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Autore: White Dreamer    21/06/2013    6 recensioni
Alla veneranda età di quattro anni, Sasuke aveva tre assolute certezze nella vita.
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I pomodori erano al primo posto nella piramide alimentare.
Fare finta di piangere era Il Modo per farsi perdonare qualsiasi cosa.
Itachi lo riteneva la persona più importante del mondo – e lui ci marciava.
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Cronologicamente antecedente a "Di clandestini sopra e sotto i letti".
Genere: Commedia, Fluff, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Itachi, Sasuke Uchiha
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
- Questa storia fa parte della serie 'Di Uchiha e domande scomode'
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Cronologicamente antecedente a "Di clandestini sopra e sotto i letti".






Alla veneranda  età di quattro anni, Sasuke aveva tre assolute certezze nella vita.

I pomodori erano al primo posto nella piramide alimentare.
Fare finta di piangere era Il Modo per farsi perdonare qualsiasi cosa.
Itachi lo riteneva la persona più importante del mondo – e lui ci marciava.
 
Suo fratello del resto era un tale provolone. Lo adorava, anche se faceva di tutto per nasconderlo. Ma lui non aveva bisogno di paroline dolci e baci alla francese – per quello c’era la mamma.
Il nii san gli voleva bene in un modo che lui neanche capiva.
Certe volte mentre giocava sul pavimento, lo scopriva a guardarlo, appoggiato sull’uscio della porta. In quella posizione chissà da quanto tempo. E lui sorrideva felice.
Andava da lui e gli chiedeva raggiante se voleva aiutarlo a sistemare i soldatini e Itachi borbottando un dissenso strascicato, se ne andava via. E lui tratteneva una risata, felice.
 
Quando s’intrufolava nel suo letto a notte fonda - dopo le classiche lamentele che innalzava come difesa – lo stringeva al suo petto caldo e affondava una mano nei suoi capelli. “Ti voglio bene nii san”. E lui con un sussurro rispondeva “Anch’io otouto”.
E lui ci credeva. Perché il fratellone si curava di lui in mille modi. Ricordando alla mamma di comprare i pomodori che stavano finendo.

Lo copriva bene prima di uscire a giocare sulla neve. Lo prendeva sulle spalle quando percorrevano una strada affollata.
Si - era la sua persona speciale. Per lui era lo stesso.
 
 
Per questo motivo, quando Itachi invitò una sua compagna d’accademia a casa, le sue certezze vacillarono.
Si allenarono per tutto il pomeriggio, nel piazzale dietro casa.
Seguì l’addestramento nascosto dietro un cespuglio.
 
La brunetta fu battuta ogni volta – il suo fratellone era il ninja più forte di tutti - ma lui continuò a incitarla e a sorriderle.
Un magone alla base della gola si formò ben presto.
Non si era mai allenato con lui in quel modo. Sua madre riteneva che fosse ancora troppo piccolo e gli shuriken non erano giocattoli.
Non aveva mai fatto particolare pressione a riguardo, non gli era mai importato granché. Quando però osservò quei due, il desiderio di confrontarsi col fratello divenne dirompente. Voleva che lo guardasse dopo due ore di allenamento e gli dicesse che era fiero di lui.
Tirò su col naso. Il cielo si stava ormai tingendo di rosso. La mamma probabilmente si stava chiedendo dov’era finito.
S’incamminò mogio verso casa. Non era mai stato così triste in vita sua.
 
 
Quella sera c’era lo stufato. Solitamente innalzava una battaglia per trangugiare anche solo metà di quella brodaglia, finché la voce ammonitrice del padre non lo faceva desistere.
Sospirò. Aveva lo stomaco così chiuso quel giorno che non sarebbe riuscito a mangiare neanche pomodori ripieni.
Tuttavia non si lamentò. Tenne gli occhi sul piatto tutto il tempo. Ogni cucchiaiata che buttava giù era una sofferenza, ma non era peggio di come si sentiva.
Dopo diverse domande insistenti di Mikoto, che voleva una spiegazione al suo strano comportamento, rispose “Ho mal di pancia”, spingendo il piatto pressoché finito al centro del tavolo.
Lei materna si alzò e lo prese in braccio. “Andiamo a letto allora”.
Nascose la fronte tra quelle spalle delicate, deglutendo a fatica.
Era da quella mattina che non incontrava lo sguardo di Itachi.
 
