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Autore: Elfa    02/01/2008    5 recensioni
Sentiva l’odore del sangue e del fumo espandersi nell’aria come un profumo. Chiuse gli occhi, assaporando per un lungo istante il profumo della morte e della disperazione farsi strada in lui, insieme all’ebbrezza della battaglia e della conquista e alla sensazione di essere davvero invulnerabile. Accarezzò l’elsa della grande spada appesa al suo fianco, priva di fodero e ancora macchiata di sangue. ***** Per la verità, sono pessima nei riassunti. Questa è una fiction What if... cioè, cosa sarebbe successo se Frodo non fosse mai riuscito a distruggere l'anello e l'oscuro signore avesse trionfato? Questa è la mia versione dei fatti. Che ovviamente, ha per protagonista il nostro elfo dai capelli biondi...
Genere: Romantico, Dark, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Elladan, Legolas, Nuovo personaggio, Sauron
Note: OOC, Lemon, What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Nel capitolo precedente ho dimenticato le note, quindi ve le metto di seguito:

°bacche: vengono usate come contraccettivo. Lo so, non è molto originale, però è una soluzione credibile e non troppo complicata. Ho pensato fosse la migliore per i fini della storia.

°°Roh: l’abbreviazione di Elrohir.

***

°Orodruin: Monte Fato

°°yen: gli anni elfici. Uno yen corrisponde a 144 anni.

Cap. 4: Years go by

La fissò con freddezza, mentre scalciava e si dimenava furiosamente, cercando di mordere qualsiasi cosa le capitasse abbastanza vicino. L’aveva costretto ad una caccia durata alcuni giorni ed ora ci volevano due orchi a tenerla ferma.

Ancora una volta, si sorprese a guardarla con una certa ammirazione: eccola lì, in mezzo ad un sotterraneo gelido, con i polsi e le caviglie trattenuti da catene pesanti e il volto tumefatto, che ancora combatteva e sparava minacce. Non lo faceva per stupidità o spavalderia. Aveva semplicemente in corpo una rabbia e una sete di sangue, il suo, che non gli era capitato spesso di trovare in una donna. Per non parlare della sua abilità come spadaccina, che non le aveva impedito di continuare a coltivare in quegli anni.

Uno degli orchi afferrò Sulaurie per i capelli, tirandole indietro la testa, mentre un terzo le si avvicinava con un lungo ferro, usato per incidere l’Occhio sulla pelle degli schiavi. Sospirò: aveva sperato che con il tempo lei avrebbe capito e sarebbe passata dalla sua parte… Le aveva anche permesso di tenere il bambino, Anarion, perché si convincesse… eppure non c’era stato nulla da fare. Lei era rimasta caparbiamente avvinghiata alla sua sciocca fedeltà!

Sentì l’odore della carne bruciata, mentre il ferro marchiava la sua pelle e lei urlava in modo lacerante. Non ne fu soddisfatto quanto avrebbe voluto: era un peccato rovinare così la sua pelle bianca e, anche così, lei non gli sarebbe ancora appartenuta davvero. Quello era solo un modo per farle capire che anche con i privilegi di cui godeva, con le sue libertà, lei restava una schiava. In ogni caso.

Fece un cenno e gli orchi la lasciarono andare, boccheggiante sul pavimento di pietra nuda. Li congedò bruscamente e rimase immobile di fronte a lei, tremante per terra. Alzò lo sguardo, piantando gli occhi nei suoi con una rabbia cocente. Sulaurie si alzò, portandosi una mano al collo, nascondendo il segno. Boccheggiava, come se le mancasse l’aria.

“Dov’è?” sillabò, non appena in piedi, un po’ curva in avanti, come alla ricerca di un appiglio che non trovava. Ripeté la domanda con una nota di disperazione nella voce, il tono più alto. “dov’è Anie?” quasi urlò, sostenendo il suo sguardo. Lui sbuffò: neanche riusciva a stare in piedi, l’aveva lasciata in vita per puro miracolo, l’avevano picchiata e marchiata e l’unica cosa a cui pensava era la sorte di quella piccola peste!

L’afferrò con malagrazia per un braccio e la trascinò via. “Dove…” “Zitta!” Sibilò, innervosito, lasciandosi alle spalle le segrete. Lei lo seguì, insolitamente docile, fino agli appartamenti. La spinse dentro senza che protestasse, incespicando sulla soglia, mentre entrava. Si diresse subito nella stanza del bambino, come se sperasse di trovare il marmocchio lì. Era sempre curva, come se non riuscisse a stare bene in piedi.

