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Autore: lulubellula    18/06/2013    3 recensioni
Storia scritta a quattro mani con 2calzona3
"A volte si desidera qualcosa a tal punto da fingere che sia vero anche con se stessi, e all'interno della propria realtà si finisce per renderlo vero. Ma ciò non significa che sia reale. Il vero e il reale sono due cose diverse".
Dall'ultimo capitolo (Giallo/Lexie): "Eri semplicemente euforica e sentivi una scossa di adrenalina pervadere il tuo corpo e correre sino al cervello.
Rubare era per te persino più soddisfacente di una tavoletta di cioccolato.
E ti rendeva felice almeno il doppio.
Finchè il senso di colpa non si sarebbe ripresentato di nuovo".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Arizona Robbins, Callie Torres, Cristina Yang, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione, Contesto generale/vago
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Welcome to my mind

 

NdA: Le parti scritte in corsivo sono di 2calzona3, quelle in stampatello di lulubellula

 
Da piccoli siamo fragili, vulnerabili, esposti ad ogni tipo di pericolo, intemperie, fobia.
Nasciamo senza protezioni, piccoli, nudi, senza peli né piume, artigli, scaglie, scorze che ci proteggano dal mondo esterno.
Nasciamo con un sistema nervoso che ci permette di colmare queste mancanze, queste debolezze di partenza, non abbiamo bisogno di nient’altro, se non della nostra materia grigia.
Eppure non smettiamo mai di sentirci insignificanti, soli, prede, per quanto il progresso ci guidi lungo il percorso evolutivo, noi continuiamo a sentirci dei cuccioli senza armi di difesa, pronti ad essere attaccati dal predatore di turno.
E’ questo che ci differenzia dagli altri esseri, non solo un sistema nervoso che funziona alla perfezione, ma la consapevolezza di essere rimasti piccoli e senza mezzi, sapere che il predatore di turno potrebbe venire da un momento all’altro e sbranarci.
E per quanto cerchiamo di fingere il contrario, questa consapevolezza ci rimane impigliata addosso come il nostro peggior nemico, il nostro migliore amico.
La paura, quell’emozione primaria che non risparmia uomini e bestie, ci attanaglia il respiro, frena le nostre azioni, anticipa le nostre emozioni e ci fa suoi prigionieri, come uomini delle caverne accerchiati da una tigre dai denti a sciabola.
Soli. Indifesi. Spacciati. Senza speranza di sopravvivere.
 
 
 
 
 
Dicono che aiuti a non morire.
Dicono che se perdi i sensi, il tuo aggressore ti considererà un preda inutile. Perché penserà che in te qualcosa sia sbagliato, o che tu non sia più un pericolo.
Dentro di me qualcosa doveva essere realmente sbagliato, ma non capivo chi fosse l'aggressore. 


Sembrava che quel paziente fosse una donna, sembrava avesse i capelli corti e rossi.
Poco importava insomma, il suo viso sarebbe stato coperto. Perché è così che facciamo, copriamo il volto dei nostri pazienti per non considerarli umani, per avere l'impressione di non aver un'anima sotto le mani. Eppure qualcosa di quell'intervento mi spaventava.
Era più o meno alta come lei.
Scossi la testa, ogni mio delirio personale doveva restar personale. Dovevo praticare un semplice intervento all'addome, presi in mano un bisturi e mi immobilizzai. Il paziente si stava muovendo, vidi la brandina muoversi e le persone in parte a me fare lo stesso, non aveva senso.
Un secondo dopo tutto era immobile, il paziente era rimasto sedato tutto il tempo e il mio bisturi era rimasto lì, a mezz'aria e tremante. La mia testa doveva smettere di girare. 
Un'incisione. Dovevo solo praticare un'incisione.


 
 
Il cuore martellava forte nel tuo petto.
Un respiro, due respiri, tre respiri.
Chiudi gli occhi, sei concentrata sul tuo battito cardiaco sino ad eliminare tutti gli altri rumori, il ronzio dei respiratori, le suole delle calzature ortopediche trascinate sul pavimento sterile, i sospiri degli specializzandi che aspettano solo un tuo ordine.
“Dottoressa Kepner”.
“Shhh! Non disturbarmi! Sto respirando!”.
Cerchi di eliminare ogni interferenza tra te e il mondo esterno, di dimenticare quanto la prima incisione sia la peggiore, di dimenticare l’odore delle carni bruciate, sezionate, ricucite, l’odore del sangue nelle tue narici.
Caldo, dolciastro, nauseabondo, rosso, vivo.
Quello che ti separa dalla tua più grande e peggiore fobia è uno strato di epidermide e la lama di un bisturi.
“Perfetto, cominciamo” ordini con la voce tremante.


