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Autore: The_Last_Change    23/06/2013    2 recensioni
Shot TakuRan -w- Mi scuso anticipatamente per l'OOC c:
Ranmaru guardò per un istante il suo viso, poi spostò istintivamente lo sguardo sul pavimento. Non riusciva a tollerare il capitano in quello stato.
Le sue lacrime continuavano a scorrere facendosi strada tra le guancie, abbattendo qualsiasi ostacolo sul loro cammino. Niente riusciva a fermarle nella loro corsa verso il vuoto. Le gote si ostentavano a contrarsi, sorrette da un’espressione sofferta che cercava di nascondere i gemiti del pianto. Era sul punto di urlare dalla disperazione se il suo senpai non avesse smesso di singhiozzare come una ragazzina. In quei momenti si vergognava di avere un capitano come lui, talmente fragile e incompetente da non riuscire a eguagliare il coraggio di un ragazzino di tre anni. Sognava da sempre un leader carismatico, sicuro di sé e con un’innata abilità da stratega, come Tsurgi o Tayou. Eppure in lui c’era qualcosa di diverso dagli altri, qualcosa che lo faceva distinguere dalla massa di false pecore nere, macchiate da un’individualità solo apparente. Il suo talento lo rendeva unico. Ranmaru sorrise e poggiò la mano sulla spalla del compagno. [...]
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kirino Ranmaru, Shindou Takuto
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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 Il gusto del caffè

 

 Kirino amava prepararsi il caffè.

Quel piccolo gesto quotidiano era diventato un vero e proprio rito mattiniero, irrinunciabile. La giornata non iniziava se non c’era quella tazzina in porcellana traboccante di quel liquido denso e insipido sul tavolo, lì ad aspettarlo. Era l’unica cosa che riuscisse a rincuorarlo dai suoi atroci risvegli che ogni volta sembravano sempre essere gli ultimi della sua vita.

Anche quella mattina i suoi occhi erano appesantiti dalle poche ore di sonno che si concedeva. Le iridi cerulee rifiutavano di constatare che il sole aveva già superato da un paio d’ore il rivo dal quale sorgeva ogni dì. Man mano che i giorni passavano, si vestiva di una luce sempre più scialba, segno dell’inverno ormai imminente. Le palpebre si ostentavano a ricadere sulle ciglia, che cercavano – invano- di nascondere le sue occhiaie, quasi tendenti al nero.

-’Fanculo me stesso, e alla mia insonnia- biascicò lui.

Sbadigliò, non curandosi di chiudere la bocca. Si grattò il capo, felice di non aver ancora visto uno specchio davanti ai suoi occhi. Probabilmente in quel momento aveva un aspetto osceno, al punto di farsi provocare un infarto sodamente guardando il suo riflesso. Un altro sbadiglio.

I suoi piedi stanchi si trascinarono in un brusio ovattato, invocando pietà con toni lamentosi. Cercò di arrivare alla moka, che era poggiata su di un ripiano non molto distante da lui, proprio accanto al fornello. Sembrava essere irraggiungibile. Allungò goffamente la mano e accese il fornello. Sbuffò.

Erano ormai anni che restava chiuso in quel gesto monotono, che aveva perso da tempo il suo significato. Si era dimenticato del motivo che lo aveva spinto a consumare quella bevanda, ormai la beveva e basta. Aprì lo sportello che campeggiava beatamente sopra il piano cottura, quasi come se stesse a mezz’aria. L’anta si spinse indietro, echeggiando in un cigolio. Per un istante, la caffettiera sotto si mise a tremare. Allungò la mano, inizialmente frugando a vuoto. Non appena toccò una superficie ruvida, prese quello che doveva essere il suo agognato pacco di caffè solubile. Le sue labbra si schiusero in un sorriso nel vedere che il suo intuito non aveva preso un granchio. La confezione da lui presa recitava la scritta “Soavemente” con una calligrafia morbida e ampollosa, in toni caldi e violacei. Aperta la busta, non esitò a infilarci le narici dentro per respirare a pieni polmoni l’odore che emanava. Arricciò il naso dopo aver notato che quella miscela aveva il vero sapore del caffè, forte e deciso, eppure al tempo stesso delicato come la più fragile delle violette. Il nome era piuttosto azzeccato per una sottomarca di quel genere. Spesso gli capitava di associare gli odori ai visi delle persone che conosceva, anche per non dimenticarle nel passare degli anni. E quel profumo gli riportò alla mente il volto di Shidou. Vedendo di sfuggita i suoi occhi, scuri e densi come una tazzina di tè, si perse nei suoi pensieri, dimenticando ogni cosa intorno a lui.

