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Autore: Leo    21/06/2013    1 recensioni
Silent Hill - 1997
Dio è morto. Sembra un trattato di filosofia, ma qui è successo per davvero. Dio è morto, l'ha ucciso lei. Lei, che ora non dovrà più nascondersi. Lei, che ora dovrà tornare a casa. Lei, che ora non ha più nessuno. Sembrava solo uno stupido gioco, fin'ora; ma tutto cambia quando torni a casa e ti accorgi che non era un sogno, che è davvero finita, la tua vita è finita. Già, Cheryl, come potrai vivere ora senza tuo padre che ti protegge?
Genere: Avventura, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cybil Bennet, Douglas Cartland, Harry Mason, Heather Mason
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Stava in silenzio da qualche minuto, ormai. All’improvviso le si era rotta la voce, era uscito un suono strozzato, poi più niente. Portò la mano alla bocca tenendo l’indice sotto le narici, che cacciavano aria con ritmo irregolare, in un gesto istintuale. Costringeva il suo corpo a trattenere le lacrime, ma gli occhi lucidi tradivano il suo tentativo di nascondere delle emozioni forti.

Cheryl la guardava in silenzio. Di quelle emozioni riusciva a coglierne solo una eco distorta, eppure bastava a farle capire quanto a fondo quella donna era legata al suo defunto padre. Quanto gli voleva bene.

Cybil prese un respiro profondo, ricacciando dentro ossigeno e lacrime, come se dall’aria fosse in grado di recuperare autocontrollo, calma e coraggio. Riaprì gli occhi, puntandoli direttamente verso la sua interlocutrice, fissandola a fondo, quasi a cercare qualcosa che potesse interessarle, o che potesse aiutarla, non sarebbe stata in grado di spiegarlo.

“Scusa”

Esordì con quella parola. Come se fosse un errore banale, come se fosse una cosa che non andava fatta. Come se non avesse diritto a provare quelle emozioni.

Cheryl non rispose. Non si mosse affatto, non ebbe reazioni apparenti. Si limitò a ricambiare quello sguardo con la stessa intensità. Sembrava volesse lasciar correre completamente quel momento, senza dargli importanza. Ma il suo cuore non era dello stesso avviso, e prese a battere freneticamente, ingrossandole il respiro e facendole provare delle strane sensazioni, come se improvvisamente il suo costato fosse divenuto completamente vuoto e la pelle elettrizzata, ruvida, fredda.

“…quando tornai a casa quel giorno trovai tutto ordinato. Tutto troppo ordinato. Nella stanza in cui dormivamo tutti e tre l’armadio era aperto, e tutto ciò che era rimasto erano i miei vestiti. Nelle altre stanze invece nulla era stato toccato, o forse fui io a non accorgermi di nulla, non saprei dirlo. Dopo qualche secondo da quando ero entrata in casa avevo già capito tutto, ma ci volle molto più tempo a convincermi che eravate andati via.”

Cheryl rimase interdetta.

“Quanto tempo?”

Che domanda stupida. Come l’era venuto in mente di chiedere una cosa simile?!

 

Stava seduta sul letto, completamente vestita, con le ginocchia raccolte sul petto. Erano già tre ore che non si muoveva e non parlava e non faceva niente se non stare ferma, seduta al centro del letto. Involontariamente le lacrime avevano rigato il suo volto scendendo fino agli angoli della bocca e al mento, bagnando anche il pantalone e la maglietta che aveva indosso. Ma non stava piangendo. Non nel senso comune almeno. Aveva solo lasciato che il suo corpo reagisse come meglio riteneva opportuno il cervello, centro di controllo di ogni molecola che circolava nelle vene, nei polmoni, nel cuore, nel fegato, nella trachea, ovunque nel suo corpo. E gli occhi arrossati avevano un evidente bisogno di idratazione. Ma Cybil non pensava affatto alle lacrime o al fatto che le sue braccia tremassero. Si era messa lì, ad aspettare. Non avrebbe cenato senza Harry e la piccola Cheryl. Quindi avrebbe atteso il loro ritorno. Perché era così, erano solo usciti a fare un giro. Già, Harry era chiuso in casa da troppo tempo per potersi rimettere in fretta, e aveva bisogno di aria fresca. Quindi era sceso portando con se la piccola per non lasciarla sola in casa. E i vestiti…non gli piacevano più, voleva comprare altri vestiti. Voleva rinnovare il suo guardaroba, si!

