Arieccomi
con l’ennesima one-shot sui Tokio Hotel (e non le ho neanche
pubblicate tutte…).
Beh, credo che non ci sia molto da dire, a parte che i Tokio Hotel non
mi
appartengono (e ripeto PURTROPPO) e che i fatti qui descritti sono
frutto della
mia perversa e sadica fantasia. Inutile dirlo, ma io lo puntualizzo: NO
TWINCEST. In realtà, la parte che in questa fic conta
davvero è l’ultima, le
prime pagine sono un antefatto un po’ troppo lungo XD
Questa
storia è per il fratello che non ho avuto e di cui sento la
mancanza, e per le
persone che hanno saputo riempire questo vuoto: Valeria, Graziella,
Elisa e
Gabriella. E mi sembra strano fare un’altra dedica, ma penso
sia giusto…
Per
Fiorella: per tutto quello che abbiamo diviso, per il rapporto di
(così
credevo) sincera amicizia che abbiamo avuto e per tutto
l’affetto che
evidentemente non è bastato. Nel bene e nel male, per me sei
stata come una
sorella e il rapporto tra Bill e Tom che qui ho descritto lo sento
vicino
all’amicizia che c’è stata fra noi.
Fà conto che in questa storia io sia Tom e tu Bill. Ti ho
voluto bene.
Cry/Don’t
wanna be
alone
-
E che cavolo, Bill,
ti vuoi svegliare?! –
Solo
quella sonora imprecazione riuscì a far riscuotere Bill
dalla specie di trance
catatonico in cui sembrava essere caduto ormai da giorni. Ebbe un lieve
fremito
e guardò con espressione spenta il fratello in piedi davanti
a lui, con le mani
sui fianchi e in classica posa da boss.
- Eh? Che
c’è? – Anche la sua voce, di solito
squillante e melodica, sembrava diversa.
Troppo bassa e roca per i suoi standard.
- Oh,
almeno so che sei vivo. Sorvolando sul fatto che ormai la mia presenza
passa
del tutto inosservata, puoi illuminarmi con la tua onnipotenza e dirmi
che hai?
– Tom batteva ritmicamente il piede a terra: brutto segno. Ma
Bill non se
accorse minimamente. Quel comportamento assurdo non mancava mai di
mandare Tom
fuori dai gangheri.
- Niente.
Ho solo un fratello rompipalle che non concepisce il concetto di
stanchezza,
ecco cosa ho. – rispose l’altro con noncuranza,
giocherellando senza entusiasmo
con una matita e mantenendo lo sguardo fisso sulle proprie mani. Tom
alzò gli occhi
al cielo e sospirò.
- Stanco
di non fare niente, certo. Ma scusa, hai dieci giorni di
libertà, goditeli! –
Effettivamente, capitava di rado che i componenti dei Tokio Hotel
fossero
liberi da qualsiasi impegno per un periodo così lungo. I due
gemelli ne avevano
approfittato per passare qualche giorno a casa dei genitori, ma
l’unico
entusiasta della situazione sembrava essere Tom. Bill si era rifiutato
categoricamente e apparentemente senza motivo di mettere il naso fuori.
- Eh, va
bene, mi sto riposando! – ribatté, chiaramente
scocciato e con una punta di indolenza
nella voce. –
Non che ne abbia bisogno,
visto l’ultimo concerto. – aggiunse poi, sbuffando
a gettando via la matita.
Tom scosse pensosamente la testa: Bill non era quasi mai di cattivo
umore, e
quelle poche volte che succedeva non arrivava mai a chiudersi in casa
tutto il
santo giorno senza parlare con nessuno.
- Ancora
ci stai pensando? Va bene, abbiamo fatto schifo, ma ciò non
toglie che… -
- Non avete fatto schifo. Ho fatto schifo.
