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Autore: Euachkatzl    20/06/2013    2 recensioni
“Black window of la porte? Ma non è quella…”
“Sì, Tico, è quella che tu non riesci a suonare neppure su Guitar Hero” gli rispose Richie, un po’ pentito di avermi preso in giro, ora che stavo suonando perfettamente una delle canzoni più difficili che avesse mai sentito.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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She’s a little runaway,
Daddys girl learned fast,
All those things he couldn’t say,
Yeah, she’s a little runaway.

 
Mi ritrovai in una stanza bianca. Sapevo benissimo che sarei arrivata lì: ogni volta che ti droghi arrivi sempre nello stesso posto, e sia io che i Seventh lo conoscevamo bene. Ricorreva spesso nelle nostre canzoni. Noi lo chiamavamo ‘Heaven’, ci sembrava il nome più appropriato: un luogo completamente bianco, dove potevi stare bene per un paio d’ore. È quando te ne andavi, che cominciavano i problemi, soprattutto per me. Quando sono drogata cammino incosciente, facendo stupidaggini a nastro. E fu così che quando mi risvegliai, nuda, trovai Jon nel mio letto. “Jon?” lo chiamai piano, per svegliarlo. Lui aprì gli occhi lentamente e, dopo avermi messo a fuoco, biascicò qualche parola contorta. “Eh?” gli chiesi confusa.
“Buongiorno” ripetè lui, alzandosi un po’ e appoggiando la schiena contro la testiera del letto.
“Buongiorno” risposi io. “Per caso tu ricordi qualcosa di stanotte?” Domanda stupida, ma avevo davvero bisogno di sapere che cosa avevo combinato mentre ero convinta di trovarmi nel famoso Heaven.
“Allora… Ho ricevuto una telefonata da te in cui mi chiedevi di venire a casa tua, che avevi bisogno di qualcuno… Io sono arrivato e tu mi sei saltata addosso… e poi vabbè, credo che dal nostro abbigliamento riesci a intuire il resto” raccontò lui, piuttosto divertito.
“Jon, perché mi hai lasciato fare? Ero… strafatta” A questa frase, il suo viso si fece piuttosto serio. “Da quanto tempo ti droghi? Sinceramente”
Mi passai una mano sul viso, tentando di rilassarmi e scacciare i pensieri che cominciavano ad affollarsi nella mia mente. La mia prima canna, la paura quando Edo mi porse la prima siringa, la canzone che avevamo composto quando eravamo completamente fatti. Bellissima, la canzone. Le note cominciarono a girarmi in testa, impedendomi di ragionare normalmente. Heaven is where you can go, everytime you want, where you can feel okay, where you can go on. It’s not a long time, but it’s enough; you are a superstar, you are everyone you are.
“Non lo faccio spesso. Ma ieri ne avevo davvero bisogno” risposi a Jon dopo qualche secondo, mentre quel motivetto continuava a rimbalzarmi nella mente.
“Perché hai cominciato?” insistette il biondo, che mi fissava interessato.
“Non è importante” mentii, mentre mi vestivo.
“La verità è che non me ne vuoi parlare” disse Jon. Era incredibile come lui riuscisse a leggerti nella mente. Sapeva sempre quello che intendevi dire, anche quando facevi di tutto per impedirglielo. “Dai, sfogati”
“No, davvero, è una storia troppo lunga. Se cominciassi a raccontartela probabilmente stasera saremmo ancora qui” Lo fissai. Maledetti occhi. Jon sapeva benissimo che erano bellissimi, che convincevano sempre le persone. Aveva imparato ad usarli molto bene. “Diciamo solo che i sogni a volte è meglio che non si avverino”. Detto questo, andai in cucina per farmi un caffè forte, lasciando Jon sul letto, sconvolto da quella frase.
“È meglio che non si avverino? Juju, stai scherzando per caso? I sogni sono la cosa più bella che puoi avere, soprattutto alla tua età”. Il biondo entrò in cucina e si sedette su una sedia, prendendo un biscotto dal cesto sopra al tavolo.
