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Autore: mela85    04/01/2008    12 recensioni
"E se esistesse un'altra specie di vampiri,dimenticati fra le pieghe della storia,quasi sconosciuti ma altrettanto potenti? Una dinastia non nata dal morso di un pipistrello o di un lupo,bensì da quello di un serpente..." aspetto di sapere cosa ne pensate...bacio!
Genere: Malinconico, Dark, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ouroborus

Ciao! Questa è la mia prima storia divisa in più capitoli...ce l'ho messa tutta e spero di avervi regalato almeno una “piacevole” lettura...lasciate traccia del vostro passaggio,please...

bacio



IL SERPENTE DI FUOCO



Questa notte l’aria è più fredda del solito. C’è foschia ovunque, talmente fitta da penetrare persino nel mio cuore. Cammino sul piccolo sentiero di ghiaia e fango, così familiare ormai perché lo percorro tutte le sere. Da quanto tempo non ricordo. Conosco a memoria tutto ciò che mi circonda, come se ogni volta rivivessi la stessa identica scena della mia esistenza notturna.

Mi guardo intorno in cerca di un minimo, invisibile mutamento in questa desolazione. Ma nulla è cambiato: le stesse lapidi corrose dal tempo e incrostate dal muschio, le stesse scritte quasi completamente cancellate dalla pioggia, gli stessi fiori appassiti e putrefatti. Gli stessi spiriti soli ed annoiati che osservano la mia andatura e si inchinano al mio passaggio. Rammento ogni cosa che li riguarda: le loro vite, i loro amori, le loro morti tragiche, banali, dolorose. Tutte queste esistenze mi appartengono nella memoria e quasi le invidio, perché vorrei che anche una sola di esse fosse mia nella realtà.

Vorrei che nelle mie vene scorresse il sangue puro e colorato d’innocenza della piccola Lisbeth, uccisa a sei anni dalle carezze di un padre troppo attento alle curve paffute del suo corpicino. Invidio fortemente l’anima gentile e passionale della bella Faith, divorata dal suo stesso amore per un uomo che l’ha condotta al suicidio tra le acque anonime e gelide di un fiume. Vorrei essere spirato come Abraham, detto “il vecchio”, distrutto dall’anzianità, consumato dalla stanchezza per una vita troppo lunga e scivolato nell’aldilà sognando la propria gioventù.

Una volta pensavo spesso alla gelosia che provavo per quelle esistenze tranquille, così lontane dalla mia realtà, ma ormai mi rendo conto che tante, troppe stagioni hanno solcato le mie membra divenute apatiche, ed ora non bado più a quella schiera di anime tristi, né alla riverenza che le accompagna. Sono per me come parte dello sfondo che le avvolge, appannate le facce, indefiniti i contorni.

Continuo ad avanzare, contando i passi che mi separano dall’unica cosa che ancora mi importa. La mia meta è ormai vicina. La vedo, è là immobile nel solito posto dove giace da incalcolabili anni. Mi avvicino con gli occhi fissi su di lei, ed ancora una volta, come ogni notte, contemplando il mio volto immortalato per sempre in quella fotografia sbiadita, mi stupisco di vedere quell’espressione, quei lineamenti che non sono più miei da tempo. Occhi appartenuti ad un’altra persona, in un’altra vita, e che ora non mi rispecchiano più.

Come di consueto, rimango a lungo di fronte alla mia lapide, rapito da quella parodia dell'immagine di una morte finta e beffarda. La osservo mentre marcisce lentamente come la mia stessa anima, prigioniera tra due dimensioni per l’eternità, condannata a venerare le tenebre e fuggire dal sole che tanto amava.

Alzando lo sguardo, mi accorgo che nel cielo le nubi si sono diradate ed hanno lasciato spazio alla luna piena. Allora mi volto e mi lascio alle spalle quel viso sorridente, totalmente diverso dalla faccia di un essere dannato, maledetto dal mondo dei vivi e respinto da quello dei morti. Una faccia che non sa più cosa sia un sorriso, che conosce solo rabbia, tristezza e rassegnazione.

Mi dirigo verso l’alto cancello di ferro e lo scavalco con agilità, abbandonando il piccolo cimitero per calarmi in un altro campo di morte, molto più grande e pericoloso: la città, così ricca ed illuminata eppure completamente deserta e desolata in ogni sua via.

