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Autore: Nike93    06/01/2008    6 recensioni
Cosa succede quando ci si vede finiti a vent'anni, quando quella che sembra essere l'unica ragione di vita scompare? Questo è ciò che succede a Bill, ma è qualcun altro a esternare a sofferenza che lui non riesce ad esprimere...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Arieccomi con l’ennesima one-shot sui Tokio Hotel (e non le ho neanche pubblicate tutte…). Beh, credo che non ci sia molto da dire, a parte che i Tokio Hotel non mi appartengono (e ripeto PURTROPPO) e che i fatti qui descritti sono frutto della mia perversa e sadica fantasia. Inutile dirlo, ma io lo puntualizzo: NO TWINCEST. In realtà, la parte che in questa fic conta davvero è l’ultima, le prime pagine sono un antefatto un po’ troppo lungo XD
Questa storia è per il fratello che non ho avuto e di cui sento la mancanza, e per le persone che hanno saputo riempire questo vuoto: Valeria, Graziella, Elisa e Gabriella. E mi sembra strano fare un’altra dedica, ma penso sia giusto…
Per Fiorella: per tutto quello che abbiamo diviso, per il rapporto di (così credevo) sincera amicizia che abbiamo avuto e per tutto l’affetto che evidentemente non è bastato. Nel bene e nel male, per me sei stata come una sorella e il rapporto tra Bill e Tom che qui ho descritto lo sento vicino all’amicizia che c’è stata fra noi. Fà conto che in questa storia io sia Tom e tu Bill. Ti ho voluto bene.

 
Cry/Don’t wanna be alone

 
- E che cavolo, Bill, ti vuoi svegliare?! –
Solo quella sonora imprecazione riuscì a far riscuotere Bill dalla specie di trance catatonico in cui sembrava essere caduto ormai da giorni. Ebbe un lieve fremito e guardò con espressione spenta il fratello in piedi davanti a lui, con le mani sui fianchi e in classica posa da boss.
- Eh? Che c’è? – Anche la sua voce, di solito squillante e melodica, sembrava diversa. Troppo bassa e roca per i suoi standard.
- Oh, almeno so che sei vivo. Sorvolando sul fatto che ormai la mia presenza passa del tutto inosservata, puoi illuminarmi con la tua onnipotenza e dirmi che hai? – Tom batteva ritmicamente il piede a terra: brutto segno. Ma Bill non se accorse minimamente. Quel comportamento assurdo non mancava mai di mandare Tom fuori dai gangheri.
- Niente. Ho solo un fratello rompipalle che non concepisce il concetto di stanchezza, ecco cosa ho. – rispose l’altro con noncuranza, giocherellando senza entusiasmo con una matita e mantenendo lo sguardo fisso sulle proprie mani. Tom alzò gli occhi al cielo e sospirò.
- Stanco di non fare niente, certo. Ma scusa, hai dieci giorni di libertà, goditeli! – Effettivamente, capitava di rado che i componenti dei Tokio Hotel fossero liberi da qualsiasi impegno per un periodo così lungo. I due gemelli ne avevano approfittato per passare qualche giorno a casa dei genitori, ma l’unico entusiasta della situazione sembrava essere Tom. Bill si era rifiutato categoricamente e apparentemente senza motivo di mettere il naso fuori.
- Eh, va bene, mi sto riposando! – ribatté, chiaramente scocciato e con una punta di indolenza nella voce.  – Non che ne abbia bisogno, visto l’ultimo concerto. – aggiunse poi, sbuffando a gettando via la matita. Tom scosse pensosamente la testa: Bill non era quasi mai di cattivo umore, e quelle poche volte che succedeva non arrivava mai a chiudersi in casa tutto il santo giorno senza parlare con nessuno.
- Ancora ci stai pensando? Va bene, abbiamo fatto schifo, ma ciò non toglie che… -
- Non avete fatto schifo. Ho fatto schifo. – replicò seccamente Bill, prima di lasciarsi andare a un violento attacco di tosse. Tom attese pazientemente che smettesse, ma, dato che questo si protraeva più del normale, si affrettò a rassicurare il fratello:
- Ok, ok, scusa. Può capitare. Non c’è bisogno che ti sconvolgi così! – aggiunse scherzosamente. Ma lo sguardo che Bill gli rivolse in risposta era tutt’altro che allegro: lo guardò con gli occhi pieni di lacrime per il troppo tossire, e una strana sfumatura grigiastra a colorargli le guance.