Sbuffò, sentendola muoversi nella stanza accanto, fece per andarsene e lasciarla sola, quando lei si affacciò alla porta e lo richiamò, la voce incrinata.

“Non c’è!” mormorò flebilmente, appoggiata allo stipite.”Certo che non c’è!” sbuffò lui, guardandola con sprezzo. Gli occhi di lei si allargarono, attoniti, smarriti. Si concesse un ghigno. “Pensavi di cavartela così? Il moccioso lo tengo io, per un po’. Vediamo se il tuo atteggiamento migliora.”.

La sentì ammutolire e chiuse la porta.

Stupida.

Era quella una delle sue più grandi debolezze.

L’amore. La fedeltà a qualcosa che non ti aveva mai dato nulla in cambio.

Ricordava fin troppo bene il modo in cui era stata ricambiata la Sua fedeltà. Non era un errore che avrebbe ripetuto.

*

Se mai aveva creduto che tenere il marmocchio fuori dei piedi sarebbe servito ad ammorbidirla un po’, dovette presto ammettere di essersi sbagliato di grosso. Sulaurie, dalle minacce e i tentativi di ucciderlo (peraltro abbastanza usuali), era passata per un breve periodo alle suppliche e poi, con suo disappunto, a una protesta ben più subdola: mutismo totale e sciopero della fame e della sete.

Per l’ennesima volta, non seppe se trovare il suo comportamento divertente o irritante. Di sicuro era un po’ stupido: lui avrebbe potuto tranquillamente lasciarla morire, dunque non le sarebbe entrato in tasca nulla!

Restava il fatto che quell’elfa aveva la testa più dura del granito e cercare di farla ragionare era un’impresa pressoché impossibile. Tra l’altro, lui cominciava ad essere stufo di quel tira e molla… anche se una cosa buona l’aveva portata, anche se era rischioso. Se davvero era pronta a fare cose del genere per suo figlio, forse poteva volgere quella situazione a suo vantaggio.

Quando arrivò, il bambino era rannicchiato in un angolo, gli occhi chiusi come se dormisse. Era piuttosto sporco e pallido, l’aria stravolta e spaventata ma, tutto sommato, non stava neanche male come aveva sperato.

Lo afferrò per la collottola, scrollandolo per svegliarlo e spingendolo fuori della cella. La peste cominciò a tremare come un pulcino non appena lo riconobbe, ma perlomeno fu abbastanza sveglio da impedirsi di frignare. Non ebbe neanche bisogno di spingerlo o strattonarlo, dato che lo seguì senza fare storie, pur tenendosi fuori portata da eventuali sberle.

Una volta sulle sale che portavano agli appartamenti, il ragazzino schizzò davanti a lui, salendo le scale di corsa, piegato in avanti, quasi correndo a quattro zampe come un animaletto. Lui si fermò a metà strada. In fondo, non c’era il bisogno di andargli appresso, conosceva bene la strada e, quanto a sua madre, dubitava fortemente che lo sarebbe rimasto ad ascoltare subito dopo aver trovato il suo adorato frugoletto! Con ogni probabilità, sarebbe rimasta delle ore a coccolarlo con quell’espressione stomachevole da mammina felice impressa sul volto.

*

Sobbalzò quando sentì la porta nella stanza accanto aprirsi di colpo e poi una serie di passetti affrettati. Non il passo lungo e misurato di Sauron, quello era…

“Anie!” scattò giù dal letto giusto in tempo per prendere tra le braccia il bambino, che correva verso di lei quasi alla cieca. Ricaddero entrambi indietro sul letto. Lo scostò appena da sé, guardandolo, attenta.

Sembrava un po’ dimagrito, ma neanche troppo, più che altro era sporco e aveva l’aria di aver visto il diavolo in persona, cosa di cui lei non dubitava affatto. Gli carezzò una guancia, sorridendo. Tremava ancora e si nascose nel suo abbraccio. “Stai bene?” chiese piano. Fu quasi spaventata nel sentire la propria voce: era allo stesso tempo roca e sottile e quando aprì bocca le si screpolarono le labbra e le si aprirono piccoli tagli profondi. Anie annuì vigorosamente, forse più per rassicurarla che per altro, ma si sentì comunque sollevata. Si tirò a sedere, sempre carezzandogli il viso. “Hai fame?” sorrise appena. “Adesso ti faccio portare qualcosa da mangiare. Ma prima andiamo a fare un bagno, che tu ne hai davvero bisogno…”

