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Autore: Legolas_    24/06/2013    5 recensioni
Sette ragazzi che anche se non si conoscono, hanno una cosa in comune: frequentano tutti e sette il Mercy Hospital, un centro psichiatrico. Ognuno dei ragazzi ha un problema che li identifica, ma anche che li fortifica, li rende forti e indistruttibili, il contrario di quello che la società e le loro famiglie vogliono.
Tutti e sette si ritroveranno ad affrontare loro stessi assieme, in un posto che farà loro sparire le loro paure.
Genere: Azione, Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando scoprì la vera me avevo appena tredici anni. 
Frequentavo un scuola pubblica a pochi passi da casa mia, e l'ultimo giorno di scuola, io e i miei compagni di classe decidemmo di fare i pazzi. Piuttosto che far lezione, avevamo deciso di giocare al famoso gioco della bottiglia. Io non c'avevo mai giocato, e per me era una cosa tutta nuova.
Sapevo solo che la penitenza era un bacio sulle labbra. Ma niente di più.
Così ci mettemmo in cerchio attorno a un banco, e il mio compagno di classe Matt aveva preso la bottiglia. L'aveva girata e poco dopo, essa aveva puntato verso Caroline, la mia compagna di classe, bionda, con due occhi verdi e pelle chiara come un morto. Beh, io di certo non potevo dire nulla. Sono bianca anche io.
Così Matt, il capo del gioco, aveva detto a Caroline che doveva dare un bacio di dieci secondi alla persona che la bottiglia poi, doveva indicare. Lei era pronta, ferma e consapevole di quello che stava per fare.
Poi la bottiglia aveva puntato verso di me. E io ricordo di essere diventata rossa come un peperone.
Ricordo il viso scaltro di Matt che vagava da me a Caroline. Io non mi ero mossa di un millimetro, ma poi le esclamazione dei miei compagni di classe incominciarono a perforarmi le orecchie. Cosa volevano che facessi? Che la baciassi? Ma se era una ragazza?
Io ero assolutamente contraria. Ma Caroline no.
Così poi avvenne. Ricordo il suo braccio bianco che si attorcigliava al mio collo e poi, dopo aver visto i suoi occhi verdi chiudersi, l'esplosione.
Le sue labbra si erano appiciccate alle mie e non mi mollavano più. Io avevo chiuso subito gli occhi perché non volevo che i miei compagni di classe potessero vedere quello che stavo provando io.
Rabbia, odio, frustrazione, vergogna, egosimo? No. Era gioia. Una gioia che io non avevo mai provato in vita mia. Mi sentivo come se un fuoco d'artificio fosse esploso nel mio petto e non smetteva di lanciare scintille rosse, verdi, viola e azzurre.
Le labbra di Caroline non erano più appicicate alle mie. Peggio. Solo poco dopo mi accorsi che stavamo limonando. E la cosa più imbarazzante era che lo stavo facendo anche io.
Non ero la Eva di sempre, quella brava e attenta a non infrangere le regole. Era la nuova Eva, quella che amava rischiare fino all'ultima goccia di sangue, sudore e piacere.
Poi passarono i dieci secondi e mi ero ritrovata di nuovo seduta sulla sedia, circondata da tutti quegli occhi che mi fissavano sbalorditi.
E mentre io pensavo a questo ricordo, mia madre ingranò la marcia e cominciò a partire. Guardai fuori dal finestrino e pensai subito che questa doveva essere la solita giornata di merda. Una giornata di merda, sì. Ma con un lato positivo: avrei rivisto Mary. Si, la mia adorata Mary. Colei che anche con un solo sms con scritto 'Ciao', mi rallegrava fino alla fine della giornata.
I baci che ho con lei non esprimono a fondo il mio amore nei suoi confronti. Rispetto all'emozione che avevo avuto con Caroline, quelli con Mary non sono nulla.
Anche un suo sorriso, movimento delle mani, braccia, gambe o degli occhi castani, per me è come tornare a respirare. Quando sono con lei mi sento viva, protetta, amata, rispettata.