- Non mi sento bene. – gracchiò.
- Me n’ero accorto. –
- Passerà. –
- Non sarebbe meglio farsi fare una bella visitina, visto che almeno per i prossimi tre mesi non avremo neanche il tempo di respirare? – suggerì l’altro. Bill fu colto da un brivido e guardò di sbieco il fratello, stringendosi nella propria felpa. – Non mi guardare così! E su, non farmi fare il fratello apprensivo e responsabile… - Tom cercò di sdrammatizzare, ma non poté non ammettere a se stesso che quella mattina, alla vista di Bill, gli era preso un colpo. Sembrava un fantasma. Unica differenza? Le unghie smaltate di nero. Se poi vi si aggiungeva il fatto che da qualche giorno era apatico e scontroso oltre l’immaginabile, beh, Tom non poteva fare altro che sperare che passasse presto. – Da quando abbiamo concluso la tournée non ti ho più sentito cantare. Neanche una volta. Il che è grave! –
- Come vuoi che canti se ho voce un giorno sì e uno no?! –
Tom detestava scontrarsi con suo fratello, ma in quel caso sembrava quasi che Bill gli offrisse sempre un nuovo pretesto per farlo.
Avevano continuato così per quasi un’intera settimana, tra bronci, litigi e sospiri, poi Bill si era finalmente deciso. O meglio, si era lasciato infilare a forza in macchina dal gemello. Tanto, ormai, ogni sua reazione a qualsiasi stimolo esterno era anche troppo misurata.
- Vorrei capire cosa diavolo ti distoglie dalla tua caccia alla groupie e ti spinge a ficcare il naso in cose che non ti riguardano! – stava ora imprecando, incatenato dalla cintura di sicurezza a uno dei sedili della Cadillac di Tom. – Poi non capisco perché devi per forza usare questo cavolo di carro armato per fare mezzo chilometro! –
- Per usare una sottile metafora… ce la tagli? – Tom guidava tranquillo, lasciandosi scivolare addosso le proteste del fratello, che tuttavia non mancavano di innervosirlo. – E smettila di fare lo scaricatore di porto civilizzato… Se proprio vuoi insultarmi, fallo, e non strillare come una gallina. –
Bill lo fissava con rabbia, gli occhi ridotti a fessure.
- Stà certo che se non mi lasci un po’ in pace io… - cominciò, ma fu bloccato dall’ennesimo attacco di tosse. Continuò così per cinque minuti buoni, e quando cessò era bianco come un cencio.
Tom gli lanciò un’occhiata preoccupata, sorvolando sul tono con cui il fratello gli si era rivolto.
Non era da lui.
Non era normale quello sguardo fisso e inespressivo.
- Bill… ma stai tremando? – mormorò, posandogli una mano sulla spalla. Il movimento era appena percettibile, ma non ci voleva certo la laurea per capire che qualcosa non andava. Bill non rispose, si limitò a distogliere lo sguardo. – Ohi… -
- Va… va tutto bene, Tomi. Non ti preoccupare. –

 
No, non andava tutto bene.
Non andava affatto bene, e l’uomo anziano, in camice bianco e dall’espressione autoritaria seduto dall’altra parte della scrivania lo stava appunto confermando.
Tom sbatté le palpebre, allibito. Doveva aver capito male. – Morbo di…? –
- Basedow. Suo fratello è affetto dal morbo di Basedow, e non da adesso, sospetto. – sentenziò il medico. L’ultima cosa che a Tom interessava erano i termini tecnici ma, qualunque cosa volesse dire quel Basedow, aveva un suono minaccioso. Bill, da parte sua, non ebbe la minima reazione. Tom era troppo in ansia per prestargli attenzione, anche se il suo inconscio gli diceva di portarlo via e risparmiargli quanto stava per accadere. Il che non doveva essere per niente piacevole.
- Sì, va bene, non c’interessa il nome. Cos’è? Cosa fa? Come… come si cura? – Si può curare?, avrebbe voluto chiedere, ma non ne ebbe il coraggio.
- E’ una malattia della tiroide, ma che in un modo o nell’altro colpisce l’intero organismo. Nel caso di suo fratello, la tiroide produce una quantità di ormoni troppo elevata. – gli spiegò il medico, dato che il diretto interessato se ne stava seduto in silenzio e a testa bassa, senza dare alcun segno di vita.
- E questo a cosa porta? – chiese Tom, ancora più spaesato. Tutti quei paroloni non gli dicevano assolutamente nulla, anzi, lo confondevano ancora di più.