– replicò
seccamente Bill, prima di lasciarsi andare a un violento attacco di
tosse. Tom
attese pazientemente che smettesse, ma, dato che questo si protraeva
più del
normale, si affrettò a rassicurare il fratello:
- Ok, ok,
scusa. Può capitare. Non c’è bisogno
che ti sconvolgi così! – aggiunse
scherzosamente. Ma lo sguardo che Bill gli rivolse in risposta era
tutt’altro
che allegro: lo guardò con gli occhi pieni di lacrime per il
troppo tossire, e
una strana sfumatura grigiastra a colorargli le guance.
- Non mi
sento bene. – gracchiò.
- Me n’ero
accorto. –
- Passerà.
–
- Non
sarebbe meglio farsi fare una bella visitina, visto che almeno per i
prossimi
tre mesi non avremo neanche il tempo di respirare? –
suggerì l’altro. Bill fu
colto da un brivido e guardò di sbieco il fratello,
stringendosi nella propria
felpa. – Non mi guardare così! E su, non farmi
fare il fratello apprensivo e
responsabile… - Tom cercò di sdrammatizzare, ma
non poté non ammettere a se
stesso che quella mattina, alla vista di Bill, gli era preso un colpo.
Sembrava
un fantasma. Unica differenza? Le unghie smaltate di nero. Se poi vi si
aggiungeva il fatto che da qualche giorno era apatico e scontroso oltre
l’immaginabile, beh, Tom non poteva fare altro che sperare
che passasse presto.
– Da quando abbiamo concluso la tournée non ti ho
più sentito cantare. Neanche
una volta. Il che è grave! –
- Come
vuoi che canti se ho voce un giorno sì e uno no?! –
Tom
detestava scontrarsi con suo fratello, ma in quel caso sembrava quasi
che Bill
gli offrisse sempre un nuovo pretesto per farlo.
Avevano
continuato così per quasi un’intera settimana, tra
bronci, litigi e sospiri,
poi Bill si era finalmente deciso. O meglio, si era lasciato infilare a
forza
in macchina dal gemello. Tanto, ormai, ogni sua reazione a qualsiasi
stimolo
esterno era anche troppo misurata.
- Vorrei
capire cosa diavolo ti distoglie dalla tua caccia alla groupie e ti
spinge a
ficcare il naso in cose che non ti riguardano! – stava ora
imprecando,
incatenato dalla cintura di sicurezza a uno dei sedili della Cadillac
di Tom. –
Poi non capisco perché devi per forza usare questo cavolo di
carro armato per
fare mezzo chilometro! –
- Per
usare una sottile metafora… ce la tagli? – Tom
guidava tranquillo, lasciandosi
scivolare addosso le proteste del fratello, che tuttavia non mancavano
di
innervosirlo. – E smettila di fare lo scaricatore di porto
civilizzato… Se
proprio vuoi insultarmi, fallo, e non strillare come una gallina.
–
Bill lo
fissava con rabbia, gli occhi ridotti a fessure.
- Stà
certo che se non mi lasci un po’ in pace io… -
cominciò, ma fu bloccato
dall’ennesimo attacco di tosse. Continuò
così per cinque minuti buoni, e quando
cessò era bianco come un cencio.
Tom gli
lanciò un’occhiata preoccupata, sorvolando sul
tono con cui il fratello gli si
era rivolto.
Non era da
lui.
Non era
normale quello sguardo fisso e inespressivo.
- Bill… ma
stai tremando? – mormorò, posandogli una mano
sulla spalla. Il movimento era
appena percettibile, ma non ci voleva certo la laurea per capire che
qualcosa
non andava. Bill non rispose, si limitò a distogliere lo
sguardo. – Ohi… -
- Va… va
tutto bene, Tomi. Non ti preoccupare. –
No, non
andava tutto bene.
Non andava
affatto bene, e l’uomo anziano, in camice
bianco e dall’espressione
autoritaria seduto dall’altra parte della scrivania lo stava
appunto
confermando.
Tom sbatté
le palpebre, allibito. Doveva aver capito male. – Morbo
di…? –
- Basedow.
