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Autore: Emmeline Vance    20/06/2013    1 recensioni
Sono Merope Gaunt, rimpiati e sogni infranti, ecco tutto cio che rimane di me e della mia vita. Patetico. Ho lottato con tutta me stessa per raggiungere la felicita,ma non é bastato, dopotutto non ero destinata a una vita felice. Eppure a me sarebbe bastato essere amata da qualcuno, non chiedevo di più. Ha più importanza ora che sono morta?? Non giudicatemi per quello che ho fatto, a modo mio volevo solo essere felice. Questa storia parla di me e della mia breve vita credo valga la pena di leggerla prima che i ricordi di cio che ero svaniscano come neve al sole, perche forse in fondo non sono stata cosi inutile.
Personaggio Principale: Merope Gaunt, Altri Personaggi: Tom Riddle JR Orvoloson Gaunt, Orfin Gaunt
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Merope Gaunt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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 L' inverno

Fa freddo, un freddo pungente che brucia la pelle che mi penetra le ossa e mi gela l’anima. O forse è solo una mia illusione dopotutto dovrei esserci abituata. Cammino incespicando nella neve. Non curante della bufera mi dirigo imperterrita verso il ruscello, devo fare il bucato, altrimenti mio padre… No, non voglio pensarci costi quel che costi farò il bucato. Arrivo al fiumiciattolo, ma ormai è ghiacciato, non posso fare altro che restare li immobile, a fissare il mio riflesso: una ragazza, deperita e goffa, un po’ bruttina leggermente strabica, sostanzialmente insignificante, La tipica ragazza che sopporta senza lamentarsi, che soffre in silenzio vestita di stracci, con il viso livido dal freddo e gli occhi velati da muta rassegnazione. Guardo preoccupata in direzione dell’antico casolare che sorge in cima alla collina Una lacrima solitaria mi riga una guancia, forse  sono arrivata al punto  di provare pietà per me stessa. Patetico. Svelta l’asciugo con il dorso della mano. I Gaunt non piangono, e io per quanto possa essere aberrante e inutile non faccio eccezione. Provo a incrinare la lamina di ghiaccio con le unghie, picchio con quanta più forza ho nelle braccia contro la superficie gelata del ruscello, ma invano. Continuo così per circa mezzora, fino a quando le nocche delle mani non mi sanguinano. Allora serro le mascelle, mi faccio coraggio, raccolgo tutti i panni sporchi in un fagotto e faccio ritorno a casa.
Non ho nemmeno provato a spiegare a mio padre che il fiumiciattolo era ghiacciato, sarebbe stato inutile. Ora lui mi sta sbraitando contro, provo ad ignorarlo, cerco di pensare ad altro, ma le sue urla sono come pugnalate invisibili che mirano dritte al mio cuore. L’orgoglio e la dignità, ho dimenticato perfino cosa siano, ma un cuore ce l’ho anch’io, e per quanto ferito e sanguinante sono convinta che sia ancora in grado di amare e di soffrire, forse non ho ancora toccato il fondo.
Anche se non l’ho visto so che mio fratello sta assistendo alla scena, sento il suo sguardo di disprezzo puntato su di me. Volto il capo e lo vedo, impassibile in cima alla scalinata, i capelli biondi leggermente arruffati gli ricadono a ciocche scomposte sulle spalle. Un vecchio e logoro capotto nero lo avvolge. Lui si che è degno del suo cognome, così altezzoso, dal cipiglio regale e nobile come il nostro avo: Salazar Serpeverde.
-TU!!! VERME!!! NON MERITI NIENTE! TU SPORCA MAGANO!!! COME HAI OSATO DISUBBIDIRMI!-
Sono queste le parole di mio padre.
Poi svelto e fulmineo uno schiaffo mi colpisce in viso. Mi accascio a terra.
Lui si fa sempre più minaccioso, il suo sguardo cupo saetta d’ira.
Tento di strisciare indietro, ma dopo qualche metro arrivo a toccare il muro. Porto le gambe al petto e disperata mi rannicchio come posso. Chiudo gli occhi in attesa.
Nella stanza scende un silenzio tombale, interrotto solo dai miei singhiozzi.
Il passo lento e cadenzato  di mio padre si fa sempre più vicino. Un altro schiaffo. Mi sputa perfino in faccia prima di dirigersi nel suo studio seguito da Orfin.
Arrancando mi alzo. Sento un baccano provenire da fuori, mi trascino verso la finestra e vedo come un polverone dirigersi verso il villaggio ai piedi della collina. Metto a fuoco meglio: sono dei giovani, credo babbani, che cavalcando magnifici destrieri fanno ritorno da una battuta di caccia.
Sono tutti così allegri, pieni di vitalità, deve essere la prima volta che passano di qui, non li avevo mai notati.
I miei occhi neri si velano di malinconia e desiderio, come vorrei che un giorno uno di quei cacciatori giungesse fin qui e mi portasse via con se…
Perfino loro, seppur babbani, vivono vite armoniose e allegre.
Invece io, una strega incapace, con un cognome troppo ingombrante di cui non sono all’altezza, sono destinata a vivere nell’ombra e nel terrore di mio padre e di mio fratello.

   
 
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