- I sintomi più comuni sono instabilità emotiva, tremori, insonnia, talvolta notevoli perdite di peso e depressione. – Tom non poté non rimanere impressionato di fronte a quella che era la descrizione quasi perfetta dello stato di salute di Bill nelle ultime settimane.
Tuttavia, qualcosa gli diceva che la faccenda non si sarebbe conclusa così facilmente, e che c’era ancora qualcosa da scoprire.
Per quanto si odiasse per aver avuto ragione, dovette ascoltare il seguito del discorso. – Non si sa bene quale sia la causa, è una malattia quasi sconosciuta. – proseguì il dottore, con aria professionale. – Personalmente, non ho mai incontrato qualcuno che ne fosse affetto. Forse è dovuta all’uso inappropriato di certi farmaci, forse ad un’infezione trascurata. L’unico rimedio possibile è l’asportazione della tiroide, ma non posso garantire successo. Comporterebbe comunque qualche rischio. –
- Tipo? – proseguì Tom, con una vaga sensazione di nausea. Mentre il medico continuava a snocciolare un sintomo dopo l’altro, si sentiva come se la malattia avesse colpito lui, e non Bill. D’altra parte, sembrava anche notevolmente più impaurito di lui.
- Tipo che continui a non funzionare, o peggio. Dovrebbe assumere gli ormoni che verrebbero a mancare. Ma se non procederemo con l’asportazione… - E qui si rivolse a Bill, benché quest’ultimo non sembrasse prestargli attenzione in alcun modo. – La malattia continuerà il suo corso, e le sue condizioni peggioreranno, non so neanch’io fino a che punto. Ma nel caso lei acconsenta a sottoporsi all’operazione, signor Kaulitz, è indispensabile che lei interrompa la sua… attività. –
Finalmente, per la prima volta dall’inizio della visita, Bill sembrò scuotersi. Le parole del medico ebbero il potere si risvegliarlo dal torpore, anzi, fu come se fosse stato colpito pesantemente alle spalle. Lo fissò con espressione vuota.
- Interrompere? – Smarrito, seduto accanto a lui, Tom vide le mani di Bill aggrapparsi convulsamente ai braccioli della sedia nella quale era sprofondato. Chiuse gli occhi, sperando di non sentire le parole che lo avrebbero distrutto.

Lo avrebbero distrutto?
Era di Bill che si stava parlando. La malattia era sua. Il pericolo era suo. Tom si sentì colpevolmente egoista nel chiedersi a chi il verdetto che stava per essere pronunciato avrebbe fatto più male.
- Sì, insomma, è meglio che lei smetta di cantare. –
Ma quando mai i miracoli si avveravano? A quelle parole, Bill trasalì, poi chinò nuovamente il capo, aggrottando le sopracciglia e portandosi una mano alla fronte come se fosse stato colpito da un forte mal di testa, o avesse subito una terribile sconfitta, un’ingiustizia.
E in fondo questo era proprio ciò che stava accadendo.
- Come “smettere di cantare”? Che vuol dire?! Per quanto? – saltò su Tom, quasi aggredendo il medico.
- Da questo momento in poi, per sempre, direi. Le corde vocali sono le prime a essere danneggiate, anche in modo irreversibile. – Lo sguardo di Tom vagò per un attimo dal medico, pragmatico e professionale, a Bill, sconfitto e sgomento, poi scattò in piedi.
- Ma non… non può essere! – boccheggiò, sconvolto. Ora sì che si sentiva male… E perché Bill se ne stava lì senza reagire? Perché non si scuoteva in nessun modo? Perché quell’uomo sconosciuto si era permesso di avanzare una simile ipotesi? Perché lui si sentiva come se gli avessero fatto un torto?
In pratica, quel medico stava prescrivendo la fine di una vita.
La vita di Bill. Suo fratello.
Non cantare più… gli suonava come qualcosa di inconcepibile, completamente fuori dal mondo.
- E’ l’unica soluzione possibile. Se non si procede con l’asportazione, le condizioni di suo fratello non faranno che peggiorare. E non potrebbe comunque proseguire il suo lavoro. – spiegò pazientemente il dottore. Nel profondo del suo cuore, Tom sentì di odiarlo ferocemente. Non era colpa sua, non era stato lui ad attaccare la malattia a Bill, non li stava prendendo in giro.
Poco importava.
