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Autore: Selfdestruction    22/06/2013    1 recensioni
"Con la pioggia che lavava via la mia vecchia vita e mi inumidiva le ossa con questa nuova morte, mi trascinavo, come il più classico dei fantasmi che si porta ancora dietro le catene dei rancori e dei rimpianti. Ero morto, ma dovevo avere ancora un cuore, perché avevo iniziato a seguirlo".
Frank si sveglia, ritrovandosi su un marciapiede di chissà quale città. Non ricorda nulla, non sa neppure il suo nome, sa solo di essere morto, morto la notte di Halloween. Quando si accorge dell'unica casa in fondo alla strada che ha ancora una luce accesa nel cuore della notte vi si avvicina. In quella stanza al primo piano troverà l'unica cosa che cambierà per sempre la sua sua vi... morte. Ma cosa c'è realmente dietro tutto questo? Perché nessuno sembra accorgersi della sua assenza? Qual è il mistero che nascondono i flash continui che gli annebbiano la mente quando meno se lo aspetta? Frank è mai stato vivo sul serio?
ps. ho cambiato il nome della storia, di solito li metto alla fine i titoli, ma questa volta sono stata costretta.
Era ASLEEP OR DEAD, ora è THIS MUST BE AN EMPTY DREAM.
Genere: Malinconico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Buondì! Mi piace dire buondì anche se sono le due e mezza di notte.
Mette... di buon umore!
Questa stramba autrice ha deciso di cambiare il titolo alla sua stramba
storia, già. 
Ho detto addio ad Asleep or Dead e ho dato il benvenuto a 
This Must Be An Empty Dream, *applausi*. Asleep or Dead non mi
suonava un granché bene come titolo di una storia e poi mi faceva ritornare
alle orecchie Famous Last Words ogni volta, ed è una cosa tragica
se ogni volta poi scoppio a piangere. *va un attimo a piangere in bagno*
Detto questo, spero di essere riuscita a schiarirvi un po' le idee con 
questo capitolo. Recensite se volete, così capisco cosa ne pensate.
Ora, a te che stai leggendo devo dire che: TI VOGLIO UN GRAN BENE E 
TI PORTERO' A BREVE UNA VASCHETTA DI GELATO! 
Spero di aggiornare presto, 
un bacio, 
SD.
 

4.

TAKING EVERY PIECE AS YOU WALK.



 You don’t know a thing about this life

And we are up for everything it takes
To prove we’re not the same as them
And we will wear our masks
Again out after dark
‘Cause we are up for everything it takes
 
And we are not the same
‘Cause we are not afraid
And we are not ashamed
 
And if you save my life
I’ll be the one who drives you home tonight
And if they ever let you down
I’ll be the one who drives you home tonight

And you don’t know a thing about this life
And you don’t know a thing about this life
And you don’t know a thing about this life
‘Cause you don’t know a thing about me
You don’t know a thing



 