 
Non sarebbe stato difficile, ma sembrava che il mio cuore si divertisse a pulsare più forte, il sangue mi scorreva nelle dita con così tanta violenza da non permettermi un lavoro pulito.
Presi la mira, come se stessi giocando a freccette. Dovevo risultare ben poco professionale.
 La punta del bisturi trapassò il primo strato di pelle e poi formò una sorta di linea incomprensibilmente storta. Ne avevo fatte mille di incisioni, dritte, pulite e perfette. Eppure mentre il mio braccio si allontanava, mentre la mia testa si piegava all'indietro, mentre i miei occhi rigiravano all'interno feci un'incisione storta.
 


Sei caduta all’indietro come una marionetta dai fili tagliati, un peso morto, una danza greve e disperata si leggeva nei tuoi bulbi oculari che roteavano verso il nulla.
I tuoi capelli rosso fuoco, rosso sangue che si  muovevano leggeri, nell’aria, a descrivere un moto perpetuo e a incorniciare il pallore del tuo viso, del tuo collo, delle tue guance.
Il pavimento così freddo e inospitale a raccoglierti, ad abbracciarti mattonelle asettiche e regolari, a sentire la tua testa crollare a terra.
Il rosso, ancora una volta, a vincere e a macchiarti come un’onta, una paura che ,di nuovo, aveva preso il sopravvento sul filo sottile delle tue sicurezze.
 
 
 
Mi svegliai convinta di tenere un bisturi. Spalancai le mani per assicurarmi di non avere tra le dita quell'arma.
Perché era un'arma nelle mie mani.
Le osservai per qualche secondo, cercando di convincerle a smettere di tremare. Non stavo operando, non c'era sangue, non c'erano tagli.
Cosa mi era successo? Un chirurgo non può reagire così, non può farsi impressionare dal sangue. Sono come un ballerino che ha paura del ritmo. Il sangue era il ritmo del mio ballo, mi sapeva dire quando muovermi, come muovermi. Il sangue è il ritmo di ogni chirurgo. 
Il mio cercapersone suonò e mi alzai con fretta, come se potessi farmi perdonare con il tempismo il mio svenimento.
Corsi fuori dal corridoio in cui mi trovavo, attraversai la postazione degli infermieri e percorsi un nuovo corridoio.
Non capivo perché tutti mi guardassero, ogni medico in quell'ospedale aveva fretta, ogni medico al mondo corre per un'emergenza. Mi toccai la faccia, convinta che qualcosa mi fosse rimasto incrostato, non volevo sapere cosa e non volevo sapere in che modo era finito sul mio viso.
Avevo il terrore di guardarmi le mani, così correvo e correvo. Avevano bisogno di me. Anche io avevo bisogno di me stessa, volevo ritrovare in me la April di un tempo, cominciai a cercarmi. Eppure percorrendo quel corridoio sbagliai a specchiarmi nel vetro delle porte.
Un'immagine fugace, illeggibile mi apparve davanti agli occhi, la mia bocca era ricoperta da una macchia scura, una crosta che si era stabilita lì, come se fosse il suo naturale posto.
Subito mi portai le mani davanti al viso. 
Stavo togliendo sangue. 
Non potevo continuare a svegliarmi per inciampare. Svegliarmi per svenire.

 


 
La verità è che più ci provi e meno ci riesci.
Non sarai un chirurgo, mai, per nulla al mondo.
Senza speranza, senza futuro, tutti i tuoi sogni e gli anni impiegati a studiare e a diventare il medico che avresti voluto essere non erano serviti a nulla.
Tutti quei sogni, quelle aspirazioni, le dita a danzare mentre ricucivi lembi di pelle, erano scivolati a terra in una pozza di sangue.
Sei inciampata in un corridoio cieco, in un vicolo buio e freddo che sapeva di morte, che saprà sempre di morte.
Perché è un odore che non si può semplicemente cancellare, che non va via con un colpo di spugna e un disinfettante a prova di macchia.
No, è una sensazione, uno stato d’animo che ti accompagna, che ti insegue sino ad acciuffarti, anche nei momenti in cui credi di essere al sicuro, in cui il pensiero del sangue è lontano.
E questo perché, piccola e fragile April, una fobia non si può semplicemente rinchiudere in un angolino della propria mente nella speranza che prima o poi scompaia.
Le paure di nutrono di angolini bui e dimenticati, crescono, vegetano, si rafforzano sino a prendere possesso delle persone e quando si fanno sentire è già troppo tardi, significa che l’infezione è già arrivata al cuore, al centro della nostra anima.
E le povere vittime non possono più nulla, se non lasciarsi trascinare a fondo da brandelli di brutti ricordi mai davvero superati.