“Sì, tu lo puoi dire. Tu hai avuto successo, tu ce l’hai fatta. Ma non tutti quelli che formano una band raggiungono i propri sogni. Certa gente si perde per strada. Certa gente muore per strada. E certa gente soffre”
“Però mi pare che tu non abbia abbandonato la musica” disse Jon, alzandosi e avvicinandosi a me. Mi cinse la vita e mi strinse forte a sé; di sicuro aveva capito che la mia vita in Italia non era stata poi così facile. Mi appoggiai al suo petto, lasciandomi stringere. “Abbiamo prove anche oggi?” chiesi a un tratto, rovinando quel momento che, nonostante la dolcezza, mi stava facendo soffrire sempre di più. “Sì, fra un paio d’ore andiamo” rispose Jon, dando un’occhiata al piccolo orologio appeso al muro. Mi districai da quell’abbraccio e tornai in camera, seguita dal biondo. Ci lanciammo entrambi sul letto e fissammo il soffitto per un paio di minuti, fino a quando chiesi: “Abbiamo intenzione di guardare il soffitto fino alle tre?”
“Se non hai idee migliori…” Ripiombò il silenzio, che io interruppi di nuovo.
“A quindici anni comprai la mia prima chitarra. Cercai qualcuno che potesse insegnarmi a suonarla e così conobbi Edo. Gli serviva qualche soldo e accettò volentier di diventare il mio maestro. Non solo era bravissimo a suonare, ma aveva anche una voce meravigliosa. Roca, bassa, perfetta. Col tempo mi scoprii davvero brava con la chitarra, ‘un talento’ mi definiva il migliore amico di Edo, che intanto era diventato il mio ragazzo. Decidemmo di formare una band, così, per provare. La musica era la nostra vita. Non so se vivevamo per suonare o suonavamo per vivere. Un po’ tutte e due le cose. Così nacquero i Seventh: io, Edo, Santi, la Fefè e Dam. Nomi d’arte un po’ stupidi”
“No, fanno effetto” commentò Jon, che continuava a guardare il soffitto. Fissai dolcemente il suo profilo per poi continuare.
“Suonavamo in un locale vicino a casa, si chiamava Giselle. La gente ormai si era affezionata a noi, ogni volta che salivamo sul palco era un boato. Una sera un tipo ci informò che nel locale c’era un produttore discografico, così sfruttammo l’occasione e gli chiedemmo di incidere. Lui acconsentì; ci costò parecchio, ma quel disco ci diede una certa notorietà in Italia. Ci stavamo facendo un nome. Ci affibbiarono addirittura un manager, non so perché. Fatto sta che quello non ci mollò mai, ci diceva cosa fare per migliorare e faceva sempre centro. A parte l’ultima proposta. Ci propose di essere più trasgressivi. Secondo lui eravamo troppo bravi, dovevamo sembrare cattivi. Ci citava sempre come esempio i Guns. I Guns di qua, i Guns di là, i Guns hanno fatto questo, i Guns hanno fatto quello. ‘I Guns si drogavano’ disse un giorno ‘È così che si diventa davvero cattivi’. Ci fidammo ciecamente di quel manager, e quello fu un grande passo falso. Per i primi tempi funzionò, le canzoni erano belle. Parlavamo spesso dell’Heaven, il posto che raggiungevamo quando eravamo fatti. Poi, però, la situazione andò a puttane. I miei genitori morirono in un incidente a causa di un ubriaco, seguiti qualche mese dopo da Edo, ucciso dalla droga, quella droga che doveva farci diventare tanto famosi. I Seventh si sciolsero, forse per paura, forse perché la colonna portante del gruppo se n’era andata. Solo io e Fefè restammo unite, ma non prendemmo più in mano la chitarra. Dopo circa un anno le proposi di ricominciare tutto da capo e venire qui in America, suonare di nuovo, anche solo per divertimento. Lei non ne volle sapere. Chiesi agli altri Seventh, ma ormai quel gruppo non c’era più. Così partii da sola, amareggiata, delusa. Ero l’unica che viveva ancora per la musica”
“E poi hai incontrato Richie” concluse Jon, che intanto si era girato prono e mi ascoltava interessato.    