 
Non chiese nemmeno la favola della buona notte. Le sue storie preferite erano quelle del nii san e anche quando era la mamma a metterlo a letto lui faceva sempre il suo nome, nella speranza che trovasse qualche minuto da dedicargli.
Quella sera non disse niente. Sprofondò la testa nel cuscino e fece finta di addormentarsi sotto la ninna nanna melodiosa di lei.
Quando se ne andò, lasciando la luce fievole della lampada accesa, i suoi pensieri presero a vagare lontani.
Ben presto cominciò a muoversi annoiato sul materasso, non sarebbe riuscito a dormire.
Dei passi lenti nel corridoio lo fecero immobilizzare. Quando la maniglia della porta si abbassò, chiuse gli occhi di scatto, provando a respirare lentamente.
Lo sentì avvicinarsi e sedersi sul materasso. Non poteva essere che lui. Si stupì di conoscerlo talmente bene che riusciva a percepire la sua presenza anche senza l’uso della vista.
Si stese sul letto e prese a passargli delicatamente una mano fra i capelli.
Si sentì felice, nonostante tutto. In fondo ricercava quell’attenzione fisica di continuo, sebbene apprezzasse di più il suo approccio da fratello maggiore.
Stava quasi per mugolare di soddisfazione, dimenticandosi per un momento della sua rabbia.
 
Dopo diversi minuti, lasciò la presa e rialzandosi, si ritirò per la notte.
Fece un lungo sospiro. Qualche ora poteva dormire in fondo.
 
 
 
 

La mattina successiva, i pensieri negativi tornarono violenti.
Era in grado di rimanere arrabbiato per giorni se voleva. Era permaloso a livelli stellari.
Tutto il contrario di Itachi in effetti. Anche se gli faceva perdere la pazienza, bastava qualche ora per tornare a essere lo stesso.
Scese dal letto con uno sbuffo. Era sabato. Questo voleva dire Itachi tutto per sé. Lui solitamente idolatrava il weekend. Si attacca come carta moschicida al maggiore seguendolo dappertutto, anche se lui protestava annoiato.
 
Si guardò la punta dei piedi. Quel giorno sarebbe stato diverso. Non se la sentiva di infilarsi nel suo letto alle sette del mattino – come invece era solito fare.
Sgambettò fino alla cucina silenziosa, dovevano ancora essere tutti addormentati.
Nicchiò incerto, camminando tra gli elettrodomestici. Ci voleva del latte.
Guardò allora il Signor Frigorifero con aria severa. Sebbene ci provasse con tutte le sue forze, non aveva ancora abbastanza forza per aprire quell’aggeggio infernale.
Era suo fratello che, con sguardo divertito, si occupava dei suoi spuntini giornalieri. Accidenti, mica era colpa sua se era altoquanto uno gnomo.
 