Quant’era bello abbandonarsi dolcemente nel mare dei ricordi...

Pensava che gettare un occhio di riguardo al passato, non facesse mai male, aiutasse a crescere. D’altro canto, la sua mente si era inchiodata su di un punto fisso, un’immagine che non riusciva più a rimuovere. Era lui, l’ossessione dei suoi giorni, della sua vita. Kirino non riusciva a capire come il suo insano subconscio riuscisse a fare i collegamenti più assordi in merito a Shindou. Ogni scusa era buona per pensarlo, a partire dal gusto del caffè, che senza di lui era amarognolo e insipido. Non serviva a nulla metterci quintali di bustine di zucchero o qualche goccia di latte nella speranza che si addolcisse, ci sarebbe sempre stato un ingrediente in meno.

Quei suoi capelli fluenti, che ricadevano ordinatamente sopra le scapole senza scomporsi per la minima folata di vento, incorniciavano il suo viso alla perfezione. Lui era l’eccellenza plasmata in forma umana, irraggiungibile sotto ogni punto di vista. Un motivo in più per imitarlo.

Fin da bambino era solito a ripetere ogni azione che compiva Takuto, da un gesto della mano sino ad arrivare a comprare i suoi stessi vestiti. Nonostante si sforzasse di somigliarli in tutto e per tutto, l’originale era in grado di fare le stesse cose che faceva lui, e anche meglio. Ecco, fu quello il vero motivo che l'aveva spinto a bere il caffè. Non gli era mai piaciuto veraemente. Ma se Shin-sama lo beveva, allora anche lui doveva farlo. Non si sentiva sottomesso alla sua volontà, anzi. I suoi erano tutti messaggi impliciti compiuti nella speranza che lui si degnasse di porgergli un segno d’affetto.

Un fischio.

Una cortina di fumo che si posò sotto il suo naso lo fece ritornare alla realtà.

- Cazzo, no!- urlò lui, non facendo in tempo a contenersi dal dire quell’imprecazione, che gli era sfuggita di bocca prima che fosse riuscita a fermarla.

Si girò di scatto e vide la caffettiera poggiata sul fuoco sbuffare il fumo dal beccuccio all’impazzata, neanche se fosse stato un treno a vapore, impaziente di andare quanto di arrivare a destinazione. Con un gesto rapido spense il fornello, e tirò un sospiro di sollievo, contento di non aver provocato danni di proporzioni immani alla macchinetta per il caffè. Fortunatamente, non aveva intravisto alcun segno di bruciatura. Era già la quarta volta che gli accadeva una cosa del genere. Non pensò di aprirla , tanto sapeva già che il caffè ormai era bello che andato.

Ormai era una specie routine che si ripeteva ogni santo giorno.

Tutta colpa di quella costante fissa dei suoi pensieri.

Ed ecco che, di tutto punto, il campanello si mise a suonare.

Dannazione... era lui.

Gettò una rapida occhiata al calendario posto dietro lo stipite della porta. Il suo sguardo si posò meccanicamente sul nove marzo, che era segnato più volte con un pennarello indelebile rosso. Evidentemente in quel giorno doveva succedere qualcosa di veramente importante per essere evidenziato in un modo talmente insistente. Accanto alla data, vi era una scritta dello stesso colore, solo molto più piccola. Dopo essere riuscito a mettere finalmente a fuoco quelle quattro parole disposte con estrema minuzia accanto alla data, lesse:

Incontro con Shindo. Musica. Pianoforte. IMPORTANTE”.

Si vide arrivare un palmo teso in pieno volto. Diamine, Come se l’era potuto dimenticare?

Aveva insistito tanto per convincerlo a impartirgli lezioni di pianoforte. Dopo averlo persuaso dalla sua posizione inizialmente negativa, non poteva deluderlo così. Almeno adesso aveva una scusa per costringerlo a venire a casa sua tre volte la settimana, in modo da poter ammirare i suoi splendidi occhi ancora più da vicino.

Il campanello suonò per l’ennesima volta, altri due squilli si susseguirono uno dietro l’altro. Stava iniziando a spazientirsi.

Kirino cercò di sistemarsi i capelli in modo da sembrare presentabile. Se in quel momento avesse avuto uno specchio a disposizione, si sarebbe accorto di essere uno scherzo della natura, se lo sentiva. Dopo aver meditato per un breve lasso di tempo sulle reazioni che avrebbe potuto esternare Shindou vedendolo conciato in quel modo, si decise a premere il citofono.