- Tu dovresti lasciarmi stare! - mi sono divincolato dalla sua stretta e per poco non cadevo di nuovo a terra. La mia mente era ubriaca, stentava a reagire, a ragionare, a unire quei pensieri che non seguivano un filo logico. Stavo cercando di capire cos’era successo, ma davanti a me soltanto gli occhi di quel ragazzo triste continuavano a lampeggiare come fanali. 
Starai meglio. Doveva esserci riuscito a tirarmi su dal fondo di quel pozzo. Ricordavo il mio secondo flash, quello in cui la primavera mi riempiva gli occhi di amore e non più di amarezza. Stavo meglio, lì. E lui con me. Ci siamo raccolti a vicenda dai marciapiedi di questa città, ci siamo tirati fuori insieme dalla merda in cui eravamo immersi. Da quel mio ultimo flash fino a quella primavera erano passati due anni, quei flash non erano neppure in ordine cronologico. 
In pratica, mettendo insieme le poche cose di cui ero certo, io ero morto a causa di quel Michael che mi aveva strappato l’anima perché avevo disubbidito alla loro strana setta di maledetti di cui facevo parte perché ero nato la notte di Halloween. Ero stato un figlio del male. Ma, avevo fatto male? Anche io andavo in giro la notte di Halloween a succhiare via l’anima dei passanti che erano un po’ più interessanti? 
Tu sei soltanto uno che ha disubbidito, li hai traditi i tuoi fratelli, piccolo Frankie, anche se non sei mai stato un nostro simpatizzante, devo ammetterlo, ora ne paghi comunque le conseguenze.
Non ero stato un loro ‘simpatizzante’, dunque non amavo la loro compagnia e di certo devo aver odiato fare del male alla gente. Rabbrividivo al pensiero di far male a qualcuno da morto, figuriamoci da vivo. Chi ha sofferto conosce il peso del dolore e non cerca vendetta, ma solo di riparare al male causato da tutti gli altri ed io dovevo aver sofferto molto durante i miei piccoli vent‘anni.
Ho guardato Michael con aria indignata e con uno sguardo che aveva scritto sopra a caratteri cubitali VA’ VIA. Lo volevo lontano da me, volevo restare di nuovo solo, di nuovo e ancora di nuovo. I miei genitori mi avevano abbandonato in un cassonetto la notte di Halloween perché ero un maledetto e la mia vita era stata un contino passare dall’alcool alla droga, dalla siringa alla canna della bottiglia, dal marciapiede, all’asfalto. La mia era stata una vita di merda, gente. Ed è questo il destino delle persone buone d’altronde. Non si può pretendere di fare del bene e riceverne in cambio. Fare del bene e pretendere che tutti gli altri seguano il tuo esempio. Fare del bene e avere una vita serena. Fai il buono della situazione e la tua vita sarà una bellissima e completa… merda. È il principio dello scambio equivalente. Devo averlo sentito da qualche parte nella mia vita passata. Quella vita che volevo dannatamente riprendermi. 
Ho voltato le spalle al mostro dai capelli da vampiro e me ne sono andato, dove ancora non lo sapevo. Volevo solo andar via. Ho sentito le mie gambe accelerare mentre nuovi tuoni annunciavano un altro temporale, come quello della notte scorsa. Mi sono sentito quasi correre, lontano dalla mia vita di cui non ricordavo nulla. 
- Non puoi correre per sempre, Frank! - la sua voce era ormai lontana, ma la sentivo bene. Mi sbatteva contro le tempie nello stesso modo in cui lo stava iniziando a fare la pioggia. 