 
“April! April? Si può sapere che ti è successo? Sanguini?”
“Ti prego Jackson non dire quella parola! Smettila” mi scosse le spalle facendomi rinvenire, non che io volessi.
“Sto bene. È solo che svengo. Io vedo il sangue e svengo! Mi sembra un po' inadeguato per un chirurgo, ma che vuoi che sia? Andrò a dar da mangiare ai miei maiali, loro non sanguinano così spesso. O no. I maiali partoriscono, credo che non potrò far altro che piantare carote per il resto della vita. Magari ogni tanto proverò a suturare un pomodoro, in ricordo dei bei vecchi tempi”
“Cosa c'è che non va? Hai tutto nella vita, di che ti lamenti?” sembrava sminuirmi.
“Sembra che il sangue sia la mia vita. Non posso pensare neanche al fatto di averlo nel corpo, non posso immaginarmi viva per colpa del sangue”
“Scherzi? Guarda me. Sto ricevendo messaggi sexy dal capo, perché confonde gli Avery della sua rubrica. E ricevo le fantastiche risposte altrettanto sexy di mia madre. Io l'ho sempre detto, la tecnologia va lasciata ai giovani” gli diedi una spallata, cosa importava a me di sua madre?!
“Jackson, quando vedi una persona mezza svenuta sul pavimento, non parlare di tua madre. È un consiglio. E adesso spostati” gli mollai un'altra pacca sulla schiena
“E smettila di specchiarti nel vetro!” me ne andai dritta negli spogliatoi pensando seriamente ai pomodori.

 


 
Lo trovavi così irritante a volte, incredibilmente sexy e irritante. Altalenavi il tuo senso di fastidio al perderti nei suoi occhi verdi, il senso di frustrazione al suo sorriso smagliante.
Dannazione! Non riuscivi ad arrabbiarti con lui, non per più di dieci secondi di fila almeno.
Aveva un modo di fare tutto suo, un portamento, un linguaggio così coinvolgente, così sicuro di sé, perennemente al centro dell’attenzione che ti infastidiva e ti attirava a lui al tempo stesso.
Nonostante il fatto che riuscisse a far passare in secondo piano la tua fobia, il tuo disagio interiore, glissando suoi messaggini hot tra sua madre e il Capo, nonostante il fatto che riuscisse a far sembrare le tue peggiori paure un problema da nulla, non eri capace di non dargli retta.
Non riuscivi a non pensarci, a non pensarlo.
E l’idea di voi due insieme a volte era stupenda, magnifica, un sogno, ma altre, ti faceva sembrare allettante la prospettiva di passare il resto dei tuoi giorni a coltivare pomodori e carote, a centinaia di miglia di distanza da lui, da sua madre, dal Capo, dal sangue.
 
 
 
 
 
“Oggi il damerino ha ricevuto visite?” chiese la specializzanda occhialuta alla sua migliore amica.
“Non mi pare. Anche se ho visto la rossa, quella che sviene per i corridoio e chiude gli occhi in sala operatoria, passare di qui”.
“Dici sul serio? Credevo che fosse già corsa a gambe levate a Tulane. E poi saremmo noi l’ultimo anello della catena della chirurgia!”.
“Già. Vuoi una barretta?”.
“Sì, volentieri. Hai saputo qualcosa riguardo a quello lì?”.
“Sembra che i medici lo conoscano. Sembra uno di loro. Eppure c’è qualcosa che mi sfugge: ma cosa?”.
“Sai una cosa? Tu pensi troppo! Probabilmente è solo un paziente qualunque. Niente di misterioso”.
“Allora perché lo chiamano “Paziente X”?”.
 
 
 
Stanza 2332

Non so cosa facessi in quella stanza.
Non so cosa ci stessi facendo io come non avevo idea di cosa ci facessi tu. Era l'ora di smetterla.
Perché io, un chirurgo, avendo davanti la possibilità di dare la vita mi bloccavo? Mentre in quel momento, avendo davanti un uomo più morto che vivo restavo calma? Le stesse identiche quantità di sangue ti scorrevano dentro,io ero la stessa identica persona. Speravo di potermi fidare delle tue vene in quel momento.
Le osservavo pulsare lente, nulla ne sarebbe uscito, nulla mi avrebbe sporcato. Ero quasi contenta che tu non potessi sanguinare e che restassi praticamente morto,inerte, fermo...continua così.
Non svegliarti.
Magari nella tua testa stai vivendo una vita migliore di questa, magari lì i medici non impazziscono e nessuno muore.
Non ti conviene svegliarti.
Tanto non salverai più vite.
Come me.



 
Eccoci giunte al terzo capitolo, come vi sembra?
Cominciate a capirci qualcosa, a seguire il filo conduttore che accumuna i dottori?
Ma soprattutto, cosa ne pensate?
Scrivetelo qui sotto
Lulubellula e 2calzona3

   
 
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