Il suo cuore scandiva i battiti al rumore dei suoi passi in un crescendo d’intensità. Stava per impazzire, fra non molto se lo sarebbe ritrovato davanti. Da solo.

Aprì la porta, che fuggì dalla sua mano nascondendosi dietro ad un cigolio irriverente dovuto ad una mancata lubrificazione. Trasalì. Per un attimo il suo cervello non riuscì a ricevere ossigeno a sufficienza, e da lì a poco si sarebbe accasciato a terra. Lui stava lì immobile, con quell’espressione spaurita che cercava rifugio dietro ad un cono alla vaniglia ben più grande del suo viso, che reggeva a fatica mano sulla destra.

- Doveva essere per te... ma si stava sciogliendo! Scusa!- mormorò con un filo di voce, visibilmente imbarazzato.

Il suo volto rubicondo si sposava perfettamente con il color crema del gelato. Sembrava quasi fossero in simbiosi.

Non fece nemmeno in tempo a dare la seconda leccata al “suo” cono, poiché il calore delle sue guance s’avvalse su di esso, facendolo sciogliere. Si sentì impotente nel vedere il suo spuntino afflosciarsi lentamente sulla cialda.Un solo movimento brusco della mano e il gelato cadde sul pavimento.

Kirino chinò lo sguardo e si morse le labbra, cercando di trattenere la rabbia. Ci sarebbero voluti secoli per pulire quel disastro.

- Dannazione...- mormorò lui, lasciandosi scappare quella parola che non avrebbe detto per nessuna ragione al mondo, specie davanti ad un tipo sensibile come lui.

Sarebbe stata questione di istanti e le lacrime sarebbero cadute a fiotti. E ahimè, fu proprio quello che accadde.

Ranmaru guardò per un istante il suo viso, poi spostò istintivamente lo sguardo sul pavimento. Non riusciva a tollerare il capitano in quello stato.

Le sue lacrime continuavano a scorrere facendosi strada tra le guancie, abbattendo qualsiasi ostacolo sul loro cammino. Niente riusciva a fermarle nella loro corsa verso il vuoto. Le gote si ostentavano a contrarsi, sorrette da un’espressione sofferta che cercava di nascondere i gemiti del pianto. Era sul punto di urlare dalla disperazione se il suo senpai non avesse smesso di singhiozzare come una ragazzina. In quei momenti si vergognava di avere un capitano come lui, talmente fragile e incompetente da non riuscire a eguagliare il coraggio di un ragazzino di tre anni. Sognava da sempre un leader carismatico, sicuro di sé e con un’innata abilità da stratega, come Tsurgi o Tayou. Eppure in lui c’era qualcosa di diverso dagli altri, qualcosa che lo faceva distinguere dalla massa di false pecore nere, macchiate da un’individualità solo apparente. Il suo talento lo rendeva unico. Ranmaru sorrise e poggiò la mano sulla spalla del compagno.

- Dai, una lavata e tutto si risolverà. Piuttosto... non avevamo una lezione di musica?-.

Fece un cenno con la testa, cercando di smorzare un sorriso. Kirino arrossì, coprendosi istintivamente le guancie con le mani. Si sentiva imbarazzato, sperava vivamente che lui non si fosse accorto di nulla.

Era ovvio che avesse notato il suo viso sfiorare i cento gradi.

Shindou non disse nulla, anche perché era troppo occupato a frugare nel suo zaino. Il suo braccio affondava sempre di più in una morsa impenetrabile, delimitata dalle due cerniere della borsa. Ma degli spartiti non c’era traccia.

- Ehm... Kirino...- balbettò lui, ridendo sguaiatamente per ovviare la sua dimenticanza.

- Si?

-... Cosa mi faresti se ti dicessi che ho dimenticato gli spartiti a casa?- mormorò con voce soffocata, iniziandosi a grattare la testa per dei pruriti inesistenti. La cosa più gentile che avrebbe potuto fare Kirino sarebbe stata cacciarlo da casa sua, e magari prendersi un nuovo insegnante di musica, uno vero. Non avrebbe potuto sopportare un duro colpo come quello. Il suo amato allievo sarebbe stato solo un ricordo da cancellare, non avrebbe più provato il piacere di annegare nella profondità dei suoi occhi azzurri e non avrebbe più sfiorato la sua guancia nel tentativo di schiaffeggiarlo per qualche suo errore, fallendo miseramente ogni volta. Il solo pensiero di non rivederlo mai più lo faceva sentire male, il suo cuore avrebbe sfondato presto la sua prigione ossea.