- Lui non si ricorda di te! - non doveva essersi mosso dal posto in cui era e non doveva nemmeno aver provato a rincorrermi, perché più mi allontanavo e più la sua voce era distante. Quelle parole però erano state lame che mi avevano infilzato lo stomaco, lo avevano afferrato e tirato fuori dal mio corpo, con violenza. Lui non si ricorda di te. Sapeva dove stavo andando prima ancora che me ne rendessi conto io stesso. Lui non si ricordava di me, lui non poteva vedere il mio volto, i miei occhi che lo imploravano di voltarsi un attimo, un solo attimo. Perché in quell’attimo avremmo potuto, entrambi, ricordare poi ogni cosa. Ero stanco di vedere la mia vita come spezzoni di un film, la mia vita a flash contorti, distorti e sfocati e se solo lui non fosse stato cieco, se solo Dio gli avesse permesso di vedere per un istante soltanto, avrei riavuto i miei ricordi, ne ero sicuro, avrei riavuto almeno il ricordo della mia vita e lui avrebbe riavuto la sua. 
A quel punto ho iniziato a correre, sotto la pioggia insistente, e sono andato a ripararmi in un vicolo stretto e buio, lontano dalle luci del lampi e lontano dalla casa del ragazzo degli occhi tristi. Non so perché non sono più andato da lui, quella sera. Forse perché lo credevo inutile. Rimanere a fissarlo per ore senza che lui potesse guardarmi. La trovavo una cosa invadente, non era giusto. Pensavo quanto vigliacco dovesse essere osservare qualcuno senza che lo sapesse mentre già meditavo di saltare in camera sua dalla sua finestra il giorno dopo. Davvero bravo Frank, i tuoi sensi di colpa da morto durano davvero molto. 
Mi sono rannicchiato a terra, stringendomi le gambe al petto e abbandonando la testa sulle ginocchia. La pioggia mi pioveva di nuovo sugli occhi. Almeno a lei piacevo, almeno lei non mi escludeva soltanto perché ero nato sbagliato. 
Sono stato lì, raggomitolato come un gatto, avvolto su me stesso come un riccio, ascoltando soltanto le gocce di pioggia sbattere sui cassonetti dell’immondizia e sull’asfalto. Quei cassonetti dove devo esserci stato anche io vent’anni fa. Chissà per quanto tempo dovevo essere stato lì dentro, a piangere istericamente come solo un bimbo appena messo al mondo può fare. Urlare fino a farmi mancare fiato e lacrime, senza ossigeno e senza luce. Quella era una cosa da morti, era da persone morte buttare un figlio nell’immondizia come spazzatura, come avanzi di una cena. Era una cosa da persone morte dentro. Non da persone vive. Chissà chi doveva avermi tirato fuori da lì, chi mi aveva cresciuto per tutta la mia infanzia e la mia adolescenza, come mi ero ritrovato a fare del marciapiede la mia casa e di una siringa nel braccio il mio sollievo.
La notte era passata lentamente ed io non avevo bisogno di dormire, sebbene mi sentissi stanco morto. Forse aveva ragione Michael, ero soltanto un fottutissimo sfaticato anche ora. 
I primi raggi di sole spuntavano dalle nuvole tornate bianche e ho sollevato piano la testa, socchiudendo gli occhi a causa della luce. Stavo diventando un vampiro, certo. Un dannato lo ero, mi mancavano solo i denti aguzzi e la sete di sangue. Del resto, l’eternità ce l’avevo. 
Non ricordo nemmeno per quanto tempo sono rimasto in quella posizione, immobile come soltanto un morto poteva stare. Il tempo mi passava attorno e quel piccolo vicolo buio era lontano da tutto il resto del mondo. Io ero lontano da tutto il resto del mondo. Appollottolato come un gomitolo, rimanevo a terra, mentre il sole si alzava in alto nel cielo, a mezzogiorno, mentre scaldava l’asfalto con il suo calore delle tre del pomeriggio e poi mentre spariva di nuovo dietro le montagne, ad ovest. Non so quanti giorni sono passati in questo modo, in agonia. Ad osservare continuamente gli stessi movimenti del sole. Basso all’alba, nel punto più alto a mezzogiorno, nel punto più caldo al pomeriggio e poi di nuovo basso al tramonto. Ed io mi sentivo come quel sole dell’alba e del tramonto. Basso. Aspettate, non credete sia autoironia. Non che io mi sentissi basso d’altezza, sebbene lo fossi. Ero basso perché non riuscivo ad alzarmi, al contrario di quel sole che il coraggio di tirarsi su lo trovava, ogni mattina. Era come se volessi morire un’altra volta, non trovavo motivazioni per continuare a vagare da bravo fantasma per le strade. Io e quel ragazzo dagli occhi tristi sapevamo cosa fare dell’eternità che sognavamo, insieme, ma di questa eternità, in cui ero solo e distrutto, cosa potevo farci?