“Che stai facendo otouto?”. Quella voce familiare lo fece girare, mentre continuava a tirare la maniglia, ostinato.
Sbuffò lagnoso. “Stavo prendendo da mangiare”. Puntò i piedi a terra, tirando con tutte le sue forze, purtroppo senza risultati.
Lo spettatore si avvicinò condiscendente. “Sta fermo pulce, ti romperai qualche vertebra”.
“Verte-che?”. Lo guardò stralunato. Venne  preso in braccio e poggiato al bancone.
Continuò paziente “Che vogliamo per colazione?”. Sorrise, scompigliandogli i capelli.
Il minore lo allontanò stizzito. “Non sono un bambino piccolo, smettila di trattarmi come se lo fossi”.
Rispose saputo “Certamente, la tua aria da uomo vissuto ti farà ben presto entrare nel consiglio come elemento più anziano”. Aprì il frigorifero cacciando dentro la testa.
“Ho solo quattro anni!”.
Prese due yogurt alla fragola. “Visto? Ti puoi considerare ancora giovane -almeno finché non ti spunteranno le zampe di gallina”. Ridacchiò di gusto.
Lui che non aveva capito, sbuffò. “Nii san sei noioso”. Ma sorrise.
Stava per fare colazione con il suo fratellone, di sabato mattina, con a disposizione due giorni di svago. Voleva continuare a essere arrabbiato?
“Posso avere del latte?”.
Annuì e con gesti veloci gli offrì il bicchiere.
Prese a muovere le gambette ritmicamente. Aveva voglia di andare al mercato quella mattina. Potevano comprare qualcosa per la mamma, magari un bel nastro per capelli.
 Lo sorprese dicendo“Oggi devo uscire presto, perché non vai col papà al quartier generale? Sono sicuro che ne sarebbe contento”.

La notizia lo pietrificò “Cosa devi fare?”.
 “Allenare Mariko. Ricordi la ragazzina di ieri?”. Ticchettò le dita sul tavolo. “Sarò promosso a genin entro la fine dell’anno e il maestro Iruka mi ha dato questo incarico”.
 
Sasuke non lo ascoltava più. Si allenava con qualcuno. E quel qualcuno non era lui.
La notizia lo sormontò. Era davvero troppo. Strinse i pugni, sibilando “Allora è così”.
Itachi, che spensierato stava mangiando il suo yogurt, non si rendeva conto del disastro che stava per accadere. “Cosa otouto?”.
“Tu – tu la stai preferendo. Preferisci me a una femmina”. Digrignò i denti, gli stava per scoppiare il cervello.
Notando la voce arrabbiata del fratellino, si sbrigò a rettificare. “Ma che dici Sask’è? E’ un responsabilità affidatami da un maestro. Lo faccio perché è mio dovere”.
“No!”. Saltò a terra, rischiando di inciampare. “Se ti sta bene uscire con quella tizia fai pure. Ma non provare a rivolgermi la parola dopo!”.
Itachi lo guardò impanicato. “Non è come…”.
Io – io ti odio!”. Sputò fuori con rabbia. “Preferisci lei a me io – io ti odio nii san!”.
 
E corse. Corse via. Si fiondò in camera sua chiudendo la porta a chiave. Marciò verso il letto e si nascose sotto le coperte, in lacrime.
Non gli aveva mai detto una cosa del genere. Mai.
Per il semplice motivo che non la pensava. Ma lui ora aveva una nuova preferita e lo avrebbe lasciato indietro, sicuramente.
Singhiozzò tra le lenzuola.
 
 
Stette rintanato in camera per tutto il giorno. Sua madre preoccupata lo aveva chiamato diverse volte.
Lui l’aveva rassicurata, dicendogli che non aveva la febbre e il mal di pancia era passato, ma che davvero non se la sentiva di mangiare.
 
 
Verso le sei una leggera pioggerella incominciò a ticchettare sulla finestra. Uscì dal bocciolo di coperte in cui era nascosto.
Chissà se Itachi era tornato.
Aveva voglia di vederlo, di abbracciarlo.
Si, era un bambino incoerente e un gran casino, ma doveva assicurarsi che fosse tutto apposto.
Voleva dirgli che non lo odiava. E che gli voleva bene, più che ad ogni altro.
Uscì fuori e si avviò verso l’ingresso. Intravide sua madre armeggiare in cucina. Senza farsi notare tirò dritto.
Si mise le scarpe e uscì in strada.
Doveva trovarsi ai campi d’allenamento vicino all’accademia. Prese a correre, ignorando il tuono che gli martellò nell’orecchio.
 