Suo fratello è affetto dal morbo di Basedow, e non da
adesso, sospetto. –
sentenziò il medico. L’ultima cosa che a Tom
interessava erano i termini
tecnici ma, qualunque cosa volesse dire quel Basedow, aveva un suono
minaccioso. Bill, da parte sua, non ebbe la minima reazione. Tom era
troppo in
ansia per prestargli attenzione, anche se il suo inconscio gli diceva
di portarlo
via e risparmiargli quanto stava per accadere. Il che non doveva essere
per
niente piacevole.
- Sì, va
bene, non c’interessa il nome. Cos’è?
Cosa fa? Come… come si cura? – Si può
curare?, avrebbe voluto chiedere, ma non ne ebbe il coraggio.
- E’ una malattia
della tiroide, ma che in un modo o nell’altro colpisce
l’intero organismo. Nel
caso di suo fratello, la tiroide produce una quantità di
ormoni troppo elevata.
– gli spiegò il medico, dato che il diretto
interessato se ne stava seduto in
silenzio e a testa bassa, senza dare alcun segno di vita.
- E questo
a cosa porta? – chiese Tom, ancora più spaesato.
Tutti quei paroloni non gli
dicevano assolutamente nulla, anzi, lo confondevano ancora di
più.
- I
sintomi più comuni sono instabilità emotiva,
tremori, insonnia, talvolta
notevoli perdite di peso e depressione. – Tom non
poté non rimanere
impressionato di fronte a quella che era la descrizione quasi perfetta
dello
stato di salute di Bill nelle ultime settimane.
Tuttavia,
qualcosa gli diceva che la faccenda non si sarebbe conclusa
così facilmente, e
che c’era ancora qualcosa da scoprire.
Per quanto
si odiasse per aver avuto ragione, dovette ascoltare il seguito del
discorso. –
Non si sa bene quale sia la causa, è una malattia quasi
sconosciuta. – proseguì
il dottore, con aria professionale. – Personalmente, non ho
mai incontrato
qualcuno che ne fosse affetto. Forse è dovuta
all’uso inappropriato di certi
farmaci, forse ad un’infezione trascurata. L’unico
rimedio possibile è
l’asportazione della tiroide, ma non posso garantire
successo. Comporterebbe
comunque qualche rischio. –
- Tipo? –
proseguì Tom, con una vaga sensazione di nausea. Mentre il
medico continuava a
snocciolare un sintomo dopo l’altro, si sentiva come se la
malattia avesse
colpito lui, e non Bill. D’altra parte, sembrava anche
notevolmente più
impaurito di lui.
- Tipo che
continui a non funzionare, o peggio. Dovrebbe assumere gli ormoni che
verrebbero a mancare. Ma se non procederemo con
l’asportazione… - E qui si
rivolse a Bill, benché quest’ultimo non sembrasse
prestargli attenzione in
alcun modo. – La malattia continuerà il suo corso,
e le sue condizioni
peggioreranno, non so neanch’io fino a che punto. Ma nel caso
lei acconsenta a
sottoporsi all’operazione, signor Kaulitz, è
indispensabile che lei interrompa
la sua… attività. –
Finalmente,
per la prima volta dall’inizio della visita, Bill
sembrò scuotersi. Le parole
del medico ebbero il potere si risvegliarlo dal torpore, anzi, fu come
se fosse
stato colpito pesantemente alle spalle. Lo fissò con
espressione vuota.
-
Interrompere? – Smarrito, seduto accanto a lui, Tom vide le
mani di Bill
aggrapparsi convulsamente ai braccioli della sedia nella quale era
sprofondato.
Chiuse gli occhi, sperando di non sentire le parole che lo avrebbero
distrutto.
Lo avrebbero
distrutto?
Era di
Bill che si stava parlando. La malattia era sua. Il pericolo era suo.
Tom si
sentì colpevolmente egoista nel chiedersi a chi il verdetto
che stava per
essere pronunciato avrebbe fatto più male.
- Sì,
insomma, è meglio che lei smetta di cantare. –
Ma quando
mai i miracoli si avveravano? A quelle parole, Bill trasalì,
poi chinò
nuovamente il capo, aggrottando le sopracciglia e portandosi una mano
alla
fronte come se fosse stato colpito da un forte mal di testa, o avesse
subito
una terribile sconfitta, un’ingiustizia.