Era così. Se aspettava un altro po’ li avrebbe sentiti presto rientrare.

Forse era passato davanti al ristorante cinese e voleva prendere la cena da asporto.

Voleva farle una sorpresa così che non avrebbe dovuto cucinare anche quella sera.

Che stupido che era. A lei piaceva cucinare per lui e per quella piccola creatura. Faceva del suo meglio, anche se doveva ammettere che non sempre riusciva a preparare dei piatti prelibati.

Era così. Doveva essere così.

Per cui avrebbe aspettato. Avrebbe aspettato tutto il tempo, finché non avesse sentito la porta d’ingresso aprirsi con rumore sordo. Aspettò su quel letto tutta la notte. Invano.

Alle tre del mattino il suo cuore cominciò a sussultare più forte. I raggi lunari illuminavano a mala pena la stanza che si era tinta di un blu innaturale. Il buio permetteva agli oggetti di restituire solo quel colore. Il viso di Cybil era rimasto nell’ombra più totale, e tutta la sua figura si stagliava sul muro di fronte a lei, nitida in una zona chiara di luce che proveniva dalla finestra alle sue spalle.

La porta era rimasta aperta, ma tutto quello che entrava era il silenzio assoluto, rotto solo da un orologio che la ragazza non ricordava nemmeno di avere.

Gli occhi erano rimasti spalancati per tutto il tempo, non avrebbe saputo dire se aveva battuto le palpebre in tutto quel tempo o no. Ma avevano smesso di lacrimare e ora che il volto si era asciugato avvertiva fastidio alle guance, nei punti in cui le lacrime erano passate ed era rimasto solo il sale sulla pelle. Tirò su con il naso, sentendolo fastidiosamente ingombrato dai muchi, ma non fece altro. Continuò ad attendere, ad attendere che la sua mente accettasse la realtà. Si domandava perché, pensò a tutte le possibili risposte che le vorticavano in testa; molte di queste la vedevano come un ingombro, come un fastidio, come un qualcosa da cui scappare. Pensò che forse era andato via perché non era stato in grado di proteggerlo, e che quindi avrebbe continuato da solo. O forse che avrebbe dovuto stargli più vicino all’ospedale, invece di cercare informazioni sul colpevole, e di cercare un avvocato per il processo.

Pensò a lungo, e si rese quindi conto che la sua mente non era più sotto shock. A quel punto, presa di nuovo coscienza di sé stessa, sentì la debolezza assalirle la schiena, e si abbandonò completamente distesa sul letto. Chiuse gli occhi…

 

Quando li riaprì la luce nella stanza era strana, innaturale. Tutto era tinto di rosso, le pareti, il pavimento, il soffitto, come se fosse coperto di sangue. Si alzò a sedere sul letto, sentendo un fastidioso cigolare; anche le lenzuola erano bagnate dallo stesso colore, e le ombre, che prima apparivano come delle macchie blu su uno sfondo chiaro, ora si stagliavano nere sul muro e sul pavimento, ben definite, come se un’unica luce rossa puntasse insistentemente in una sola direzione.

Si voltò in ogni direzione. Notò che l’armadio era chiuso…eppure avrebbe giurato di averlo lasciato aperto.

Si alzò, e sentì la sua testa pesante, che le impediva di stare in piedi senza sentirsi girare come in una grossa centrifuga. Per questo si appoggiò al comodino.

…che strano! Sul comodino c’era la pistola!

Il cuore prese a batterle velocemente. Non le piaceva affatto ciò che stava vedendo. Costrinse sé stessa a riprendersi velocemente, e, con sforzo attutito dall’adrenalina, si rimise in piedi dirigendosi verso la porta aperta.

L’altra stanza era in condizioni peggiori.

Il sangue era schizzato ovunque, e tutti i mobili erano impregnati. Le pareti erano imbrattate e forate in alcuni punti, come se fosse avvenuta una sparatoria.

In un angolo vide un cavallo. Era uno di quei cavalli di plastica per le giostre, con tanto di asta che fuoriusciva dalla sella e dalla pancia. Ma coperto di sangue in quel modo sembrava vero. Ne scorse altri due poco lontani, uno al bordo di uno strano cerchio che sembrava fatto con un gesso nero, e che scorreva perfettamente circolare su tutta la stanza, incrociando il divano e il mobiletto con i liquori, di cui rimanevano solo cocci di vetro vuoti. Al centro del cerchio e della stanza, giaceva esanime un corpo. Il corpo di una donna, crivellato di colpi di pistola, riversa supina sul pavimento. Dalla sua bocca il liquido denso colava copiosamente, e i suoi occhi rossi erano rimasti aperti. Non riusciva a distinguere il colore dei capelli, ma la sua camicia doveva essere originariamente azzurra, nonostante le macchie e gli strappi distorcessero la visione.