   Mi sento me stessa.
Ma non è quello che mia madre pensa. Lei crede che io abbia una malattia. Una malattia grave e difficile da curare. Ecco perché sto all'ottavo piano del Mercy Hospital.
O semplicemente manicomio, come lo chiama Mary. Rido.
Mia madre si volta e mi lancia un'occhiataccia. Quanto la odio, penso. Non mi capisce, penso ancora mentre attraversiamo il parcheggio. Lei è ancora ferma al nazismo di Hitler. Mia madre è tedesca. Ecco un'altro motivo per cui mi odia a morte.
Il casello dell'ospedale è ormai vicino, e proprio in quel momento sento il telefono squillare. E' Mary. Sorrido felice, ma prima che possa rispondere, mia madre si volta, livida in viso.
<< Chi è? >>, e lancia un'occhiata al mio telefono.
<< La mia ragazza. >>, rispondo io semplicemente. So benissimo che odia quando lo dico, ma io lo faccio lo stesso. Per vedere fin quanto è disposta a odiarmi. Fin quanto lei è disposta a chiamarmi 'figlia'.
Cerca di prendermi il telefono, ma io non mollo e lo riprendo con forza.
<< Eva. >>, dice dura lei, e mi porge la mano. << Dammi il telefono. >>.
<< No. >>, rispondo io con la voce ferma e fiduciosa.
<< Eva, non farmelo ripetere due volte. Dammi il telefono. >>.
<< Ti ho detto di no! >>, esclamo io.
<< Eva.. sto perdendo la pazienza.. >>, e sento la sua voce incrinarsi ancora di più. E' quasi anormale.
<< Tu me l'hai fatta perdere anni fa! >>, rispondo sarcastica.
<< EVA! >>, strilla lei. 
   Il vuoto.
Mi tocco la guancia. E' rossa, lo sento da quanto brucia. Mi ha dato uno schiaffo. Ma almeno non si è presa il telefono. Mia madre mi guarda in cagnesco, prende la borsa e se ne va via, lasciandomi sola.
Scoppio a piangere. Chissenefrega se siamo in luogo pubblico, penso disperata. Mi metto le mani tra i capelli e il viso, disperata. Non ne posso più.
Perchè a me? Perché non potevo avere una madre, buona, comprensiva, che mi amasse almeno? Perché devo avere Hitler al femminile? Perché?
Alzo la testa scoraggiata da tutto quel pianto, e mi asciugo invano gli occhi. Poi mi volto e vedo un ragazzo che mi guarda.
Indossa una tuta da ginnastica, e mi guarda come se gli facessi pena. Ma forse, penso io, lui sta meglio di me.
Rido un poco.
<< La vita fa schifo.. non è vero? >>, domando io sarcastica.
Lui non risponde, così mi volto e lo vedo annuire. E' di poche parole il ragazzo. Poi si volta, e non mi guarda più.Ma se lo guardo, intravedo un po' anche me. Zitto, fermo, ridotto al minimo e senza speranza di comprensione da parte degli altri. Sembro io al maschile. Lo guardo per un po', poi decido di alzarmi e mi siedo accanto a lui. Prendo la sua mano e la stringo forte, come se lui potesse proteggermi. E poi appoggio la testa alla sua spalle e mi sento più tranquilla.
<< Loro non ci capiscono.. non sanno cosa significhi essere esclusi, eliminati da questa orrenda società. >>, dico io con voce rotta.
<< Sono troppo occupati a prendersi cura di loro stessi e non di noi. >>. Mi volto e guardo i suoi occhi castani e mi ricordano un po' quelli di Mary. Chissà cosa ha dovuto passare lui, penso con un filo di voce che trema come le fiamme.
<< Chi sei tu? >>, domando curiosa.
<< Peter Jones. >>, mi risponde lui. Bel nome Peter, penso io.
<< Perché sei qua, Peter? >>, chiedo ancora.
<< Per il tuo stesso motivo. >>.