E in fondo
questo era proprio ciò che stava accadendo.
- Come
“smettere di cantare”? Che vuol dire?! Per quanto?
– saltò su Tom, quasi
aggredendo il medico.
- Da
questo momento in poi, per sempre, direi. Le corde vocali sono le prime
a
essere danneggiate, anche in modo irreversibile. – Lo sguardo
di Tom vagò per
un attimo dal medico, pragmatico e professionale, a Bill, sconfitto e
sgomento,
poi scattò in piedi.
- Ma non…
non può essere! – boccheggiò,
sconvolto. Ora sì che si sentiva male… E
perché
Bill se ne stava lì senza reagire? Perché non si
scuoteva in nessun modo?
Perché quell’uomo sconosciuto si era permesso di
avanzare una simile ipotesi?
Perché lui si sentiva come se gli avessero fatto un torto?
In pratica,
quel medico stava prescrivendo la fine di una vita.
La vita di
Bill. Suo fratello.
Non
cantare più… gli suonava come qualcosa di
inconcepibile, completamente fuori
dal mondo.
- E’
l’unica soluzione possibile. Se non si procede con
l’asportazione, le condizioni
di suo fratello non faranno che peggiorare. E non potrebbe comunque
proseguire
il suo lavoro. – spiegò pazientemente il dottore.
Nel profondo del suo cuore,
Tom sentì di odiarlo ferocemente. Non era colpa sua, non era
stato lui ad
attaccare la malattia a Bill, non li stava prendendo in giro.
Poco
importava.
- Non
voglio. –
Tom fu
improvvisamente riportato con i piedi per terra
dall’intervento di Bill. Si
voltò a guardarlo, incredulo. Era seduto lì, con
le dita intrecciate in grembo
e le labbra strette. – Cos’hai detto? –
- Niente
asportazione. Niente operazione. Non voglio fare niente di tutto
questo. –
proseguì risoluto.
In
effetti, quello era il suo primo moto di vita dopo la scarica di
proteste
rovesciate addosso al fratello al momento di recarsi dal medico, ma Tom
era
troppo stupito dalle sue parole per esserne contento.
- Bill!
Cosa… che dici? Non hai sentito? Se non lo fai, la malattia
peggiorerà! E tu… -
- E io
dovrei comunque smettere di cantare. Appunto. Per me è la
stessa cosa… malattia
o no, non potrò più farlo. – A quel
punto si rivolse al medico, anche lui
incredulo. – Tanto sono io l’appestato, no? Sono io
che devo decidere. Quindi
decido di non operarmi. Punto. –
- Bill… -
- Zitto,
Tom. – Bill lo guardò con astio, e Tom ebbe quasi
paura. Quello non era suo
fratello… - Ho deciso. Mi ci abituerò. E quando
finirà… tanto meglio. – Tom
rimase fermo a guardarlo, in piedi accanto a lui, totalmente
annichilito. Non
ci credeva. Non poteva, non voleva crederci.
- Può
pensarci per qualche giorno… - Il medico tentò
educatamente di convincerlo. –
Capisco che sia stato uno shock, ma… lei è
giovane, non mi sembra giusto che… -
- La vita
è mia, e decido io! – scattò
rabbiosamente Bill. Poi si alzò in piedi, prese la
giacca che aveva posato su uno dei braccioli della sedie e se la
infilò in
fretta. – Grazie di tutto. Andiamo, Tom… -
- Ma… -
- Andiamo!
–
Per la
prima volta in oltre vent’anni, Tom si scoprì
impaurito di fronte al fratello.
Impaurito
da un carattere che non gli apparteneva.
Impaurito
da una risoluzione che lo avrebbe portato alla fine…
Il
tragitto di ritorno era stato silenzioso, opprimente. A distanza di
settimane,
Tom lo ricordava ancora ne minimi dettagli. Il desiderio di prendere
Bill per
le spalle e scuoterlo violentemente, di urlargli in faccia
“Non puoi farlo!