Ho osservato il sole fare il suo solito giro giornaliero per non so quante volte. Due, tre, quattro, poi cinque, dieci. Ero morto e pure depresso. Morto, depresso e bagnato fradicio. 
Dai, conta le pecorelle, piccolo Frankie. Ho immaginato la voce di quel Michael accanto a me e sono rabbrividito al solo pensiero. Dovevano essere passate due o tre settimane, forse e nessuno si era fatto vedere. Ma chi avrebbe dovuto? Erano settimane intere che ero immobilizzato a terra, a stringermi le ginocchia come per proteggermi, perché sentivo che non c’era più nessuno a farlo, esattamente come nessuno c’era stato durante la mia vita, fino a quando quel ragazzo non mi aveva tirato su con le sue braccia esili, deboli, ma forti come gru. Ho stiracchiato le gambe, anche se non ne sentivo realmente bisogno e ho strizzato il lembo della maglietta. Ho messo le mani in tasca distrattamente, come un gesto automatico, dimenticandomi dei cioccolatini che erano ancora lì, come quella notte di Halloween in cui ero morto da maledetto e traditore. Li ho tirati fuori, tenendoli stretti nel pugno per non farli cadere a terra e poi li ho buttati a terra uno per uno, fino a quando in mano non mi è rimasto soltanto un bigliettino. Quel bigliettino che non avevo il coraggio di aprire. G. L’avevo trovata la mia G. solo che aveva lineamenti maschili e occhi belli da far star male. Di un colore così particolare, a momenti con sfumature olivastre e altri gialle. E capelli che sembrano essere disegnati apposta attorno al suo viso, in disordine, come i miei pensieri. La mia G. un po’ uomo mi amava ed io, dannazione, non lo ricordavo. Avevo soltanto poche sensazioni rimaste a farmi compagnia. 
Ho stretto il bigliettino nel pugno e mi sono alzato da quel fottuto angolino in cui avrei potuto morire ancora e ho ripreso in mano il coraggio. Volevo i miei ricordi? Volevo sapere dov’era finita la mia anima? Che cazzo stai a fare ancora immobile, allora? Riprenditelo quel tutto che ti hanno portato via. 
Il sole era alto nel cielo e asciugava i miei vestiti, mentre io iniziavo a camminare di nuovo verso la casa in fondo alla strada. Mi sono stropicciato gli occhi e mi sono sentito sorridere. Cosa ridi a fare, piccolo Frank? Li avrei fottuti di nuovo, quei bastardi. L’avrei ritrovata la mia anima e me la sarei ripresa e mi sarei ripreso quegli occhi tristi di quel ragazzo che, lo sapevo, lo sentivo, erano i miei. 
La casa sembrava vuota e di giorno sembrava essere ancora più alta. Con goffaggine ho iniziato ad arrampicarmici di nuovo, stando attendo ad infilare bene i piedi nelle fessure lasciate dai mattoni. Con la mano ho stretto il bordo del davanzale e mi sono tirato su con la forza delle braccia. Per mia fortuna la finestra la lasciava sempre aperta. Con i gomiti mi sono appoggiato sulla lastra di pietra e con le gambe mi sono aiutato a scavalcare il davanzale e ad entrare dentro la stanza. Solo che l’atterraggio non era andato come previsto e sono ruzzolato a terra, facendo non ricordo quante capriole su me stesso. Almeno non ero caduto centinaia di volte come la notte di chissà quante settimane fa. 
- Sono un idiota - mi sono detto, stirandomi i vestiti con le mani e passandomele poi tra i capelli, per sistemarli. 
