva bisogno di spazio. Aveva bisogno di lasciarsi lì, accasciato, nel vuoto del piccolo negozietto che profumava d'incenso. Ma perchè? Si stava complicando la vita. Quella era una strada sbagliata. Era volersi del male dal profondo dell'anima.

Sbuffò.

Era tanto difficile domandare di essere normale? Non bastava essere un mulatto in un paese di bianchi, no. Doveva anche passare le ore di lettere a guardare Vida con gli occhi vivi d'interesse, e di qualcos'altro. Non andava affatto bene. E non riusciva a fermarlo.

Si risistemò più o meno composto, scrutando lo scorcio di strada che appariva dalla porta aperta. Gente che passava. Il freddo entrava, al solito, con lievi zaffate nelle quali si sarebbe potuto dire di poter intravedere la brina. Come quella mattina, mise a fuoco un punto impreciso, e lì rimase. Addormentato, con gli occhi aperti.

“Alessandro..?”

Ma perchè era sempre la stessa voce femminea a distrarlo?

Dovette tornare alla realtà. Lei sorrise compiaciuta, le mani congiunte all'altezza del petto abbondante.

“Allora la Rossetti aveva ragione!”

“... la chi?”

“Ambra, sai, quella mora... bassina. E' in classe con me.”

“Uh.”

“Mi ha detto lei che lavori qui.”

Rimaneva immobile. La Cate lo fissava euforica, gli occhi azzurri contornati dal bianco lucido dell'ombretto, sfumato fino alle sopracciglia. No, non conosceva nessuna Ambra Rossetti. Non che lui ricordasse.

“Allora, Cate, cosa vuoi?”

Lei arrossì violentemente come il mulatto pronunciò il suo nome.

“Hu... beh, la cioccolata di Quinoa!”

“Bianca o nera?”

La ragazza si fermò un istante a pensare.

“Bianca”

Neve indicò lo scaffale dove era riposta, rimanendo più o meno apatico. Guardandola muoversi, si domandava quale forza la spingeva. Era forse la stessa forza che avrebbe dovuto avere lui? Scacciò i pensieri. Doveva lasciar perdere. Doveva lasciar perdere. Era uno scemo, e fine.



Due giorni dopo, mentre camminava avvolto dalla più totale apatia, noncuranza, disinteresse per ciò che lo circondava, qualcosa gli afferrò il braccio. La stretta era talmente forte da fargli sentire con precisione dove si trovavano le dita dell'altro attraverso il cappotto pesante. Neve si voltò di scatto, sorpreso, con l'adrenalina che gli saliva in corpo per il gesto inaspettato.

Poi, davanti a lui, si materializzò qualcosa di particolarmente alto.

Il mulatto rimase con la bocca schiusa.

Dietro ad una nuvoletta di condensa, un uomo lo fissava: aggrappato con la mancina al suo braccio. Gli occhi neri. No, di più. Due pozzi profondi di cui non riesci a vedere il fondo. La quale unica luce che emettono è il riflesso del sole, basso, che bianchissimo si fa notare sullo sfondo lucido e scuro, come il petrolio, come gli abissi del nulla: e non distingui la pupilla. Affilati, eppure grandi.

Quello sorrideva, felice di averlo catturato.

“Ehilà, Neve.”

I capelli cortissimi e brizzolati, nascosti da un berretto nero. Ma soprattutto quella voce: lenta e cadenzata, che il giovane non riusciva, no, in nessun modo, a non definire suadente.

“Salve, prof.”

Tentò di sorridere, mentre si faceva venire il fiatone a sua volta. L'altro manteneva la presa, mentre lui lo pregava con ogni sua fibra di lasciarlo, di non toccarlo, di non pensare nemmeno di sfiorarlo: e andava in crisi.

Finalmente l'uomo lo lasciò, appurato che il ragazzo era fermo e non scappava. Lascio la mano ricadere lungo il fianco. Lo osservava da due metri abbondanti, e, sebbene Neve fosse alto, a tratti si chinava per poter parlare faccia a faccia con lui.

“Allora, come va?”

Il mulatto sgranò gli occhi, sorpreso dalla domanda che non si sarebbe mai aspettato. Portò la mano in corrispondenza della presa dell'altro, a sorreggersi il braccio, perplesso: volto seminascosto nella sciarpa beige.

“Bene.”

Il professore allargò il sorriso. Quanti anni avrà avuto? Al massimo quaranta, pensava lui. Il volto sembrava quello di un Huskie, anche se non capiva bene come poteva giungere ad un paragone del genere.