*

Beren e Luthien. Gli raccontava sempre quella storia per farlo addormentare ed era la preferita di entrambi. Non che ad Anie piacessero le storie d’amore, ma come diceva lui “è l’unica che finisce bene”. Quell’osservazione faceva spesso stringere il cuore a Sulaurie per due motivi. Il primo, era che si rendeva conto che entrambi stavano perdendo poco a poco la loro cultura e le loro radici, lei non si era mai interessata molto alle storie antiche e alle leggende, ma ora ne sentiva la mancanza. Chissà quante altre storie Anie avrebbe potuto sentire se fosse cresciuto a Bosco Atro… storie che sicuramente trasmettevano più speranza di quelle che Sauron permetteva che si raccontassero all’interno di quelle mura… Il secondo motivo, era che a volte pensava che fosse vero. Quante guerre erano state combattute contro Sauron o Morgoth? E quante di queste erano state vinte?

Anie si appoggiò contro il suo seno, riscuotendola da quei pensieri tetri. “La prossima volta che andiamo da papà dobbiamo dirgli che stiamo arrivando… così ci viene a prendere a metà strada e Sauron non può più raggiungerci.” lei sobbalzò appena. “Sicuro di volerci riprovare Anie?” lui annuì con vigore, deciso e lei sorrise appena, pur con un velo di tristezza. Gli carezzò i capelli, riccioli biondi che incorniciavano un visetto paffuto e roseo, nascondendo le orecchie a punta. “Io assomiglio a papà?” le chiese, d’un tratto, alzando gli occhi verd’azzurri su di lei. Sua madre non sorrideva. Anzi, sembrava che i suoi occhi fossero coperti da un velo di tristezza, però sorrise. “Avete gli stessi occhi.” mormorò. Prese la mano del bambino mentre questi si toccava, forse inconsciamente i capelli. “No, anche quelli di tuo padre sono lisci. Però il nonno non lo conosco. Forse lui sì.” Gli baciò la fronte e gli rimboccò le coperte. “Oppure diventeranno lisci quando sarai più grande… e adesso a letto.” Gli diede la buonanotte e spense la candela con un soffio.

Rientrò nella sua stanza e andò alla finestra: Fuori il cielo era incredibilmente sereno. Almeno per quella notte, l’°Orodruin aveva smesso di sputare nell’aria i suoi fumi mefitici e una pallida luna piena illuminava a tratti quella terra brulla e squassata, brillando fiocamente sull’Anduin, molto più avanti, e dalla cittadella in rovina di Osghiliat si intravedevano vagamente le luci vermiglie dei fuochi degli orchi. Ancora oltre, soffocata nel buio, si ergevano le rovine della città di Minas Tirith. In realtà, la città era quasi intatta, anche se vuota e triste. Persino la torre di Echtelion era rimasta al suo posto, ultimo patetico baluardo della potenza antica degli uomini dell’ovest.

Le fece uno strano effetto pensare che Legolas, più di quattrocento anni prima, stesse seduto su quelle mura e guardasse nella sua direzione. Due sguardi che s’incrociavano a tre °°yen di distanza.

Sulaurie tacque ancora, riflettendo, lo sguardo perso nell’orizzonte oscuro della notte.

Quattrocentotrentacinque anni, tanto tempo era passato dalla presa di Lorien e dalla fine di molte cose. Per quel tempo aveva cresciuto un bambino che non aveva mai visto suo padre e il cui padre probabilmente non sospettava minimamente l’esistenza.

Sulaurie aveva provato, sorridendo al pensiero, ad immaginare la reazione di Las una volta che, arrivati a Bosco Atro, avesse saputo d’essere padre. Sicuramente le avrebbe fatto tantissime domande, poi avrebbe preso Anie in braccio, baciandogli le guance e ridendo, dicendole che le somigliava moltissimo, anche se era una bugia, e allora lei avrebbe sorriso e avrebbe detto che aveva preso un po’ da entrambi… si asciugò con rabbia le lacrime. Nulla di tutto ciò sarebbe accaduto e piangerci sopra non avrebbe certo cambiato la situazione!