Avanzo i miei passi verso una direzione casuale ed ignota, seguito solo dalla mia ombra, l’unica che non mi abbandona mai. Un soffio di aria gelida mi scuote gli abiti, ed io mi stringo nel mio cappotto nero con un gesto che dona un’illusione di calore al mio corpo eternamente insensibile. Abbasso lo sguardo a terra e penso incessantemente al momento in cui sentirò di nuovo il sapore del sangue in bocca, una sensazione estatica e proibita che ridarà vita al mio spirito almeno per qualche ora, almeno fino a quando non terminerà un altro giorno e calerà nuovamente la notte.

Avverto in lontananza lo scoccare di dodici rintocchi che giungono ovattati fino alle mie orecchie: è tempo di cacciare. Mi allontano dalle strade illuminate per strisciare nell’ombra, in cerca del luogo giusto, della preda perfetta, perché è questo il compito al quale sono assegnato: banchettare ogni notte con calici di vino rosso, linfa vitale di coloro il cui fato condurrà tra le mie labbra assetate. E nel mio paziente silenzio desidero per un attimo che tutto si arresti, che nessuno passi per questa via maledetta in cui troverà solo la propria morte.

Ma subito mi accorgo che non si può fermare il destino, non è possibile spezzare la catena degli eventi: il cerchio del serpente che si morde la coda non può essere sciolto. Velocemente alzo il braccio sinistro e con la mano destra scosto la manica per controllare che ci sia ancora, che non si sia cancellato. Ma lui, il leggendario Ouroboros, è sempre là, immobile sul polso sinistro, indelebilmente marchiato a fuoco sulla pelle: mi fissa con il suo occhio fiammeggiante e, nell’atto di azzannare la parte finale del suo stesso corpo, sembra sorridermi.

Ricordo ancora con precisione il giorno esatto in cui mi fu impresso nella carne. Allora ero solo un ragazzo, ribelle ed annoiato da una vita piatta e scontata, desideroso di esplorare il mondo e scoprire cosa si celasse dietro quel velo di monotonia che lo avvolgeva. Amavo viaggiare per luoghi solitari e deserti, finché un giorno mi imbattei in una locanda, sudicia quanto polverosa ed ostile, l’unico segno di vita tra distese chilometriche di nulla. Fu lì che convinsi il proprietario, un vecchio indiano dall’aria stanca ma pacifica, a tatuarmi sul braccio quello strano simbolo che vidi per la prima volta su un muro della sua stessa bettola, e che mi affascinò a tal punto da non desiderare nient’altro se non di possederlo.

Non ascoltai i suoi consigli, non diedi peso ai suoi presagi di morte e dannazione, volevo solo fare mia quell’immagine, diventare un tutt’uno con essa. E i miei desideri furono esauditi: da quel giorno l’Ouroboros mi trasformò nell’essere ripugnante che sono, si impadronì per sempre della mia anima e mi incatenò in questo circolo vizioso fatto di annullamento e rigenerazione, di morte e di vita al tempo stesso. Egli è divenuto il mio guardiano, il mio unico compagno, colui che garantisce la mia sopravvivenza eterna tra questi due mondi paralleli e complementari. Lui è diventato me.

Noi conosciamo già ciò che avverrà: questa notte, domani notte, le prossime mille notti il buio calerà, una persona morirà e noi sopravvivremo ancora ed ancora. Per sempre.

Ma, improvvisamente, ogni pensiero svanisce e torno bruscamente alla realtà, quando percepisco dei passi nelle vicinanze. Un rumore delicato e regolare, prodotto dall’andatura leggera di una donna. Una giovane donna. La sento venire dritta verso di me, poi fermarsi, poi riprendere a camminare con passo più veloce e turbato: ha paura. Intuisco l’ansia crescere in lei e, anche dal buio totale del mio nascondiglio, vedo il calore rosso emanato dal suo corpo, e scorgo i suoi occhi mentre si muovono rapidamente a cercare me, la serpe che aspetta impaziente il topolino del quale si ciberà.

Mentre la osservo attentamente, sento il mio corpo fremere, avverto ogni muscolo teso ed irrigidito per l’imminente mutamento, e riconosco già l’eco di quel dolore che l’accompagna, come i tuoni si associano al temporale. Ed infine eccomi tramutato nella mia vera essenza, quella che come un parassita ha preso possesso di me, rendendomi schiavo di fronte alla mia stessa volontà.

E mentre prego per la sua anima, le mie zanne affilate già la assaporano, e la mia bocca di rettile si muove ritmicamente in una lenta e silenziosa cantilena che la condurrà all’oblio più profondo, l’oblio di preghiere sussurrate nell’abbraccio delle mie avide spire sul suo tenero collo. Questo sarà il suo destino, questa è la mia condanna.

Perché io sono il non-vivo e il non-morto, sono il portatore del serpente di fuoco.

Io sono l’Ouroboros.


  
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