C’era troppo sangue per essere quello di una persona sola.

Quel liquido aveva vestito completamente il corpo della donna, ed era colato lungo le gambe e sul pavimento come la stoffa di una gonna che si sparge candida al suolo.

D’un tratto sentì un suono. Il pianto sommesso di qualcuno. Dapprima era come un rumore debole, che si confondeva con il suo affanno, poi si era fatto sempre più intenso, e ora poteva sentirlo nitidamente. Era il pianto di un uomo, ma in quella stanza non c’era nessuno, a parte la figura pietrificata di Cybil e il cadavere sanguinolento.

Respirava a fatica ormai, e sentiva l’aria tutt’attorno farsi sempre più pesante da respirare. Quel pianto non accennava a diminuire, sembrava che la disperazione di quell’uomo non avesse più un limite. Come se gli fosse successo qualcosa di tremendo, o come se avesse fatto qualcosa di imperdonabile. Il lamento penetrava le sue orecchie con forza, ma per quanto si sforzasse di cercare, non ne trovava l’origine.

Poi, all’improvviso, tutto sparì ai suoi occhi. Il corpo, i cavalli di plastica, il sangue, il lamento, tutto sparì e lei rimase come appena risvegliata da un sogno.

Le pareti di quella stanza erano ancora tinte di rosso, ma si capiva che era l’effetto di un’alba particolarmente intensa.

Si guardò attorno ancora stupita. Ogni traccia di quell’incubo era sparita completamente…

 

“All’inizio non capivo quei sogni, quelle visioni. Erano scollegate in tutto, nelle ore, nei giorni, negli stati d’animo. L’unica cosa che le collegava sembrava essere Silent Hill e tutto ciò che avevamo vissuto in quell’inferno, ma Harry non mi aveva mai parlato di incubi simili. Solo più avanti ipotizzai che…”

Ma non finì la frase. I tonfi alla porta l’avevano interrotta, e avevano catturato l’attenzione delle due ragazze. Così Cheryl, svogliatamente, si alzò dalla sedia e andò ad aprire la porta.

Sulla soglia si presentò Douglas, con il suo impermeabile e un bastone su cui si appoggiava per non sforzare troppo la sua gamba malridotta.

Stava meglio, si vedeva dal viso e dal fatto che aveva ripreso a sorridere. Salutò Cheryl facendo attenzione a chiamarla col suo vero nome, e poi diresse lo sguardo in direzione di Cybil. Lei rispose sorridendo.

“Sono passato a vedere come state” disse con la sua voce roca ma meno strascicata di quando lui e Cybil si erano incontrati per la prima volta la mattina.

Cheryl aggrottò le sopracciglia.

“Cybil mi stava raccontando di quando io e papà ci siamo trasferiti” disse senza mezzi termini, con un tono di voce che trasmetteva quasi il fastidio per l’interruzione, nonostante le facesse piacere rivederlo.

Douglas sembrò quasi stupito. Con un gesto eloquente, guardò l’orologio che teneva al polso.

“Ma avete mangiato almeno?! Sono quasi le nove!”

“Le nove?!” Cybil fu stupita di sentire quelle parole. Tra una pausa e un’altra, e con tutto quello che c’era da dire l’intera giornata era passata. Non avvertiva la fame, nonostante non avesse mangiato nulla dalla mattina.

Si voltò a guardare fuori dalla finestra. Solo allora si accorse del leggero imbrunire, che d’estate era talmente lento da passare quasi inosservato. Un rossore pallido si intravedeva dietro ai palazzi che fronteggiavano l’edificio e la luna, piena per tre quarti, si affacciava timidamente dietro una piccola nuvola di passaggio.

“Accidenti, non mi ero resa conto che fosse passato tutto questo tempo. Mi meraviglio che tu non ti sia stancata a sentirmi parlare così a lungo!”

Improvvisamente, sembrava più allegra e spensierata. Il ché sembrava strano per una donna che fino a pochi secondi fa stava raccontando degli incubi che la tormentano e che le impedivano di dormire sonni tranquilli. Cheryl ne fu quasi irritata.