Torna in te!”, l’istinto che si mescolava alla
ragione, una strana e
impertinente vocina che lo stuzzicava dicendogli
“E’ tuo fratello, ma non sei tu…
Lasciagli fare quello che vuole”…
Ci aveva
provato, a parlargli…
- Bill,
sei sicuro di sapere quello che fai? –
- Non sono
un bambino, Tom. –
- Lo so,
ma… no, davvero, secondo me tu non ti rendi conto.
– Alle sue parole, Bill gli
aveva rivolto uno sguardo che Tom non avrebbe mai più
dimenticato: diceva
“Aiutami… non lasciarmi
solo”… Anche se le parole erano in netto contrasto
con
quella richiesta.
- Di cosa?
Cosa, Tom? Mi rendo solo conto che è finita, e che
finirà comunque. Che senso
ha curarmi se poi non potrò più fare
l’unica cosa che per me importava davvero?
Io… io con la musica ci sono cresciuto… e
l’idea di abbandonare la mia vera
vita è insopportabile. Preferisco che… che tutto
finisca più in fretta. Non
voglio un’altra esistenza. Non sopporto il pensiero che
dovrei smettere di
comporre i miei testi e le mie musiche, che non viaggerò
più, che non salirò
più su un palco. –
- Ma puoi
farlo… potrai farlo! – aveva esclamato Tom in tono
supplichevole, afferrandolo
per le spalle e costringendolo a guardarlo negli occhi. –
Puoi viaggiare, puoi
continuare a comporre… -
Bill aveva
accennato un sorriso falsamente divertito.
- Per poi
farti suonare da solo? So che non lo faresti mai. – Tom aveva
chinato il capo,
non potendo non riconoscere la veridicità di quelle parole.
– Potrei ancora
viaggiare, dici… E per fare cosa? E’ vero, potrei
continuare a comporre, ma
dopo? Dopo mi odierei perché non me ne farei niente, di
testi e note. Cerca di
capirmi, Tom. Non posso condannarmi a tutto questo. –
- Ma non
puoi… Non puoi condannarti neanche alla depressione,
all’insonnia o
all’instabilità mentale, cazzo! – Bill
l’aveva guardato tristemente.
- Perché
fai così? –
- Perché
penso a tutto quello a cui rinunci. –
- Non
rinuncio a niente. Ci sono costretto. –
- Non è
vero! Va bene, non potrai più cantare, magari per un
po’ ti sentirai
incredibilmente idiota a girarti i pollici, ma poi… poi
vedrai che ti piacerà
startene tranquillo a casa tua, senza ragazze fuori di testa ad
aspettarti in
branco ad ogni angolo della città, senza doverti alzare alle
cinque del
mattino, senza stare mesi lontano da casa tua! – Le labbra di
Bill si erano
tese in un altro sorriso forzato.
- Sei un
gran bugiardo, lo sai? –
- Bill, ti
prego… -
- No, Tom,
non chiedermi nulla. Ed evita di guardarmi così, per favore,
che mi fai solo
star peggio! – aveva poi protestato, tornando a usare
quell’odioso tono
scostante e irritato.
- E’ per
questo che ti chiedo di reagire, dannazione! Non posso
vederti così! –
Ma quella
era stata praticamente la loro ultima vera conversazione. Non si poteva
mai
sapere come Bill si fosse svegliato un giorno, e non si poteva neanche
escludere che il suo umore mutasse repentinamente.
Non gli si
poteva dire nulla quando se ne stava per conto proprio, canticchiando
piano,
con voce sempre più debole. Nei primi tempi, quando Tom lo
vedeva così, sentiva
un impulso irrefrenabile di andare ad abbracciare suo fratello e
piangere per
lui. Ma, non appena muoveva i primi passi per avvicinarglisi, Bill gli
lanciava
un’occhiata fugace e poi gli voltava le spalle, cosa che
bastava a farlo
desistere.
