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Autore: Assasymphonie    18/06/2013    2 recensioni
Era schiavo, sì. Ma di sé stesso, così come Sadiq lo era di quel corpo che si accingeva a divorare, tra i fumi e i veli di un harem centenario.
{ Turchia-Male!Ungheria }
Genere: Erotico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Nyotalia, Turchia/Sadiq Adnan
Note: nessuna | Avvertimenti: Gender Bender
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Titolo del capitolo: Köle
Personaggi: Sadiq Adnan { Turchia } / Male!Ungheria
Rating: Arancione
Note dell'autore: One-shot / Erotica / Storica
Disclaimer: Personaggi, luoghi e abitudini sono di proprietà del mangaka; lo scritto e le situazioni sono di mia proprietà. Jòzsef è il nome che ho scelto per Mangary, spero non me ne vogliate.


.Köle.

Che fosse fumo o fossero veli, l'aria rimaneva sempre irrespirabile. Rovente nonostante il quieto ventaglio tenuto da una giovane dai capelli mori, estremamente quieta nonostante le molteplici voci femminili tutte attorno, formando un velo di cacofonia attorno al bocchino e all'ampolla del narghilé, inscritta in una struttura dorata dalle molteplici pietre preziose.
Nemmeno le stoffe più leggere riuscivano a proteggerlo dal calore soffocante emanato da quella stanza, dal fumo che ruscellava lentamente tra le scure labbra socchiuse mentre gli occhi neri vagavano, tremendamente annoiati, tutto attorno a quelle donne. Tutte uguali, tutte vestite di veli azzurri e rosati, dai capelli raccolti e dai sorrisi un po' falsi e un po' di circostanza con cui gli si dedicavano, spargendogli il petto largo con creme profumate e fresche per lenire la calura di quell'ultima, soffocante parte del pomeriggio. Presto sarebbe scesa la sera, Sadiq poteva intravedere la luce rossastra del tramonto dipingere arabeschi interessanti contro le colonnine del baldacchino sotto il quale sedeva vestito di lini bianchi e rossi, un gilet color del sangue lasciato aperto sulla pelle bronzea, appena colorata da qualche monile in oro che cadeva perfettamente al centro dei forti pettorali.
Noia, noia, solamente tanta noia. Aveva tante donne, tante schiave, un harem immenso eppure mai riusciva ad essere veramente soddisfatto. Nessuno stimolo, troppa compiacenza, troppo servilismo. Ma poi, oh, poi aveva incontrato lui. E che fosse il bisogno di lui a renderlo così annoiato, come se soltanto la sua presenza potesse scuoterlo in quel fine di giornata troppo calda e afosa per essere utile a qualche cosa?
La mano che teneva salda la testa piegata a sinistra si sollevò assieme alla sorella e solo una volta batterono, facendo cessare improvvisamente il rumorio delle chiacchiere delle donne i cui occhi tutti si volsero alla figura del loro padrone. Non si alzò nemmeno, ma si limitò a passarle in rassegna una per una, chiedendosi cosa mai pensassero di tutta quella indolenza.  Che il grande Impero Ottomano avesse conquistato ormai tutto quello che voleva, ristagnandosi in una pozza di piaceri sempre più slavati? No, Sadiq non era così. La mente, nonostante i fumi lussuriosi, era chiara quanto bastava per sapere che cosa volesse, prima che la cena fosse servita in un'altra, ampia stanza. « Potete andare. »
Parole a cui seguirono movimenti scattanti, fruscii di vestiti leggeri e mormorii concitati: le concubine si ritiravano nelle loro stanze come era stato ordinato, e nel tramestio di piccoli piedi nudi Sadiq individuò finalmente la persona con la quale avrebbe combattuto quel piccolo giorno di noia. « Tu no, Jòzsef. »
Una figura, posizionata di spalle, ebbe un guizzo dei muscoli e ritenne opportuno tornare a sedere su un piccolo cuscino color porpora. La schiena era coperta da lunghi capelli castani, ondulati al punto giusto, ed i vestiti così simili a quelli delle donne presenti fino a poco prima nella stanza da rischiare, magari, di essere in qualche modo assimilato ad esse. Ma fu solo voltandosi che la sua natura divenne manifesta: il busto di un ragazzo, liscio e privo di imperfezioni ed un volto affilato e sottile, naso dritto, bocca morbida e grandi, espressivi occhi verdi. Occhi che squadravano Turchia da capo a piedi, occhi non sottomessi, selvaggi nella loro quieta maniera. Una sfida continua all'uomo che era arrivato fino a casa sua, che aveva soggiogato l'intera Ungheria strappandola all'Austria e che ora teneva in catene il suo rappresentante, sottili come oro ma pesanti come piombo.