Lui invece non reagì, continuava a sorridere.

- Com’è che stai ancora aspettando di entrare? Non starai mica aspettando che te lo dica io?- borbottò Ranmaru, non nascondendo il tono di voce ironico. Poi, spingendo la maniglia e aprendo ancor di più la porta, soggiunse:

- Vieni, penseremo dopo agli spartiti- e gli fece cenno di accomodarsi.

Fece un passo indietro. Non era consono accettare su due piedi l’invito dell’amico, soprattutto dopo aver combinato due disastri di proporzioni immani, almeno secondo lui. Allora cosa fare, entrare o no? Alla fine sospirò, e si decise a varcare la soglia di casa.

Dopotutto, se la lezione di musica era saltata, potevano pensare a qualcos’altro...

Non appena entrò nell’atrio, percepì una strana sensazione di benessere. Stare vicino a Kirino lo faceva sentire felice. Pareva quasi fosse lui l’unica persona che riuscisse a farlo sentire in pace con se stesso, l’unica spalla pronta a consolarlo. Anche il simpatico maneki neko posto sopra il comodino sembrava approvare i suoi sentimenti verso Ranmaru, con la sua espressione leggermente assopita che alludeva a un vago consenso. Lo prese e accarezzò la sua zampa. Le sue dita ebbero la piacevole impressione di toccare una superficie liscia e lucida, senza la minima traccia di imperfezioni. Quasi come se stessero sfiorando il viso di Ranmaru. La vernice acrilica aderiva perfettamente alla porcellana, al punto di riuscire a conferire al gattino una vitalità tale da farlo sembrare dotato di vita propria.

Era talmente occupato nell’ammirare silenziosamente il prezioso cimelio dell'amico che non s’accorse di quello che stava accadendo. La sua mano si ritrovò stretta in una presa ineffabile, alla quale non volle sfuggire. Quella che teneva il gattino invece, distese le dita istintivamente facendo cadere al suolo il portafortuna, che si ruppe in un fitto crepitio di cocci vetrosi. .Non se ne curò più di tanto, anche perché non ebbe il tempo di potersi scusare per l’ennesimo disastro compiuto.

Si lasciò andare tra le braccia dell’istinto di Ranmaru. Non gli importava dove l’avrebbe portato, né il motivo di quella sua azione improvvisa.

- Ran... posso dirti una cosa?- borbottò lui, posando lo sguardo sul pavimento per il timore di incrociare i suoi bellissimi occhi azzurri.

Mormorò qualcosa che parve incomprensibile alle orecchie di Shindou. Volse la testa verso l’amico, ma non sì girò verso di lui. Forse non voleva prestare attenzione a quello che stava per dirgli.

Uno schiaffo gli arrivò in pieno volto. Fu talmente forte che le lacrime gli inumidirono le palpebre.

Al diavolo i propositi del nuovo anno. Si era ripromesso che sarebbe diventato più forte, abbastanza da rivelargli i suoi veri sentimenti. Stava mandando tutto all’aria, come al solito. Deglutì un fastidioso nodo alla gola formatosi per il troppo nervosismo e trasse un profondo respiro:

- Non abbandonarmi. Se ne vanno tutti, ormai-.

Dopo quella frase, più nulla. Né un mormorio, né uno strepito.

La paura di rimanere solo l’aveva reso così. Un essere inerme, impaurito, tremendamente... umano.

Kirino si accorse che il ragazzo che aveva cercato di imitare da anni, sotto alcuni aspetti, era come lui. Non stava copiando la sue doti. Stava solo cercando di diventare la sua ombra.

- Dimmi Shindou, hai paura?-.

Il labbro inferiore tremava. I denti lo bloccarono, nel disperato tentativo di trattenere il pianto. Dalla sua bocca non usciva alcun suono per la paura. Quindi si limitò ad annuire.

- L’abbiamo tutti. Ma tu cosa temi?

- La solitudine. Sai, è difficile accettare il fatto che gli altri ti vedano come qualcosa di perfetto solo perchè hai del talento. La perfezione non esiste. E appena se ne accorgono, finisco con il ritrovarmi solo-.

Spalancò le braccia e si portò la testa di Shindou al petto.

- Non pensarci nemmeno. Io non ti lascerò mai, sarò sempre con te-.

Sorrise. Dopotutto si poteva sempre addolcire la solitudine con l’amore: una ricetta semplice, come mettere lo zucchero nel caffè. 

 

   
 
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