- Non voglio. –
Tom fu improvvisamente riportato con i piedi per terra dall’intervento di Bill. Si voltò a guardarlo, incredulo. Era seduto lì, con le dita intrecciate in grembo e le labbra strette. – Cos’hai detto? –
- Niente asportazione. Niente operazione. Non voglio fare niente di tutto questo. – proseguì risoluto.
In effetti, quello era il suo primo moto di vita dopo la scarica di proteste rovesciate addosso al fratello al momento di recarsi dal medico, ma Tom era troppo stupito dalle sue parole per esserne contento.
- Bill! Cosa… che dici? Non hai sentito? Se non lo fai, la malattia peggiorerà! E tu… -
- E io dovrei comunque smettere di cantare. Appunto. Per me è la stessa cosa… malattia o no, non potrò più farlo. – A quel punto si rivolse al medico, anche lui incredulo. – Tanto sono io l’appestato, no? Sono io che devo decidere. Quindi decido di non operarmi. Punto. –
- Bill… -
- Zitto, Tom. – Bill lo guardò con astio, e Tom ebbe quasi paura. Quello non era suo fratello… - Ho deciso. Mi ci abituerò. E quando finirà… tanto meglio. – Tom rimase fermo a guardarlo, in piedi accanto a lui, totalmente annichilito. Non ci credeva. Non poteva, non voleva crederci.
- Può pensarci per qualche giorno… - Il medico tentò educatamente di convincerlo. – Capisco che sia stato uno shock, ma… lei è giovane, non mi sembra giusto che… -
- La vita è mia, e decido io! – scattò rabbiosamente Bill. Poi si alzò in piedi, prese la giacca che aveva posato su uno dei braccioli della sedie e se la infilò in fretta. – Grazie di tutto. Andiamo, Tom… -
- Ma… -
- Andiamo! –
Per la prima volta in oltre vent’anni, Tom si scoprì impaurito di fronte al fratello.
Impaurito da un carattere che non gli apparteneva.
Impaurito da una risoluzione che lo avrebbe portato alla fine…

 
Il tragitto di ritorno era stato silenzioso, opprimente. A distanza di settimane, Tom lo ricordava ancora ne minimi dettagli. Il desiderio di prendere Bill per le spalle e scuoterlo violentemente, di urlargli in faccia “Non puoi farlo! Torna in te!”, l’istinto che si mescolava alla ragione, una strana e impertinente vocina che lo stuzzicava dicendogli “E’ tuo fratello, ma non sei tu… Lasciagli fare quello che vuole”…
Ci aveva provato, a parlargli…
- Bill, sei sicuro di sapere quello che fai? –
- Non sono un bambino, Tom. –
- Lo so, ma… no, davvero, secondo me tu non ti rendi conto. – Alle sue parole, Bill gli aveva rivolto uno sguardo che Tom non avrebbe mai più dimenticato: diceva “Aiutami… non lasciarmi solo”… Anche se le parole erano in netto contrasto con quella richiesta.
- Di cosa? Cosa, Tom? Mi rendo solo conto che è finita, e che finirà comunque. Che senso ha curarmi se poi non potrò più fare l’unica cosa che per me importava davvero? Io… io con la musica ci sono cresciuto… e l’idea di abbandonare la mia vera vita è insopportabile. Preferisco che… che tutto finisca più in fretta. Non voglio un’altra esistenza. Non sopporto il pensiero che dovrei smettere di comporre i miei testi e le mie musiche, che non viaggerò più, che non salirò più su un palco. –
- Ma puoi farlo… potrai farlo! – aveva esclamato Tom in tono supplichevole, afferrandolo per le spalle e costringendolo a guardarlo negli occhi. – Puoi viaggiare, puoi continuare a comporre… -
Bill aveva accennato un sorriso falsamente divertito.
- Per poi farti suonare da solo? So che non lo faresti mai. – Tom aveva chinato il capo, non potendo non riconoscere la veridicità di quelle parole. – Potrei ancora viaggiare, dici… E per fare cosa? E’ vero, potrei continuare a comporre, ma dopo? Dopo mi odierei perché non me ne farei niente, di testi e note. Cerca di capirmi, Tom. Non posso condannarmi a tutto questo. –
- Ma non puoi… Non puoi condannarti neanche alla depressione, all’insonnia o all’instabilità mentale, cazzo! – Bill l’aveva guardato tristemente.