Poi, mi sono guardato attorno. In qualche settimana quante cose possono cambiare nella vita di una persona? Quella stanza non era più la stessa e per un momento ho pensato di aver sbagliato casa. La scritta nera e grande era ancora lì, ma accanto ad essa se ne erano aggiunte altre, tante, troppe, forse. Migliaia di scritte tappezzavano le pareti e chiunque, morto o vivo, sarebbe rabbrividito vedendo quella disperazione scritta su solo quattro mura. 
Con mani tremanti e insicure aveva scarabocchiato ogni spazio libero con parole scritte male e di fretta. Mi sono avvicinato alle pareti, cercando di distinguere qualche frase. 
Un ‘Dov’è?’ era scritto in grande e in grassetto, seguito da mille altri ‘Dov’è?’ e da centinaia di ‘L’hai visto?’ ‘Cos’è l’eternità?’ ‘Lo sai che sono morto?’ ‘L’ho perso?’ ‘Cos’ho perso?’ ‘Chi sei?’ ‘Perché?’. E poi scarabocchi ovunque, come se si fosse divertito a consumare l’intero inchiostro del pennarello per sfogare la sua rabbia, oppure il suo vuoto, che a quanto vedevo, doveva essere immenso. 
Mi sono guardato attorno, non credendo ai miei occhi, a metà tra lo shock e l’incredulità. Cos’era successo nel tempo in cui ero restato a marcire in quel piccolo vicolo? I vestiti erano tutti a terra. Tazze di caffè rovesciante erano sulla scrivania, tappezzata di bigliettini su cui le stesse scritte comparivano ancora. Ho mosso alcuni passi nella stanza, quasi a non fare rumore, con cautela, avvicinandomi alla scrivania. Ho scostato quella miriade di fogli carichi di pazzia, li ho spostati, macchiandoli del caffè che era caduto non troppo tempo fa. C’erano anche disegni, lì. Persone ritratte soltanto di schiena, mai frontalmente, crepuscoli e alberi alti quanto palazzi. Cos’era successo a quel ragazzo dagli occhi tristi? E dov’era, ora? 
Un disegno aveva catturato la mia attenzione. Gee aveva disegnato un uomo rannicchiato su se stesso di cui ovviamente non si vedeva il volto. Le sue ali spezzate gli spuntavano dalla schiena curva e cosparsa di sangue. Quell’angelo era senza braccia e senza gambe e giaceva in un pozza di sangue. Ho lasciato cadere il foglio sulla scrivania, ancora shoccato. 
Ho continuato ancora a rovistare tra le sue cose, non per curiosità, ma soltanto con l’unico scopo di trovare un motivo per salvarlo, trovare qualcosa che mi aiutasse a salvarlo. 
Sotto la sedia della sua scrivania, c’era un diario nero, chiuso bene dall’elastico che lo stringeva. L’ho afferrato e prima di aprirlo ho sentito qualche senso di colpa farsi spazio nello stomaco. Questo non era giusto. Andava forse bene guardare i suoi disegni, guardare la sua pazzia in quelle frasi scritte frettolosamente, su post-it e pareti, ma un diario... Ho stretto tra le mani il diario nero e sono andato a sedermi sul pavimento, vicino la finestra, ancora combattuto. Aprirlo o non aprirlo? Questo era il dilemma. 
Al diavolo, voglio solo aiutarlo. E forse me l’ero detto soltanto per giustificarmi un po’. 
Ho tolto l’elastico che lo teneva chiuso e ho aperto la prima pagina. 
Bianca. 
Le seguenti erano state strappate, con violenza. Non erano rimasti soltanto i bordi, come quando chiunque strappa un foglio da un quaderno, ma mezze pagine. Come se la rabbia avesse reso ciechi i suoi occhi anche quella volta. 
Dopo metà diario fatto di pagine strappate, una scrittura piccola e familiare mi ha riempito gli occhi. La riconoscevo, conoscevo quella scrittura. Ho sfiorato la pagina con la punta delle dita e qualcosa, lo giuro, si è mosso dentro di me, insieme ai battiti di un cuore che doveva essere morto, ma che invece viveva e continuava a pulsare soltanto quando incontravo lo sguardo di quel ragazzo triste o soltanto quando qualcosa di familiare mi si ripresentava davanti agli occhi. Erano questi i pezzi della mia anima che stavo ritrovando?
 