« Vieni qui. » La mano sinistra dell'uomo si agitò pigramente nell'aria ancora invasa di fumi e Ungheria fu costretto ad alzarsi. I larghi pantaloni di lino color crema frusciarono sulla pelle chiara, seguirono i passi dei piedi nudi sul marmo venato di rosa fino ad ergersi di fronte al suo padrone, perché tale era diventato, sottomesso al sorriso soddisfatto che egli gli concesse. Non c'era bisogno di parlare, Ungheria non lo faceva mai. Non gli rivolgeva la parola e gli unici suoni che Sadiq poteva sentire da lui erano i gemiti accorati, i sospiri e le urla di disperato piacere quando al lino veniva sostituita la seta delle lenzuola, e quando al posto del profumo di spezie prendeva posto l'odore di sudore e di sesso, pungente ed intimo.
Questo Turchia lo sapeva, e fu con la consapevolezza del silenzio altrui  che prese dal tavolino vicino una sottilissima catena d'oro. Ornata di smeraldi e di diamanti piccoli come lacrime, in un numero spropositato per la lunghezza della stessa; fu delicatamente chiusa attorno al corpo di Jòzsef, nel punto in cui i fianchi cominciano e finisce il resto del busto. Una catena bella, delicata, ma tremendamente vera e reale. L'altro capo lo teneva Sadiq stretto nella mano, e fu con soddisfazione malcelata in un sorriso affilato e complice con gli occhi neri, ardenti come ossidiana, che impartì il suo comando. « Balla per me. »
Mai vi fu un'espressione tanto imbarazzata ed attonita sul volto di qualcuno come quella che attraversò i lineamenti di Ungheria in quel momento. I muscoli riuscirono a guizzare sotto la pelle, muscoli da uomo qual'era, messo in ridicolo e trattato come una qualsiasi donna di quell'harem infinito da un impero troppo altero, troppo forte e troppo pieno di fascino per vedersi opporre un rifiuto. Fu con riluttanza e seguendo musica alcuna che i fianchi di Jòzsef, prima immobili come quelli di una statua, cominciarono a muoversi sinuosamente. Era bravo, dannatamente bravo e Turchia non perdette un solo secondo di quei muscoli che si flettevano, si muovevano come un'onda continua in uno stagno completamente calmo. La catenella altro non accentuava il pallore di quel corpo tanto vicino all'androginia e il furore di quegli occhi verdi che bruciavano, li sentiva.
Il semplice dolore di vedere quel corpo e di non poterlo, per ora, toccare era il momento più sublime del piacere, la semplice vista che riusciva a scatenare sensazioni in tutto il corpo dell'impero, facendo fremere la pelle scura, irrigidire i muscoli del bacino e solleticare giocosamente i capezzoli appena coperti dal gilet ormai diventato così fastidioso...
Ma Jòzsef continuava a ballare e nulla sembrava avere importanza. Oh, come avrebbe voluto tendere una mano per sfiorare quei fianchi sottili, così simili a quelli di una donna ma diversi come la vita e la morte. Sapeva che Jòzsef avrebbe pagato pur di ucciderlo, così come sapeva che quel corpo non avrebbe saputo rinunciare alle sue carezze, ai momenti in cui nulla sembrava esistere al di fuori del corpo. Tirò la catenella verso di sé, quindi, ben deciso a terminare quella prima, sublime fase solo per farlo sedere tra le proprie gambe, solo per averlo vicino ed Ungheria obbedì. Un bravo, fedele vassallo pronto a pugnalarlo alle spalle: quanto odio si sarebbe attirato dal mondo, continuando così? Tanto, e con esso il desiderio.
Ma quando la catena fu strattonata ancora, il segno rosso sulla pelle di Jòzsef si acuì ancora di più. Un momento di stasi che bastò ad un servitore per entrare, annunciando la cena, ignorando sistematicamente la mano del suo padrone con la catena avvolta e la gemella, stretta attorno ad una natica del suo fedele vassallo ungherese. « Fammela servire qui. Ho sempre sognato di farmi imboccare da uno schiavo. »
Per tutta risposta Ungheria diede uno strattone al prezioso gilet, ma fu ripagato con un morso che gli fece scappare un gemito. Era schiavo, sì. Ma di sé stesso, così come Sadiq lo era di quel corpo che si accingeva a divorare, tra i fumi e i veli di un harem centenario.

.Fine.

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Dire che li ho sempre amati è riduttivo?
   
 
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