- Perché fai così? –
- Perché penso a tutto quello a cui rinunci. –
- Non rinuncio a niente. Ci sono costretto. –
- Non è vero! Va bene, non potrai più cantare, magari per un po’ ti sentirai incredibilmente idiota a girarti i pollici, ma poi… poi vedrai che ti piacerà startene tranquillo a casa tua, senza ragazze fuori di testa ad aspettarti in branco ad ogni angolo della città, senza doverti alzare alle cinque del mattino, senza stare mesi lontano da casa tua! – Le labbra di Bill si erano tese in un altro sorriso forzato.
- Sei un gran bugiardo, lo sai? –
- Bill, ti prego… -
- No, Tom, non chiedermi nulla. Ed evita di guardarmi così, per favore, che mi fai solo star peggio! – aveva poi protestato, tornando a usare quell’odioso tono scostante e irritato.
- E’ per questo che ti chiedo di reagire, dannazione! Non posso vederti così! –

 
Ma quella era stata praticamente la loro ultima vera conversazione. Non si poteva mai sapere come Bill si fosse svegliato un giorno, e non si poteva neanche escludere che il suo umore mutasse repentinamente.
Non gli si poteva dire nulla quando se ne stava per conto proprio, canticchiando piano, con voce sempre più debole. Nei primi tempi, quando Tom lo vedeva così, sentiva un impulso irrefrenabile di andare ad abbracciare suo fratello e piangere per lui. Ma, non appena muoveva i primi passi per avvicinarglisi, Bill gli lanciava un’occhiata fugace e poi gli voltava le spalle, cosa che bastava a farlo desistere.
Che poi Bill gli permettesse di piangere per lui, era escluso. Lui stesso non mostrava mai la propria sofferenza, o perlomeno sembrava convinto di non mostrarla. Tom si trovava spesso a domandarsi per quale meccanismo Bill non esternasse neanche per sbaglio il dolore che si teneva intrappolato dentro.
Eppure era così chiaro.
Taceva. Cambiava umore ogni cinque minuti. Dimagriva. Continuava a tacere.
E ad ogni parola evitata, Tom sentiva sempre meno la voglia di parlare con qualcuno.
Ad ogni chilo in meno nel corpo di Bill, Tom si sentiva sempre più debole e stanco.
Ad ogni tremore, Tom sentiva come un soffio di aria ghiacciata infrangersi sul suo viso.
Ma Bill continuava a tacere. E così passavano le ore, i giorni, le settimane…
Ogni tanto, Tom provava a far finta che tutto quello non esistesse. Si sedeva sul letto, prendeva la sua chitarra e tirava un profondo sospiro. Le dita cominciavano a muoversi e a pizzicare le corde, come avevano fatto tante volte, ma poi si bloccavano. Tom sospirava, e ci riprovava. Ma non ci riusciva.

Che senso ha?
Le note prodotte dalla sua chitarra non avevano più alcun significato, si erano abituate ad essere accompagnate da una voce che aveva deciso di spegnersi a poco a poco. E allora Tom posava di nuovo la chitarra, ripensando a quando aveva telefonato a Georg e Gustav per comunicare che i Tokio Hotel non esistevano più. Troppe domande, troppi dubbi, troppe parole che lui non aveva voglia di regalare.
- Bill non può più cantare. – era stata l’unica spiegazione. – Credo che sia meglio finirla qui. –
Una telefonata. Soltanto poche fredde parole. Poi aveva messo giù il telefono e si era voltato, pronto ad uscire, per una camminata senza meta come ormai era d’abitudine fare,e se l’era visto davanti. Bill era appoggiato allo stipite della porta e lo guardava fisso. Aggrappato alla maniglia, ormai ogni singola parte del suo corpo sembrava voler cedere. Tom si era bloccato a metà corridoio, intimorito di doversi scontrare con chissà quale reazione, chissà quale scenata.
Ma gli occhi di Bill non esprimevano più nulla. Assolutamente nulla.
In quegli occhi nocciola, un tempo sempre contornati da un denso alone di trucco nero, vi era solo un vuoto, un immenso vuoto. E Tom avrebbe preferito mille volte che Bill gli si scagliasse addosso, urlandogli contro, picchiandolo, magari. Invece niente. Lo aveva guardato per qualche secondo, poi se n’era andato, con un impercettibile tremore a scuotergli le ginocchia.
Bill non c’era più.