“Agente Car…oh, scusi! Douglas. Le andrebbe di scendere con Cheryl per prendere qualcosa da mangiare, mentre io metto un po’ in ordine?”

Quelle parole stupirono entrambi gli ascoltatori; forse per motivi differenti, ma entrambi furono colti di sorpresa. Ma prima che qualcuno potesse dire qualcosa, Cybil riprese a parlare.

“La prego Douglas…vorrei mettere a posto qui dentro…mi basterebbe mezz’ora”

Cheryl non seguì il discorso e pensava solo alla storia interrotta e al fatto che avrebbe dovuto lasciare una persona in casa sua a mettere a posto la stanza in cui suo padre era morto qualche giorno prima, ma Douglas riuscì a capire la sua vera richiesta. Così prese delicatamente per un braccio Cheryl e cercando di usare un tono rassicurante, tono non usato da troppo tempo, le disse:

“Ha ragione Cheryl. Non possiamo mangiare nel disordine, e mi aiuterai a portare le buste così eviterò di farle cadere.” e tirandola leggermente verso l’esterno dell’appartamento, nonostante la resistenza della ragazza, continuò “Potremmo mangiare italiano! C’è un posto a pochi isolati da qui, non c’è nemmeno bisogno di prendere l’auto!”

Lanciò un ultimo sguardo all’interno della stanza, mentre tirava a sé la porta. Poté intravedere Cybil che sorrideva con uno sguardo riconoscente, ma più malinconico. Poi il rumore sordo della serratura fece sparire tutto.

Cheryl tirò con forza il braccio costringendo Douglas a lasciarla.

“Ma che ti sei messo in testa?! Perché mi hai trascinato fuori? Io voglio sentire il resto della storia! Il cibo lo puoi portare da solo, tanto non ho fame!”

Cercò di sorpassarlo,  ma Douglas rimase davanti a lei.

“Cheryl” Tirò fuori una dolcezza nel tono di voce che non pensava di avere. “Lasciamola sola  per un po’.”

 

Cybil vide la porta chiudersi. Solo allora si accorse di quanto spesse erano le pareti. Non un suono giungeva alle sue orecchie, e sembrava che in quella casa tutto fosse completamente immobile, privo di vita. C’era talmente tanto silenzio che poteva sentire i battiti del suo cuore che aumentavano leggermente. Solo il rumore del vento giungeva alle sue orecchie dalla finestra aperta. L’ora era tarda, e tutti erano nelle proprie abitazioni a mangiare, guardare la televisione, giocare, studiare, fare cose normali.

La donna volse la testa. Cercò un punto specifico. Seguì nuovamente le gocce rossastre sul pavimento che percorrevano la stanza dal balcone alla poltrona.

Gli occhi le tremavano vistosamente, ma non c’era più nessuno che poteva vederli. Lasciò quindi che la tristezza coprisse il suo volto, aggrottandone la fronte e inumidendone gli occhi. Mosse qualche passo incerto. Poteva sentire l’odore del ferro aumentare man mano che si avvicinava.

Pose una mano sulla stoffa ruvida, e lentamente si affacciò oltre la spalliera. Quando l’azzurro delle sue iridi incrociò la crosta marrone maleodorante sul cuscino, le lacrime cominciarono a scendere copiosamente sul viso, e si abbandonò al pianto.

Non aveva avuto l’occasione per piangere, secondo lei. Stupido orgoglio! Non davanti agli altri. Così, anche quando aveva visto la terra calare sul suo corpo, si era trattenuta, e non aveva pianto l’uomo che le aveva salvato la vita. L’uomo di cui si era innamorata…

Si inginocchiò poggiando la testa sul bracciolo e continuando a singhiozzare.

Nella testa giravano tanti pensieri e ricordi, tanti “e se”, tanti progetti traditi, tante immagini, così tanto da darle l’impressione di avere la mente completamente svuotata. Sembrava che fossero rimasti solo lei e quella macchia di sangue putrefatto incrostata sul cuscino di una poltrona. Quell’ultimo odore pungente che era appartenuto a quell’uomo, che ora, semplicemente, non era più.

Poi sentì di nuovo il brivido alla schiena. Aveva imparato a riconoscerlo.

Così si asciugò le lacrime: neanche lei doveva vederla piangere

Avvertì il cambiamento nell’aria

Sorrise con rabbia

“Anche questo è colpa tua!”

 

 

  
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