Che poi
Bill gli permettesse di piangere per lui, era escluso. Lui stesso non
mostrava
mai la propria sofferenza, o perlomeno sembrava convinto di non
mostrarla. Tom
si trovava spesso a domandarsi per quale meccanismo Bill non esternasse
neanche
per sbaglio il dolore che si teneva intrappolato dentro.
Eppure era
così chiaro.
Taceva.
Cambiava umore ogni cinque minuti. Dimagriva. Continuava a tacere.
E ad ogni
parola evitata, Tom sentiva sempre meno la voglia di parlare con
qualcuno.
Ad ogni
chilo in meno nel corpo di Bill, Tom si sentiva sempre più
debole e stanco.
Ad ogni
tremore, Tom sentiva come un soffio di aria ghiacciata infrangersi sul
suo
viso.
Ma Bill
continuava a tacere. E così passavano le ore, i giorni, le
settimane…
Ogni
tanto, Tom provava a far finta che tutto quello non esistesse. Si
sedeva sul
letto, prendeva la sua chitarra e tirava un profondo sospiro. Le dita
cominciavano a muoversi e a pizzicare le corde, come avevano fatto
tante volte,
ma poi si bloccavano. Tom sospirava, e ci riprovava. Ma non ci riusciva.
Che
senso
ha?
Le note
prodotte dalla sua chitarra non avevano più alcun
significato, si erano
abituate ad essere accompagnate da una voce che aveva deciso di
spegnersi a
poco a poco. E allora Tom posava di nuovo la chitarra, ripensando a
quando
aveva telefonato a Georg e Gustav per comunicare che i Tokio Hotel non
esistevano più. Troppe domande, troppi dubbi, troppe parole
che lui non aveva
voglia di regalare.
- Bill non
può più cantare. – era stata
l’unica spiegazione. – Credo che sia meglio
finirla qui. –
Una telefonata.
Soltanto poche fredde parole. Poi aveva messo giù il
telefono e si era voltato,
pronto ad uscire, per una camminata senza meta come ormai era
d’abitudine
fare,e se l’era visto davanti. Bill era appoggiato allo
stipite della porta e
lo guardava fisso. Aggrappato alla maniglia, ormai ogni singola parte
del suo
corpo sembrava voler cedere. Tom si era bloccato a metà
corridoio, intimorito
di doversi scontrare con chissà quale reazione,
chissà quale scenata.
Ma gli
occhi di Bill non esprimevano più nulla. Assolutamente nulla.
In quegli
occhi nocciola, un tempo sempre contornati da un denso alone di trucco
nero, vi
era solo un vuoto, un immenso vuoto. E Tom avrebbe preferito mille
volte che
Bill gli si scagliasse addosso, urlandogli contro, picchiandolo,
magari. Invece
niente. Lo aveva guardato per qualche secondo, poi se n’era
andato, con un
impercettibile tremore a scuotergli le ginocchia.
Bill non
c’era più.
Non
c’erano più le sue risate squillanti, le sue
battute scherzose, i suoi testi
sparsi per casa, le sue mille scatole di prodotti per capelli seminate
per
tutto il bagno, i suoi vestiti originali e ricercati. Al suo posto
c’era solo un
ragazzo troppo pallido, troppo magro, troppo ingobbito, troppo
silenzioso.
C’era un bambino che ogni tanto la notte si svegliava
tossendo e tremando da
capo a piedi, troppo debole per protestare quando Tom si sedeva sul
bordo del
letto e cercava di tranquillizzarlo. C’era il fantasma di una
persona che se
n’era andata per propria scelta e che probabilmente non
sarebbe più tornata.
Tom
sospirò pesantemente, chiudendo la cerniera della custodia
della sua chitarra.
Quanto gli
mancava suo fratello…
Quanto gli
pesava la consapevolezza che non l’avrebbe più
ritrovato…
Si tirò su
dal letto e uscì dalla propria stanza. Si
affacciò cautamente in cucina, ma era
vuota. Idem per il soggiorno. Dove poteva essere Bill? Ah,
già… in camera sua.