“Ti ho rincorso dall'inizio della via, sai?”

Ecco perchè aveva il fiatone. Poi continuò, con il medesimo tono, lieve e musicale.

“Dì, come va la scuola?”

Neve non capiva. Incassò il capo in puro atto di rifiuto. Era ovvio. Vida si preoccupava sempre di tutto e tutti. Per questo lui lo guardava sempre. Perchè lo guardava a sua volta. Anche se, probabilmente, non nello stesso modo.

Stava male. Per metà era cosciente, per metà rifiutava. Lui? Una cosa del genere? Alessandro Neve, che metà delle ragazza scrutanvao dagli angoli dei corridoi, poteva effettivamente rimanere congelato davanti a un professore quarantenne, altissimo, che si rivolgeva a lui con calda e pacifica cortesia?

Come era finito in una situazione del genere?

“... bene.”

Vida parve deluso dalla risposta. E tornò alla carica, con innata dolcezza: che lacerava il mulatto dentro.

“Con gli altri professori?”

Neve deglutii, sentendosi in trappola, temendo di non riuscire a controllarsi. Quello stupido muscolo detto cuore pompava troppo. Le braccia gli formicolavano, ed il torpore saliva languido: la sua mente si assentava, perché voleva avvicinarsi all'uomo. E sapeva che se avesse compiuto un solo gesto proteso in avanti sarebbe stato spacciato. Non avrebbe potuto tornare indietro. Non avrebbe guadagnato niente. Non c'era niente da guadagnare, in una situazione del genere.

“.. perchè?”

Abbandonò la via evasiva, messo al muro dalle domande dell'uomo: quello tornò a sorridere apprensivo.

“Vedi, ultimamente ti vedono un po' altrove. Sai, non sarai un dio in terra, ma un novanta lo poi prendere senza nemmeno troppi sforzi, e... ci spiacerebbe se tu ti perdessi a causa di qualcosa di... come dire, di sciocco.”

“Non è sciocco.”

Merda.

“Ah.. posso aiutarti in qualche modo? Sono a tua disposizione.”

No, non credo proprio. A meno che non scompaia dalla faccia della terra, lasciandomi libero.

“Guardi... me la cavo da solo, stia tranquillo.”

Sì, come no. Diamo le colpe agli altri. Era solamente colpa sua, e lui lo sapeva. Lo sapeva talmente bene da incollarsi agli occhi di quello come se fossero la sua unica fonte d'energia. Vida indietreggiò un po' col busto, ma Neve non capì se era per l'occhiata ambigua o per il rifiuto di aiuto.

“... hai problemi a casa?”

“No.”

Il professore venne investito dal no rapido del ragazzo. Il mulatto stava ergendo un muro fra i due. Un muro che il giovane, per primo, avrebbe voluto infrangere.

“Con le ragazze?”

“No.”

E ci aggiunse una trincea, già che c'era.

“... ho capito.”

Ha capito cosa? Niente, non ha capito. Neve espirò rumorosamente, esausto dal trattenersi, voltando il capo, lo sguardo alla cartaccia che affiancava il suo piede.

“Sul serio...” mise su un bel sorriso palesemente falso, ritornando sull'interlocutore “non ci sono problemi, vedrà che uscirò con ben più di novanta”

“.. va bene.”

Fu così che il professore rinunciò. Confidando nell'alunno, lo salutò, per poi voltagli le spalle e andarsene lungo il marciapiede affollato. Neve lo guardò andarsene, arresosi a sua volta, il fiato che si manteneva grosso, nel petto il vuoto, l'insoddisfazione, e la consapevolezza di star prendendo una strada che non porterà da nessuna parte, se non alla sofferenza.

Fissava la sagoma affusolata allontanarsi sempre più, e perdersi nei passanti: per quanto svettasse sempre e comunque.



Ma il calore che provava ogni volta che vedeva Vida non ne voleva sapere di scomparire. Seguiva le sue lezioni nascosto dietro le dita della sinistra, mentre con l'altra prendeva appunti. Lo guardava mentre parlava di Saba, e si voltava scattosamente come si rendeva conto di cosa stava facendo: un attimo dopo realizzava che il nascondersi era ancora più palese. Immerso in un vortice, non sapeva più cosa fare, dove andare a parare, e veniva trascinato sempre più in fondo. Era un circolo vizioso. Non esisteva via d'uscita. Non apparente, almeno.