Rido un poco e poi rispondo: << Mmh.. non penso. >>. Come può essere lui come me? Beh certo, ci sono anche i gay, ma.. lui non sembra proprio essere come me. E se lo fosse, è proprio uno spreco, perché é un bel ragazzo.
Abbasso la testa quando lui corregge la sua risposta e la tramuta in: << Allora perché nessuno si occupa di me.. come ha fatto quella donna con te.. >>.
<< Mia madre.. quella stronza.. >>, rispondo amara io.
<< Oh.. le vuoi proprio bene, eh? >>, e ride. Forse, penso, vuole sdramatizzare la situazione. Ma non ci sta riuscendo.
<< Da morire. >>, dico io. Ma sembra quasi una risposta divertente e sarcastica. Una risposta creata proprio da me.
Ma prima che io potessi dire qualcosa, un rumore di tacchi ci fa chiudere per sempre, o forse no, la nostra conversazione. Deve essere la madre di Peter, perché lui scatta in piedi e mi saluta. Ma poi mi chiede come mi chiamo, e io gli sorrido. 
Forse, penso con un pizzico di felicità addosso, forse ho trovato qualcuno che mi può capire. Uno come me.
<< Eva, mi chiamo Eva Johnson. >>, rispondo io continuando a guardarlo negli occhi.
 
 
Faccio tutto da sola. Prendo il bigliettino per entrare a fare le analisi e schiaccio il pulsante rosso dell'ascensore. Questo si apre e mi rivela la presenza di un paio di persone. Una signora anziana, con i capelli bianchi lucidi che le sfiorano le spalle magre e piccole. Indossa un vestitino celeste, con una borsetta bordeaux, le scarpe bianche, basse e morbide. La sua mano rugosa e chiara stringe quella di un bambino di non appena dieci anni. Con i capelli a scodella castani, quasi biondi, gli occhi color nocciola, e la bocca a cuoricino. Lui porta una maglietta a maniche corte con delle auto da corsa disegnate, e 
dei pantaloncini marroni corti, e poi dei sandali blu.
Entro e poi le porte si chiudono da sole, silenziose e fredde.
Un paio di anni fa negli ascensori del Mercy Hospital ci stava la radio, e le canzoni di risuonavano nella testa. Erano belle, carine e calme. 
Forse troppo calme. Perché un bambino, forse schizzofrenico, un giorno, la ruppe a mani nude.
E da quel momento non la misero più. 
<< Vieni Simon. >>, disse la signora anziana al bambino, che, penso, deve essere il nipote.
Escono e le porte si richiudono di nuovo. Mi avvicino ai tasti dell'ascensore e noto che il bambino e la signora sono scesi al sesto piano.
Che cosa ha quel bambino?, penso con una briciola di panico in corpo.
Dopo un ding! ecco che arrivo al mio di piano. L'ottavo. Le sedie beige che sono alla mia destra mi seguono fino alla fine del corridoio, dove io, rimango in piedi davanti alla porta bianca.
Tre, cinque, sette, nove, undici minuti.
Poi, la porta si apre ed esce un ragazzo biondo dagli occhi azzurri e mi fissa un po' spaventato. Si chiama James e ha vent'anni. E sta qua da sette anni. Mi capita qualche volta di stare con lui nello stesso corridoio, ma non ci parliamo mai. 
Forse lui è troppo timido, o forse gli hanno staccato la lingua. Cosa che non mi stupirebbe.
James mi supera e appoggia la schiena al muro e fissa il soffitto. I suoi occhi celesti color del mare mi scrutano un po' di sbieco e io lo lascio fare. Sto zitta. Chissà cosa gli hanno fatto dentro, penso curiosa.
<< Quando tocca a te? >>, mi chiede e io rimango stupita. Questa è la prima volta che lo sento parlare. Mi volto per guardarlo, ma lui ha ancora gli occhi fissi sul soffitto.
<< Fra un po'.. >>, rispondo io guardando il bigliettino per la visita.