Volse il capo, attratta da una luce rossa baluginante da una delle torri a nord, una di quelle zone dove solo Sauron e pochi altri avevano il permesso di entrare. Per un momento si chiese quale altra nuova diavoleria stesse architettando, poi, d’un lampo, un’intuizione e una speranza le attraversarono la mente: i palantir! Ormai dovevano essere tutti sotto il suo controllo, quindi non c’era modo di comunicare con qualcun altro in quel modo, ma almeno…almeno poteva vedere Legolas! Essere sicura che stava bene… Era certa che fosse ancora vivo, ma una conferma l’avrebbe senz’altro aiutata.

Fissò la luce con una nuova decisione mentre un sorriso le increspava le labbra. Era un sorriso strano, un misto di decisione, folle divertimento e combattività. Un sorriso che da troppo tempo non le appariva sul volto.

*

Che era la concubina di Sauron ormai lo sapevano anche i sassi, perciò tanto valeva far valere la situazione.

Non aveva mai portato quell’abito e comunque a indossarlo si vergognò come una ladra… ma dovette ammettere che l’effetto non era male. Era blu, di una stoffa tremendamente leggera, quasi trasparente, tanto che occorreva ben poca fantasia per distinguere le forme del suo corpo in controluce. Era chiuso sotto il seno da una fascia d’oro e i due larghi nastri che le coprivano il seno erano persino più trasparenti di tutto il resto.

Non le era mai importato molto del suo aspetto, dei vestiti o di essere bella… però, incrociando la sua immagine allo specchio si scoprì a pensare che, nonostante lo sfregio sul collo, lo era eccome. Chissà se anche a Las piacerei così… si scoprì a chiedersi, arrossendo subito dopo per quel pensiero infantile. Non era proprio il caso di farsi domande da adolescente alle prese col primo amore! Se si era abbassata a vestirsi come una prostituta d’alto borgo, l’aveva fatto per un motivo più che serio. Si coprì col mantello mentre usciva, meglio non attirare troppi sguardi cupidi prima del tempo.

Non era mai stata in quell’ala del palazzo di Barad Dur, ma non fu troppo difficile trovare ciò che stava cercando, bastava cercare le deviazioni meno frequentare e dirigersi sempre a nord. Il difficile sarebbe stato tornare indietro senza perdersi in quell’intrico di corridoi e sale.

Capì di aver trovato quello che cercava quando imboccò un corridoio che terminava bruscamente contro una pesante porta di un materiale nero e indefinito, decorata con intarsi astratti d’oro. Giusto corrispondente al gusto cupo dell’Oscuro Signore.

Ai lati della porta c’erano due guardie armate di alabarda. Erano vestite di nero e rosso e la loro divisa sembrava uno strano incrocio, contrastante ma non proprio sgradevole, tra gli abiti degli Haradhrim e l’armatura delle Guardie della Cittadella.

Si avvicinò alla porta come se quei due non avessero motivo di fermarla, scostando appena il mantello, come casualmente, facendo notare l’abito. Spinse la porta e fece per entrare, quando avvertì il tocco gelido dell’alabarda sul collo. Sbuffò e si volse a guardare il soldato che l’aveva fermata, un’espressione vagamente scocciata sul volto.

“Che credi di fare?” domandò quello, con un tono di voce gelido e indolente, quasi annoiato. “Andare da Sauron.” rispose lei, con semplicità disarmante. “Mi ha detto lui di venire qui.” I due si scambiarono uno sguardo, quasi a interrogarsi a vicenda. “Non abbiamo ricevuto nessun ordine in proposito…” replicò la guardia, una nota d’incertezza nella voce. Lei sbuffò, mascherando il nervosismo. Si giocava tutto in quel momento. Doveva mostrarsi sicura, se fossero veramente andati a chiamarlo, sarebbe stata perduta. “Se credi, puoi mandare qualcuno a chiederlo direttamente a lui, anche se non credo che gradirà molto. Quanto a me, non ho fretta. Posso aspettare qui fuori anche tutto il pomeriggio.” Le guardie sembrarono nervose, si scambiarono un’occhiata e la osservarono per un po’ di sottecchi, come studiandola. Effettivamente, quella di mettere in discussione gli ordini di Sauron non sembrava un’idea troppo buona, tra l’altra tutti sapevano che tendeva a diventare… diciamo un po’ nervoso, quando si trattava di quel genere di cose, e qui lanciarono un’altra occhiata penetrante alla donna, soprattutto quando c’era di mezzo quella in particolare.

Le aprirono la porta senza altri commenti e lei la superò con tutta calma. Un misto di terrore ed esultanza le squassò brevemente il petto quando udì la porta chiudersi alle sue spalle.

