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Autore: Sam Lackheart    20/06/2013    2 recensioni
Commedie romantiche poco divertenti (e decisamente poco romantiche) in tre atti, sulle dichiarazioni d' amore (ma anche no) delle nostre nazioni preferite (?)
Si prevedono precipitazioni di no sense miste a melassa appiccicosa!
Coppie: UsUk, Spamano, RuPru.
P.S: il titolo è di derivazione dantesca, ovvero deriva dal fatto che dovrei studiare Dante, adesso.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Russia/Ivan Braginski, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dopo quella disastrosa serata passò una lenta settimana, placidamente, senza che niente si muovesse di un solo millimetro. 
Arthur si accorse che era già adeguatamente abituato a sfuggire gli sguardi e i tentativi di approccio dell' americano - gli unici cambiamenti risiedevano nei motivi di tale distacco: dalla paura di poter esternare i suoi veri sentimenti alla crudele realtà che l' avrebbe fatto, se fosse rimasto da solo con lui.
Il primo cambiamento a quella che per entrambi era una tremenda situazione di stallo avvenne una nuvolosa mattina londinese, e una chiamata inaspettata dall' ultima persona da cui Arthur si sarebbe aspettato di ricevere una chiamata. 
"Pronto?"
"Da, Inghilterra?"
"Russia?"
"Da"
Calò un silenzio imbarazzante: Arthur era ancora visibilmente stupito, mentre Ivan non era mai stato bravo nelle telefonate - non sarà certo necessario ricordare ai lettori quel fantomatico telefono rosso.
"Hai bisogno di qualcosa?" chiese esasperato l' inglese. 
"In effetti sì. E' un problema per te venire a Mosca? C'è qualcosa di cui vorrei parlarti con urgenza"
"E' successo qualcosa di grave?" domandò allarmato l' inglese: il russo non chiamava mai, se non per annunciare ambigui piani di trattative.
Ma un "tu tu tu" impersonale arrivò alle sue orecchie, non lasciandogli nessuno scempo se non quello di partire immediatamente. 
Per un attimo, aveva pensato che si trattasse di un piano di quell' idiota di un americano, o di Francis - tanto per precauzione, aveva interrotto i contatti anche con lui. In realtà ci stava ancora pensando, da paranoico compulsivo quale era, quando bussò con decisione alla porta bianca della villa di Ivan, ma il russo non era esattamente propenso a quel tipo di favori, specialmente nei confronti dell' americano.
Per questo, e solo per questo - come si convinse in seguito - il suo cuore iniziò a palpitare con la veemenza di un cavallo impazzito quando riconobbe le gambe, avvolte da un pantalone grigio, di Alfred, che dondolavano dal bracciolo del divano rosso che dominava il salone d' ingresso.
Non impiegò molto a fare due più due, e capì che quella era una trappola bella e buona. Era tentato, davvero, di girare i tacchi e andarsene, ma qualcosa, dentro di lui, gli disse che non poteva scappare per sempre: aveva già cercato di farlo, e non ci era riuscito. 
"Come lo hai convinto?" chiese, brusco, sedendosi di fronte all' americano che non si preoccupava neanche di celare la soddisfazione che gli procurava la sua presenza. Era da una settimana che aspettava quel momento, e il solo rivederlo lo pervase di una gioia tale che gli sarebbe volentieri saltato addosso, come faceva quando era una piccola colonia, e l' inglese tornava fiero delle sue conquiste marittime, e lui si sentiva onorato di farne parte. 
Scosse la testa, sapendo bene che non doveva far infuriare l' inglese: non poteva perdere quell' occasione. 
"Veramente il merito è di Francis ... Non conosco esattamente l' accordo, ma a grandi linee comprende che una certa persona si trovi casualmente nella stanza di Ivan, questa notte"
"Tipico di Francis" pensò amareggiato l' inglese, che chiese - tanto per posticipare un possibile cambio di argomento "Una certa persona? Gilbert?"
"Come fai a saperlo?" l' americano sgranò gli occhi, quasi inorgoglito dall' astuzia dell' inglese che gli stava davanti e che in fondo si sentiva fiero del suo intuito. 
"Non ci vuole poi così acume ..." disse, minimizzando piacevolmente quello che aveva notato ormai da tempo "E tu come hai convinto Francis?"
"Oh, veramente non ce n'è stato bisogno" 
"E perchè?"
Alfred aspettava quella precisa domanda, e aveva provato così tante volte la risposta giusta da averne quasi la nausea, quando disse "Perchè lui sa"
"Sa cosa?"
"Che siamo l' uno l' unica fonte di felicità dell' altro"
L' inglese rimase basito e dir poco disgustato. 
"Fammi indovinare: te l' ha detto lui di dirmi questo, vero?"
"No" si affrettò a dire l' americano.
"Ti conosco troppo bene ... non sai mentirmi" 
Tronfio di quell' ultima considerazione, Arthur alzò lo sguardo e per la prima volta lo fermò su quello dell' americano, trovandoci però non l' imbarazzante consapevolezza di essere stato scoperto che si aspettava: sembrava quasi felice, elettrizzato dalla loro conversazione. 
"Se sai quando mento, perchè non mi credi, quando ti dico che ti amo?"
"Mentire è diverso da avere stupide idee in testa" lo rimbeccò l' inglese, spostando lo sguardo. Usava quella parola con troppa disinvoltura per permettergli di pensare che non fosse usata a sproposito. 
"Stupida idea? Davvero?"
"Senti. Ti ho già fatto questo discorso, ma evidentemente la tua memoria a breve termine era andata ad ordinare una porzione di patatine firtte mentre te lo dicevo. Quello che dici di provare per me ... è tenero, davvero. Ma è solo un affetto edipico amplificato dalla lontananza, e lo sai, nel profondo, tu sai che ho ragione" 
"Anche se per una volta vorrei sbagliarmi" pensò subito dopo, mordendosi la lingua. 
"Puoi tentare di trovare tutte le spiegazioni che vuoi, davvero, non mi importa. Le tue parole potranno ferire chiunque, ma non me. So che cosa nasconde davvero il tuo cuore, e sono pronto a lottare, per te, non mi importa quanto sarà degradante, o autostruttivo"
"Davvero? Non ti importa? Ma se sei venuto fino a Mosca per parlarmi, per assicurarsi che nessuno vedesse la grande America dichiarare i propri sentimenti! La verità è che sei così attaccato alla tua immagine che proprio non ce la faccio a pensare che possano esistere dei veri sentimenti d' amore che non siano rivolti verso di te" disse stizzito l' inglese, non trovando rifugio migliore dell' aggressività.
"E' quello che credi davvero?" 
"Sì" sapeva bene di essere stato brutale, e lo capì ancora meglio quando vide le spalle larghe dell' americano uscire dalla porta. 
"Arthur Kirkland, sei un vero idiota" pensò, prima di uscire anche lui, nella desolata consapevolezza di star portando l' unica fonte di possibile feicità il più lontano possbile da sè.
 