“Richie mi ha salvata, in un certo senso. Visto che erano passati mesi e non succedeva niente qui a Perth Amboy, avevo ricominciato a drogarmi, giusto per movimentare un po’ la mia vita, giusto per rivedere l’Heaven. Richie mi tirò fuori da tutto quel casino in cui mi stavo mettendo, probabilmente senza accorgersene. E adesso in quel casino l’ho messo io”
“Tranquilla, gli parlo io. Non succederà niente” mi rassicurò Jon, dandomi un bacio sulla guancia. Gli sorrisi timidamente. Era dannatamente bello. “Ci piacevano anche i Bon Jovi, sai?” dissi, smorzando la tristezza che si stava accumulando dentro di me e portando la mia mente verso i ricordi più belli.
“Ah, sì?”
“…te l’ho detto, Always è stata la prima canzone che ho strimpellato con la chitarra elettrica. Ogni tanto la cantavo, ma solo quando ero sola, meglio non sconvolgere troppe persone” risi, ripensando ai miei acuti assurdi e inascoltabili.
“Mi piacerebbe sentirti cantare” disse Jon, alzandosi: ormai era ora di andare.
“Le cover degli Aerosmith sono le migliori, fidati” scherzai: la voce di Steven Tyler è una cosa che non si può imitare.
 
Arrivammo in sala di registrazione in ritardo: Jon partì solo dopo avermi sentita cantare. Maltrattai What could have been love finchè neppure il biondo non ne potè più e girò la chiave, dirigendosi verso Palm Spring road.
I ragazzi erano già dentro all’edificio bianco, strimpellando qualcosa in attesa del nostro arrivo. Nel vederci entrare insieme, Richie fece una faccia perplessa; Jon lo rassicurò con un gesto della mano. Le prove filarono lisce, a parte quando David disse: “Non ho mai sentito Juju cantare”. Io e Jon ci guardammo e ridemmo. “Meglio che continui a cantare io” disse il cantante, chiudendo lì il discorso. Dopo un’ora e mezza passata a suonare, a cercare spartiti e a provare quella benedetta parte di Wild is the wind che ancora non riuscivo a fare, decidemmo di smetterla e tornare a casa. Fermai Richie poco prima che uscisse dalla stanza, chiedendogli se potevamo parlare. Un po’ sorpreso, accettò e si sedette comodo su una sedia. Io restai in piedi, pensando a come strutturare bene il discorso. “Senti, Richie…” cominciai timidamente “So che non è stata una bella cosa nei tuoi confronti baciare Jon, e ancora di più mentirti… ma magari possiamo dimenticare tutto, ricominciare da capo. Possiamo ancora essere amici, no?”
“La prima volta che ti ho sentita suonare ho detto che ti avrei sposata” rispose lui, lasciandomi basita “Vabbè, era un’esagerazione, ma il concetto era quello. Io non voglio essere tuo amico, io ogni volta che ti vedo mi faccio pensieri assurdi. Jon mi ha detto quello che è successo stanotte tra di voi. Lo accetto. Se ami più lui che me lo accetto. Però mi dispiacerà sempre” Non so se queste parole ferirono più me o lui.
“D’accordo” fu l’unica cosa che riuscii a mormorare, per poi dirigermi verso la porta antincendio. Mi fermai sull’uscio, indecisa se dire o no quello che avevo in mente. Alla fine lo dissi, tutto d’un fiato, senza neppure voltarmi. “Non sono sicura di amare più Jon che te comunque, è solo che nella rubrica la J viene prima della R” Poi me ne andai, lasciando Richie ai suoi pensieri, probabilmente incasinati quanto i miei.
 
Nota dell’autrice:
sciaooooooo, sono tornata. Stavate troppo bene senza di me, dovevo rompervi un po’. La situazione si sta incasinando sempre di più tra Juju e Richie, ma il tempo sbroglia tutte le matasse.
Credo che ci metterò un po’ ad aggiornare di nuovo, fa caldissimo e il mio piccolo cervellino riesce a lavorare solo in situazioni ottimali.
Bacioni, Euachkatzl <3
P.S.: so che la strofa di quella canzoncina dei Seventh fa pena, ma l’ho detto, il mio cervello non gira molto bene ultimamente ;)
  
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