- - - - 
 
Diario di Gerard. 
 
 
-  10 novembre. 
 
Pff, perché dovrei tenere un diario? Scrivere non serve a un cazzo, non quando hai questo cazzo di vuoto dentro. 
 
 
 
- 11 novembre.
 
Ciao, si inizia con un ciao quando si scrive su un diario? Ancora non ci credo di averlo ripreso in mano. E non so perché io stia scrivendo. Fanculo, magari la pagina la stacco, ciao. 
 
 
 
- 12 novembre.
 
…ho bisogno di sfogarmi, e non con la mia psichiatra che mi dice di scrivere un diario, non con un dannatissimo pezzo di carta. Ho bisogno di qualcuno, qualcuno che non so se possa esistere, se è esistito o esisterà mai. Qualcuno che sento di avere vicino ma che non trovo. E avere qualcuno vicino e non poterlo toccare è massacrante, diario. Ciao. 
 
 
 
- 12 novembre, sera.
 
Quella strizza cervelli mi ha ripetuto di nuovo quanto importante sia scrivere su un diario e bla bla bla. Lei e le sue fottutissime stronzate. Dottoressa, guarda come ti scrivo bene la parola VAFFANCULO. Hai ragione, scrivere aiuta. Ora che ti ho mandato a fanculo mi sento meglio.
 
 
 
- 13 novembre. 
 
VAFFANCULO, VUOTO.
 
 
 
- 14 novembre.
 
VAFFANCULO, RABBIA. 
 
 
 
- 15 novembre.
 
Vaffanculo, Gerard. 
 
 
 
- 16 novembre. 
 
Sì, ho una psichiatra, una di quelle con gli occhiali rossi che finiscono a punta e che continua a scrivere su quel suo stramaledettissimo taccuino stupido. Sono incazzato, incazzassimo. Non sono pazzo, ho solo qualcosa che mi manca. Non sono pazzo, tendo solo al suicidio. Grazie, rabbia, grazie per avermi dato la forza di scrivere.  
 
 
 
- 17 novembre.
 
Magari qualcosa di serio lo scrivo, magari. Magari domani. Magari mai. 
 
 
 
- 18 novembre.
 
Mi hanno mandato da una psichiatra perché quando mi svegliavo rimanevo quasi un’ora a fissare il vuoto, con lo sguardo di chi non esiste o non è mai esistito. Restavo fuori dal mondo per ore intere, agli occhi degli altri interminabili, per me inesistenti. Credono sia pazzo perché continuo a ripetere a chiunque se ha visto una persona che non conosco. Sì, vado dalla gente a dire ’scusa tu lo conosci, hai visto quello che… si chiama… non lo so, non mi ricordo com’è fatto… no non so di che colore ha i capelli… no, non lo conosco in verità…’. 
L’ho scritto su ogni angolo libero dei muri di camera mia, ho le pareti tappezzate da scritte come ‘Hai visto…?’ ‘Dov’è…?’. A quel punto i miei genitori hanno chiamato una psichiatra, nemmeno una psicologa e lei mi ha detto di scrivere su un diario quello che mi passa per la testa. Vuoi sapere che cazzo mi passa per la testa fottutissimo diario? Penso che qualcuno mi abbia strappato via la pelle, ecco cosa sento. Mi sento come se mi avessero strappato le gambe, come se mi avessero portato via qualcosa, una parte d’anima. Mi sento come se nemmeno io avessi un senso. Niente ha senso. Restituitemelo… Dov’è? Tu, diario, tu l’hai visto? E io… di cosa sto parlando? Forse pazzo lo sono davvero, o tendo solo al suicidio? 
 
- - - - 
 
Ho alzato gli occhi all’improvviso. Il suo nome era Gerard. Il mio cuore, dallo stato catatonico in cui era, stava iniziando di nuovo a battere veloce, dal nulla, quando urla esasperate sono venute dal piano di sotto. Ho sentito porte sbattersi e poi, senza che me ne accorgessi, passi leggeri e cauti si sono mossi nella stanza.
- Cazzo.

 
 
 



 

  
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