Francis rimase a bocca aperta: conosceva fin troppo bene il cinismo dell' inglese - era stato lui il primo a farne le spese - ma non poteva essere arrivato a tanto. 
"Questa è la prova decisiva, mon cher: ti ama"
"Ma cosa stai dicendo? Non hai sentito quello che ti ho appena raccontato?"
"Pauvre Amerique ... non capisci, n' est pas? Lo rendi vulnerabile, con le tue parole, per questo si comporta così. Ha paura, nessuno gli aveva mai mostrato questa dedizione, e il fatto che venga da te, poi ... non lo aiuta. E' confuso: stai mandando all' aria secoli di impostazione rigorosamente pessimistica, per lui non è facile rinunciare alla sua misantropia, anche se vuole farlo"
"Neanche per me è poi così semplice, sai?"
"Sai come è fatto ... E' anche per questo che ti piace, no?"
"Sì, ma cosa dovrei fare?"
Francis fece finta di pensarci, ma aveva già bene in mente un piano. 
"Terapia d' urto. Fai quello che ti riesce meglio"
"Ovvero?"
"Esagera"
 
Quella mattina, alla consueta riunione, Alfred era assente, e l' inglese non riuscì a sentirsi in colpa - un sentimento che in realtà non l' aveva mai abbandonato, da quel giorno a Mosca.
"Dov'è America?" chiese Ludwig, mentre inforcava gli occhiali.
"E' occupato in altri ... affari" si affrettò a giustificarlo Francis, osservando con la coda dell' occhio la reazione dell' inglese, che non potè fare a meno di sentirsi chiamato in causa. 
"Va bene, cominciamo senza di lui" 
 