Di giorno in giorno si lasciava inabissare in quella situazione, perdendo ogni minuto lo spunto e la voglia di uscirne: mentre il dolore, opprimente, si accavallava a quella cosa che, ormai, era costretto a chiamare amore.



La Cate, però, rimaneva imperterrita lì, sulla soglia della porta, ad aspettarlo.

“Ale, te lo sai?”

“Cosa?”

Si era voltato verso la compagna, mentre Caterina si allontanava. Quella che le aveva posto la domanda le rivolgeva due occhi verdi che parevano due fuochi d'artificio, mezzi persi nelle fantasticherie di una ragazza ancora mezza ragazzina nella testa.

“Vida.”

Tuffo. Ma no, dai.

“Cosa?”

“Che non c'era, l'altra volta.”

Quella continuava ad avere l'aria di chi fantasticheggia anche troppo. Avrebbe voluto afferrarla per il bavero, donna o meno che fosse, per domandarle a denti serrati cosa diamine avesse da dire su Vida, senza mettersi a fare stupidi giri di parole. Si trattenne, mediante qualche forza divina.

“Eh.”

Ansioso, aspettava che continuasse. Ma la vista ebbe la meglio sull'udito, ed i suoi occhi percepirono prima delle orecchie quanto quella, sognante, stava per dirgli. Una donna di bell'aspetto camminava veloce per il corridoio su cui si affacciava l'aula. I tacchetti a spillo sbattevano sul marmo con rumore sordo. Una pelliccia in mano, serrata nella mancina, il cui anulare era cinto da metallo argenteo. Fu di fronte a Vida, il quale le sorrise. Con un espressione mai vista prima. E lei gli cinse il collo, accostando le sue labbra scarlatte a quelle sottili dell'uomo.


Cosa pensavi, d'altro canto?

Che fosse facile?

Che se già essere normali era una fatica, essere diversi era più semplice.


“Vado al cesso.”


E perchè ti mantieni così freddo?

Perchè insisti nel dire che non è vero, che non è assolutamente vero che stai peggio di sempre?


I passi di Neve erano lenti, e cercavano disperatamente di apparire rilassati.


Nasconditi, sì, come tutti gli altri. Non esserne orgoglioso come quelli che sfilano nudi.

Cancella.

Lascia perdere il fatto che ora stai male. Stai malissimo, soffri, stai morendo: una volta, due volte, tre volte.

Che importa? Non c'è orgoglio nell'essere diversi, non c'è mai orgoglio, per te.


La schiena si appoggiò al muro ruvido, accompagnata dalle mani, che a palmi aperti sfioravano la vernice. Rimase così, il peso che scendeva, lasciandosi scivolare lentamente a terra.


Si uno scemo.

Insisti nel negare? Stai solo peggio, lo sai.

Merda!

Perchè devi stare così male?

Perchè non puoi sopportarlo.

Lo sapevi, che non avrebbe mai e poi mai avuto un lieto fine. Era sbagliato fin dal principio, ma tu insistevi.

Ti illudevi.

Ti illudevi oltre il possibile immaginabile.

Crogiolandoti, ora nella beatitudine, ora nella preoccupazione.

E dall'altra parte ti bloccavi, da solo.

Ti immobilizzavi, inchiodato alle tue stupide idee conformiste e normali.

Senza via d'uscita, ne dall'una, ne' dall'altra parte.

Coglione.

La normalità non esiste.

E fa così male capirlo?


Le mani andarono nei capelli neri, ormai seduto in terra. Lente le lacrime gli impedivano la vista. Lo sguardo vacuo, a terra, ad osservare le scarpe nere. Avvolto dalla disperazione, la mente imprigionata, in gabbia. A nuotare in un mare tiepido che fagocita lento ogni senso, ogni pensiero, per abbandonare tutto all'agonia.


Ti autocommiseri. Non ottenendo niente.

Ti eri innamorato. Innamorato con l'ingenuità di una troedicenne affascinata dall'adulto, tu, che quelle ragazzine le guardavi con disprezzo, sei caduto nella stessa fossa.

Sei solo, non c'è nessuno.

E vorresti che lui fosse con te.

A chiederti di nuovo come va.

Per potergli rispondere che va di merda, ed è tutta colpa sua.

E che lo ami.

Lo ami e non sai nemmeno chi sia.

Sei un idiota, odi te' stesso e tua stupida natura.