Non c’erano più le sue risate squillanti, le sue battute scherzose, i suoi testi sparsi per casa, le sue mille scatole di prodotti per capelli seminate per tutto il bagno, i suoi vestiti originali e ricercati. Al suo posto c’era solo un ragazzo troppo pallido, troppo magro, troppo ingobbito, troppo silenzioso. C’era un bambino che ogni tanto la notte si svegliava tossendo e tremando da capo a piedi, troppo debole per protestare quando Tom si sedeva sul bordo del letto e cercava di tranquillizzarlo. C’era il fantasma di una persona che se n’era andata per propria scelta e che probabilmente non sarebbe più tornata.
Tom sospirò pesantemente, chiudendo la cerniera della custodia della sua chitarra.
Quanto gli mancava suo fratello…
Quanto gli pesava la consapevolezza che non l’avrebbe più ritrovato…
Si tirò su dal letto e uscì dalla propria stanza. Si affacciò cautamente in cucina, ma era vuota. Idem per il soggiorno. Dove poteva essere Bill? Ah, già… in camera sua. Uno dei suoi abituali rifugi.
Tom si accostò alla porta della camera e notò che questa era socchiusa. Altro segno della metamorfosi di Bill. In tempi normali, si rinchiudeva dentro e chiudeva a chiave per non essere disturbato. Evidentemente non gli importava più neanche di chi andava e veniva… Cercando di non perdersi in simili considerazioni, Tom spalancò di botto la porta. In altri tempi, si sarebbe trovato in una camera disordinata, in cui ogni oggetto stava dappertutto fuorché al suo posto. Ora invece c’era solo un letto con la coperta perfettamente ripiegata, un armadio chiuso, una scrivania quasi del tutto sgombra, e una piccola poltrona incastrata in un angolo culla quale era seduto Bill. Al suo ingresso, Bill alzò impercettibilmente la testa verso il gemello. Non un cenno di più. Tom si avvicinò di qualche passo, lentamente, come sospeso.
Ormai non cercava neanche più di sorridere di fronte a Bill…
Quando fu di fronte a lui, lo sguardo gli cadde sulle sue mani. Esitante, si chinò verso di lui, fino a inginocchiarsi sul pavimento, accanto alla poltrona, e gli prese le mani fra le proprie.
- Bill… le tue… mani… -
Un tempo eleganti e affusolate, le dita di Bill erano adesso poco più che scheletriche, di un pallore difficilmente immaginabile. Le nocche sporgevano in modo allarmante e sui dorsi campeggiavano dei brutti solchi che lasciavano vedere i tendini in tensione. Tom rialzò lentamente la testa, esterrefatto, fino a incrociare lo sguardo di Bill. Anche il viso era pallido e scavato oltre il normale.
Solo in quel momento Tom si rese conto di non aver mai guardato veramente in faccia Bill dal giorno della visita dal medico e della discussione.
- Soffri, Tomi? – sussurrò Bill con quella che non sembrava neanche più la sua voce. Tom deglutì.
- Avevo capito che tu volessi ucciderti, ma non pensavo che l’avresti fatto così presto… - mormorò.
Bill gli rivolse uno sguardo quasi compassionevole, accompagnato da un lievissimo movimento delle labbra.

Sì, Bill, soffro.
Perché anche tu soffri ma ti illudi che nessuno l’abbia capito.
Urlalo al mondo intero quanto stai male, fratellino!

No, Bill non urlava. Non ne aveva più la forza, né la voglia.
E questo Tom on riusciva a concepirlo. Se lui stesso aveva così tanta voglia di gridare, perché Bill non lo faceva? In fondo erano uguali, loro due… Nel cuore di Tom c’era tutta la silenziosa sofferenza di Bill, tutto il dolore che lui non esternava. Allora l’avrebbe fatto lui, per suo fratello, la sua metà.
Lentamente, Tom chinò la testa, fino a toccare con la fronte le sue ginocchia. Chiuse gli occhi, si aggrappò a lui.
E pianse, in ginocchio sul freddo pavimento della stanza, nel silenzio di una casa che stava per diventare troppo grande.
- Perché, Bill? Perché? – singhiozzò, con il viso premuto sulle ginocchia di Bill e le lacrime che gli inzuppavano i jeans. – Piangi, Bill… Ti prego, piangi… N-non stare sempre in silenzio… -
Ma Bill non versò una lacrima. Si limitò ad accarezzare piano la testa del fratello, in silenzio di fronte a lui. Gli sfiorò una mano con la punta delle dita.
E in quel momento Tom capì che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe pianto.
L’ultima volta che lo avrebbe fatto per qualcun altro.
L’ultima volta che Bill gliene avrebbe dato la possibilità.
Perché dopo se ne sarebbe andato di nuovo.
Per sempre.

  
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