Uno dei suoi abituali rifugi.
Tom si
accostò alla porta della camera e notò che questa
era socchiusa. Altro segno
della metamorfosi di Bill. In tempi normali, si rinchiudeva dentro e
chiudeva a
chiave per non essere disturbato. Evidentemente non gli importava
più neanche
di chi andava e veniva… Cercando di non perdersi in simili
considerazioni, Tom
spalancò di botto la porta. In altri tempi, si sarebbe
trovato in una camera
disordinata, in cui ogni oggetto stava dappertutto fuorché
al suo posto. Ora
invece c’era solo un letto con la coperta perfettamente
ripiegata, un armadio
chiuso, una scrivania quasi del tutto sgombra, e una piccola poltrona
incastrata in un angolo culla quale era seduto Bill. Al suo ingresso,
Bill alzò
impercettibilmente la testa verso il gemello. Non un cenno di
più. Tom si
avvicinò di qualche passo, lentamente, come sospeso.
Ormai non
cercava neanche più di sorridere di fronte a
Bill…
Quando fu
di fronte a lui, lo sguardo gli cadde sulle sue mani. Esitante, si
chinò verso
di lui, fino a inginocchiarsi sul pavimento, accanto alla poltrona, e
gli prese
le mani fra le proprie.
- Bill… le
tue… mani… -
Un tempo
eleganti e affusolate, le dita di Bill erano adesso poco più
che scheletriche,
di un pallore difficilmente immaginabile. Le nocche sporgevano in modo
allarmante e sui dorsi campeggiavano dei brutti solchi che lasciavano
vedere i
tendini in tensione. Tom rialzò lentamente la testa,
esterrefatto, fino a
incrociare lo sguardo di Bill. Anche il viso era pallido e scavato
oltre il
normale.
Solo in
quel momento Tom si rese conto di non aver mai guardato veramente
in
faccia Bill dal giorno della visita dal medico e della discussione.
- Soffri,
Tomi? – sussurrò Bill con quella che non sembrava
neanche più la sua voce. Tom
deglutì.
- Avevo
capito che tu volessi ucciderti, ma non pensavo che l’avresti
fatto così
presto… - mormorò.
Bill gli
rivolse uno sguardo quasi compassionevole, accompagnato da un
lievissimo
movimento delle labbra.
Sì,
Bill, soffro.
Perché
anche tu soffri ma ti illudi che nessuno l’abbia capito.
Urlalo
al mondo intero quanto stai male, fratellino!
No,
Bill non urlava. Non ne aveva più la forza, né la
voglia.
E questo Tom on riusciva a concepirlo. Se lui stesso aveva
così tanta
voglia di gridare, perché Bill non lo faceva? In fondo erano
uguali, loro due…
Nel cuore di Tom c’era tutta la silenziosa sofferenza di
Bill, tutto il dolore
che lui non esternava. Allora l’avrebbe fatto lui, per suo
fratello, la sua metà.
Lentamente, Tom chinò la testa, fino a toccare con la fronte
le
sue ginocchia. Chiuse gli occhi, si aggrappò a lui.
E pianse, in ginocchio sul freddo pavimento della stanza, nel silenzio
di una casa che stava per diventare troppo grande.
- Perché, Bill? Perché? –
singhiozzò, con il viso premuto sulle
ginocchia di Bill e le lacrime che gli inzuppavano i jeans. –
Piangi, Bill… Ti
prego, piangi… N-non stare sempre in silenzio… -
Ma Bill non versò una lacrima. Si limitò ad
accarezzare piano la testa del
fratello, in silenzio di fronte a lui. Gli sfiorò una mano
con la punta delle
dita.
E in quel momento Tom capì che quella sarebbe stata
l’ultima volta che
avrebbe pianto.
L’ultima volta che lo avrebbe fatto per qualcun altro.
L’ultima volta che Bill gliene avrebbe dato la
possibilità.
Perché dopo se ne sarebbe andato di nuovo.
Per sempre.