Cate passava di lì per caso. Tornava dal bar, e, di colpo, ecco: una sagoma nascosta in un angolo, seduta a terra, spalle al muto, braccia intorno alle ginocchia. Spinta solo dalla curiosità si avvicinò perplessa.

La carnagione era scura. Possibile..?

“Ale?”

Neve levò gli occhi lucidi, le gote solcate dalle lacrime. Davanti a lei la figura sinuosa, curve tipiche del sesso opposto. Per un isto fu rassicurato.

“Ciao, Cate..”

La voce gli tremava. Doveva avere un'espressione orribile, pensava. Ma forse, la Cate..


La Cate che ti ha sempre cercato.

La bellissima che ti ha sempre voluto.

Forse, lei tu può aiutare.

E così lasci perdere questa stupida parentesi, questo stupido sentimento che è nato nel nulla. Lo provi a cacciare, lo relcudi nel profondo, tentando di realizzare nuovamente che di fronte a te c'è un fiore stupendo...


“Cos'hai?”

Era preoccupata. Timorosa.

“Piangi?”

Gli occhi celesti larghi, l'espressione che non sapeva se essere apprensiva o sconvolta. Lui la guardava col volto di un bambino solo, abbandonato dal mondo: quale era.

Lei si accovacciò.

“Vuoi.. parlarne?”


E fidati della normalità.

Dimenticando Il fuoco che ardeva per quel quarantenne, liberati dello sbagliato.


“Io... Cate, io...”

Parole rubate ai singhiozzi, incapace di reprimere il dolore.

“Solo che... solo che..”


Ma lei ti anticipa. Inizia a pensare, a pensare, a realizzare quale possa essere la verità.


E Cate capì.

Si levò in piedi come per allontanarlo. L'espressione che di colpo divene gelida, squadrava il ragazzo allibita. Ecco perchè non la guardava. Ecco perchè era perso. Ecco perchè rimaneva impalato. Alcuni gliel'avevano detto, che forse.. ma Alessando Neve era quanto di più mascolino circolasse in quell'edificio, perchè creder loro?

E invece.

“Oddìo... allora sei veramente gay!”


Così precipiti.

Ritorni alla realtà, perdendo l'appiglio che avevi.

Ammettilo. E ammettilo.

Mentre lei si si allontana sconvolta, e si dimentica di te, perchè non ha alcun interesse.

E tu capisci, lentamente, che non ce l'avresti mai fatta nemmeno con lei. Che con Margherita era la stessa storia, che eri freddo. e tutto ciò che avevi da dare era per lui, da mesi, ormai, solo per lui: che ti scrutava dall'alto, che ogni tanto ti prestava un po' di attenzione, come essere umano, ma nulla più.

Fatica sprecata.

Ed ora è solo un vuoto enorme che di corrode e si espande.

E tu non puoi decidere. Non esiste decisione.

O accetti, o non accetti.

Sai che esisteva. Sai che in quegli istanti esisteva solo lui. Ti nascondevi.

Ti nasconderai, perchè sembri forte, e sei fragile.


“Ragazzi, ma dov'è Neve?”

“Era andato in bagno, Prof.”


E piangi come non avevi mai fatto, annegando in quel mare che ti ha fagocitato e ormai non ti molla più.

Ci conviverai.

Lo amerai. Lo capirai. Lo comprenderai.

Lo farai tuo.


Vida si alzò, mordendosi un labbro.

Lui era bravo ad intuire la natura delle persone, ma questa volta era veramente in dubbio. Sapeva benissimo che se era veramente come pensava, il mulatto avrebbe sofferto.

“Prof!”

“Sì?”

“Complimenti per la sposa, eh?”

L'insegnante guardò il ragazzo che aveva parlato, tornando a sedere. No, non poteva fare niente. Avrebbe lasciato Neve da solo, questa volta. Solo, in un angolo, a piangere sulle proprie ginocchia. Non poteva fare niente, come professore. come uomo sposato, come essere umano. Non nella posizione in cui si trovava. Gli avrebbe solo fatto più male di quanto male non lo riempisse già.


E' la tua essenza, Ale.

Ti ha dato così tanto.

Eri felice.

Sai che continuerà, con un altro, e poi con un altro ancora.

Non puoi farci niente, se non amarlo, come tutti e tutte quelli come te.


E lui, la fonte di tutto, che aveva sempre guardato con il cuore in mano, lo abbandonava per la sua strada, tornando a parlare di Saba alla classe vagamente interessata.

Perchè doveva.

Perchè era una strada diversa, difficile, e probabilmente la più umana di tutte.





   
 
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