*

La torre aveva una base abbastanza ampia da poter ospitare tranquillamente anche tre o quattro locali per ogni piano e le scale erano sempre ben mimetizzate. Praticamente perse più tempo e cercare quelle che non il palantir.

Attraversò biblioteche, studioli, laboratori dove cercò di fermarsi il meno possibile, o semplici stanze con un caminetto sempre acceso. C’era sempre qualcosa di cupo, caldo e pulsante in quelle stanze, come se qualcosa di latente e malvagio fosse all’opera. Un po’ come camminare sul dorso di un drago addormentato.

Girovagò per un po’ per le stanze ingombre di libri inquietanti e strani marchingegni il cui meccanismo le sfuggiva, ma il cui aspetto non lasciava presagire nulla di buono. In ogni caso, il palantir non era in una di quelle sale. A quel che pareva, Sauron era più prudente di quel che lei si aspettasse, non aveva lasciato l’oggetto in bella vista, anche se, teoricamente, nessuno tranne lui avrebbe potuto accedere a quell’ala… probabilmente avrebbe dovuto salire ancora, la luce era quasi alla sommità della torre… peccato che si fosse arenata. Non c’erano altre scale che conducessero ai piani superiori. O almeno, lei non riusciva a trovarle.

Si sedette su una poltrona foderata di pelle nera, liscia al tatto e dall’ampio schienale decorato, restando a fissare, senza in realtà vederla, la libreria davanti a sé, cercando di riflettere.

Non poteva essere ai piani inferiori, li aveva già rivoltata da cima a fondo per cercare il palantir, quindi dovevano essere lì, da qualche parte, ben nascoste. Segno che portavano a un luogo estremamente importante per l’oscuro signore. Lo sguardo le cadde fuori dalla finestra: cominciava a imbrunire, presto lui sarebbe rientrato dai suoi allenamenti e per lei sarebbe stato meglio trovarsi il più lontano possibile da quel posto.

Si alzò e cominciò a tastare attentamente la parete, senza sapere nemmeno lei cos cercare, forse un meccanismo nascosto, una parete mobile o che semplicemente suonasse vuota, ma il muro era compatto e uniforme, neanche una scalmanatura o un segno che potesse indicare un passaggio. Stava cercando nel posto sbagliato. Tastò tutti i mobili e le altre pareti, spostò i quadri e fece scorrere le mani su volumi ammuffiti di quella specie di antro, ma non sembrava esserci nulla di strano. Sospirò, stanca, osservando la libreria come se questa la stesse sfidando, reprimendo a fatica lo sciocco impulso di tirarle un calcio. Crollò di nuovo sulla poltrona, fissando davanti a sé. E a quel punto, finalmente, qualcosa nella sua testa scattò come una molla. Si alzò in piedi, avvicinandosi agli scaffali. La caduta di Gil-Galad… Com’è che un libro del genere era finito tra i libri prediletti di Sauron, visto che parlava di una delle sue più grandi sconfitte? E poi sembrava molto meno impolverato, come se fosse stato spostato più volte. Si concesse un sorriso, alzandosi e tirando il libro verso di sé. Quello tornò immediatamente al suo posto, come se nessuno lo avesse toccato. Sentì il rumore di una serratura che scatta e spinse la libreria da un lato, scivolando da una parte, rivelando una stretta scala a chiocciola, ripida e stretta, che si perdeva nel buio.

La giovane entrò nello stretto pertugio, chiudendo la porta dietro di sé e trovandosi nell’oscurità più assoluta. Respirò profondamente, cercando di calmare il proprio cuore impazzito, e salì lentamente la scala a chiocciola, incespicando nel buio, fino a intravedere un rettangolo di luce rossastra sopra di sé.

Era una stanza circolare, con due grandi finestre aperte sui lati, ad ovest ed est, circolari e chiuse con tondi di vetro, un caminetto acceso e un mobilio di legno scuro e massiccio. Per un momento, Sulaurie sentì una sensazione di gelo percorrere la schiena e un vuoto allo stomaco: era Una camera da letto. La sua, camera da letto. Durò un attimo, perché, poco discosto dal letto, c’era anche un piedistallo nero, sul quale si trovava qualcosa di sferico, la cui forma si intravedeva sotto ad un drappo rosso. Corse a scoprirlo, dimentica di tutto il resto, compreso di dove si trovava e delle ombre rossastre che il sole lanciava attraverso la finestra ad ovest, mentre tramontava basso, lanciando finalmente la sua luce sotto le nubi di Mordor.

  
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