 


 
(Pov Itachi)
 
Panico. Ecco cosa provò quando tornato a casa trovò sua madre in lacrime. Sasuke era sparito.
Il suo fratellino, quello scricciolo di quattro anni che non era ancora in grado di aprire il frigorifero senza il suo aiuto.
Se non fosse stato troppo sconvolto dalla notizia, si sarebbe messo a piangere.
Deglutì a vuoto. Se lo sentiva. Avrebbe dovuto starsene a casa e chiarire con lui. E invece aveva usato tutta la giornata ad allenare una ragazzina, male per giunta. Troppo preoccupato del comportamento di Sasuke.
 
Si fiondò fuori, mettendosi a correre a rotta di collo. Lo avrebbe ritrovato. Fosse stata l’ultima cosa che faceva.
 
 
E dopo un’ora, sotto la pioggia scrosciante, lo vide. Raggomitolato sotto un albero, al limite del campo 3.
Un’ onda di sollievo lo sommerse. Riprese a respirare, perché si, era stato in apnea tutto il tempo.
Corse verso di lui. Quando arrivò a pochi metri, alzò gli occhi. Erano gonfi, pieni di lacrime. Era fradicio dalla testa ai piedi e con un’espressione disperata.
“Nii san”. Singhiozzò, ma un lampo di meraviglia lo illuminò. “Sei qui”.
 
Si chinò d’istinto allargando le braccia, e Sasuke si precipitò nel suo abbraccio.
Lo strinse. Strinse quel corpicino a sè, affondando il naso tra i suoi capelli. Sapevano di pioggia, e di vento, e di lui.
La liberazione del peso che aveva nello stomaco era una sensazione così bella da non saperla descrivere.
“Nii san scusa”. Lo senti strusciare il naso sulla sua spalla. “Non volevo dirti quelle cose”.
Sospirò, finalmente in pace. “Non fa niente”. Lo strinse al petto. Più forte.
Cielo, era come essere a casa.
 
Si mosse impacciato.
Lo lasciò andare, riluttante. I loro occhi si incontrarono. Onice nell’onice.
“Non farlo più otouto. Mai più. Mi hai fatto morire di paura”.
Lui annuì, accennando un sorriso. “Promesso”. Afferrò la sua mano, guardandolo fiducioso.
 
Lo imitò. “Avanti pulce, torniamo a casa”. Lo prese in spalla e le sue braccine gli circondarono il collo.
Mentre seguiva la strada lastricata la sua voce esitante lo raggiunse. “Senti nii san. Potremmo – potremmo incominciare ad allenarci insieme?”.
Sorrise “E la mamma?”. Cavoli aveva una paresi facciale.
Ridacchiò. “Mica glielo diciamo”.
Annuì. Avrebbe voluto fermarsi e abbracciarlo di nuovo. Ma sotto quella pioggia battente non era una grande idea.
“Nii san lo sai una cosa?”. Piegò la testa per guardarlo. “Cosa?”.
Gonfiò il petto. “Quando sarò grande sarò molto più forte di te”.
 
Se gli avesse riso in faccia si sarebbe offeso a morte, quindi si trattenne. La sfacciataggine di quel piccoletto era infinita.
Sbuffò divertito, stringendo le gambe del minore ai fianchi.
La paresi facciale non voleva proprio andarsene. “Non vedo l’ora che accada otouto”.
Il fratello si animò. “Si, si vedrai. Diventerò fortissimo”.
 
E Itachi lo avrebbe fatto. Lo avrebbe guardato crescere.
E lo avrebbe protetto, sempre.

Questo significa essere fratello maggiore.
 
 




Angolo autrice
Si lo so, lo stile è diverso dalle altre. Doveva uscire qualcosa di comico, ma è saltata fuori sta cosa.
E’ perché oggi sono malinconica anch’io.
Comunque mica è finita male, è già un traguardo.


  
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