"Estenuante, non credi?" chiese, dopo un paio di ore, Francis, affiancandosi all' inglese che camminava spedito.
"Cosa vuoi, frog? Non sono in vena"
"Tu non lo sei mai ... volevo parlarti"
"Di cosa?" chiese annoiato, come se non lo sapesse.
"Pensi che pioverà?"
"Eh?"
"Non so, da te non fa altro che piovere, quindi ... mi chiedevo se tu riuscissi a fare le previsioni meteo solo guardando il cielo"
"Hai fumato, per caso?" chiese stizzito l' inglese, stupito di trovarsi fuori dal balcone: in quel momento capì che c' era qualcosa di sospetto nell' improvvisa schizzofrenia del francese e, seguendo il suo sguardo ammiccante, si decise a guardare in alto, assecondando il suo folle piano. 
"Comunque non credo, è una bella giorn-" per poco non si soffocò con l' aria che stava inalando. 
Seppur non perfettamente delineata, una grande scritta bianca sorvolava il cielo, appena tracciata da un aereoplano che stava per atterrare nel cortile sul retro. 
Oh, l' avrebbe ucciso, quel dannato americano.
In cielo spiccava la scritta, imbarazzante quanto grande, che recitava "I love Arthur Kirkland" e, poco sotto, un' imbarazzante "A", rossa come lo era l' inglese, pronto ad esplodere. Non poteva averlo fatto davvero. Forse era solo un incubo, arrivò a pensare, e sperò con una punta di follia di svegliarsi, dandosi un pizzicotto sulla mano. Non accadde nulla. 
Ignorando i commenti di Francis e cercando inutilmente di non notare le reazioni di tutte le nazioni, che per qualche maledetto motivo erano tutte fuori, Arthur si diresse senza indugi verso il cortile sul retro, sicuro di trovarci il sorriso sornione dell' americano che lo aspettava a braccia aperte, sicuro di aver fatto colpo. Oh, un colpo ci sarebbe stato, ne era sicuro.
"Jones!" urlò, chiudendo con violenza la porta antipanico del capannone dove tenevano gli elicotteri privati. 
Lo vide scendere dall' apparecchio e togliersi il casco come il più beato tra gli uomini. Credette di stare per impazzire definitivamente, staccare un' elica da qualche parte e fare in modo che non rimanesse neanche un pezzettino visibile di Alfred F. Jones. 
"Piaciuto?" chiese, gaio come non mai.
"Come ha fatto il pensiero che una cosa del genere mi sarebbe potuta piacere sfiorarti quel cestino della spazzatura che l' opinione pubblica chiama erroneamente cervello, lurido cazzone? Davvero, ti capita di avere dei vuoti mentre fai finta di pensare o cosa? Perchè non provi l' inebriante sensazione di collegare quel buco nero che hai in testa con il resto del corpo?" 
Gli insulti dell' inglese - che, sapevano entrambi, sarebbero potuti andare avanti per ore - furono prontamente interrotti dalle braccia dell' americano che, afferratala vita di Arthur, lo sollevarono e lo fecero girare.
"E adesso lasciami, ritardato mentale! Che cazzo pensi di fare?"
"Questo" sussurrò l' americano, prima di unire velocemente le sue labbra a quelle socchiuse dell' inglese, che per un attimo perse la concezione di tutto quello che lo circondava, inebriato dal sapore e la morbidezza delle labbra dell' altro, mista a un lieve sentore di carburante. 
Ma durò solo un attimo.
Arthur si scansò velocemente e, prima che l' americano potesse solo rendersi conto di quello che stava succedendo - ma in fondo, quando accadeva? - piazzò un pugno nello stomaco dell' altro, prima di andarsene, frantumando la serratura della porta. 
"Qualcosa mi dice che si è offeso" pensò l' americano, che però non riuscì a smettere di sorridere: aveva visto il rossore sul volto dell' inglese, e non era sicuramente rabbia. 
 
*** note ***
Vabbè, poco in ritardo, cosa potrei aggiungere? Mi sono divertita da matti ad insultare Alfred. 
  
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