Passa il tempo e io non so che fare. James sta ancora affianco a me: sento il suo braccio che tocca la mia spalla. Lui è molto più alto di me, ma in fondo è un maschio.
   I maschi sono sempre i più alti.
<< Sentirai solo un po' di dolore.. >>.
La mia testa scatta a sinistra e lo fisso confusa. << Cioè? >>, domando.
<< Non fa poi così male.. >>, ma non risponde alla mia domanda.
<< Cosa non fa poi così male? >>, e la mia voce ha un che di spaventoso. James fissa i suoi occhi azzurri su i miei verdi e poi mi sussurra nell'orecchio: << Reggiti forte alla sedia, Eva.. >>.
 
 
 
E' il mio turno. Apro la porta e poi, con mia grande sorpresa, noto che non è come la volta scorsa. Stavolta, al centro della stanza c'è una sedia. Una sedia come quella che c'è dal dentista. Verde pallida come sempre, e non ci sta a fare nulla in una stanza celestina chiara. I medici, che hanno la mascherina bianca sulla bocca e i guanti nelle mani, mi dicono di sedermi sulla sedia e di stare tranquilla.
Io lo faccio e solo in quel momento, mi rendo conto di cosa sta per accadere. Prima che possa alzarmi, la donna dai capelli neri mi lega i polsi nel braccioli e poi mi lega una sorta di corda bianca - non so cosa sia perché non riesco a vederla - alla fronte.
Il tipo biondo e alto almeno due metri e mezzo con gli occhi castani - oh Mary! -, prende dei fili tutti colorai e pian piano, li attacca alla mia testa.
Mi agito. Sudo. Gemo. Scalcio e prego.
James aveva ragione. Cosa mi stanno facendo?, mi chiedo con il panico che ormai mi serra la gola.
<< Tranquilla Eva.. ti stiamo solo facendo dei controlli. >>, mi dice la donna che tenta di tranquillizzarmi. Controlli? Controlli per cosa? Per vedere se la mia 'malattia' è sparita?
<< Ma cosa.. cosa sono i fili.. questi.. cosa.. ma.. no! >>, ansimo mentre il medico che sembra un robot giganti si avvicina ad un macchinario bianco. C'è un bottone nero e uno rosso. E lui cosa preme? Quello rosso.
   E' durato solo tre secondi tondi.
Non riesco neanche a capire cosa mi hanno fatto. Ma poi guardo le mie mani e vedo che tremano. Come se.. come se.. << Vedi? Non era poi così doloroso.. >>, cerca di sorridere il medico togliendosi la mascherina bianca dalla bocca.
Sembra una brutta copia di Joker.
<< Cosa mi avete fatto? >>, domando io poco dopo trovando la voce.
<< Un piccolo controllo. >>, risponde felice la donna.
La guardo dura e arrabbiata.
<< Cosa mi avete fatto? >>, ripeto con foga.
<< Un test per vedere cosa hai nel tuo piccole cervellino, signorina Johnson.. >>, risponde Joker.
<< E cioè? >>, domando io.
<< Beh, bisogna ancora vedere.. >>, risponde guardando il monitor.
<< No, volevo dire che cosa mi avete fatto.. cos'era quella cosa? >>, e si nota da chilometri che sto avendo paura.
<< Elettroshock. >>, risponde Joker.
<< COSA?! >>, strillo.
<< Oh, non si arrabbi signorina Johnson.. non è come quello nei carceri di massima sicurezza.. quello che le abbiamo fatto è lieve e non si sente neanche.. e non l'abbiamo di certo ammazzata.. anche perché, sarebbe un tale spreco.. >>, e mi fissa.
   Mi sento nuda.
<< Posso andare? >>, chiedo con voce incrinata.
Lui annuisce e io, senza neanche rendermene conto, mi trovo già nel corridoio per andare ai bagni.
Mi lavo il viso e mi fisso allo specchio.
Sono ancora più bianca del normale.
   No, tutto questo non è normale.
  
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