Ormai non conto più i giorni. Quanti ne saranno passati? Di sicuro più di due anni. Sono rinchiusa in una piccola stanza,
con le pareti strette e il soffitto basso, che in ogni momento sembrano urlarmi: “Non uscirai mai da qui, rassegnati”. Sono
Sophie Liberty, ho, o almeno credo di avere, 18 anni, e un uomo mi ha rapita molti giorni fa, e mi tiene qui, prigioniera in
una gabbia di cui non trovo l’uscita. “Soph, ti ho preparato la cena! Pasta e fagioli, proprio come piace a te!” Da un po’ di
mesi quest’uomo ha iniziato a trovare divertente chiamarmi Soph e LUI non può farlo, non ne ha il diritto. Mi pone il piatto
sotto la porta, e se ne va, come fa ogni sera. Non ho fame. Non voglio mangiare il lurido cibo di un lurido uomo che mi ha
luridamente rapita per… per che cosa? Cosa lo ha spinto a prendere me, una ragazza che stava tornando a casa, e non
qualcun’altra come ad esempio la figlia di un ultramiliardario, o non so che altro? L’uomo arriva per riprendersi il piatto,
ancora pieno, e ne approfitto per dirgli, come ogni giorno, che mi ha rovinato l’esistenza e che prima o poi riuscirò a
scappare, anche se so benissimo che non sarà così.Ho tentato tante volte di fuggire, di urlare in modo da farmi sentire dai vicini, di supplicare il mio rapitore chiedendo di
essere liberata, senza però ottenere nessun risultato. Voglio i miei genitori, i miei parenti, i miei amici, vorrei anche tornare
a scuola, mi manca, mi mancano, tutti quanti.
Mi avvicino alla finestrella, l’unico buco che mi permette di guardare cosa succede all’esterno. Non è grande, anzi, è
piccola, minuscola, oserei dire, e l’unica cosa che posso osservare è la vetrata di un appartamento, dentro il quale abitano
cinque ragazzi. Si sono trasferiti lì da ormai un paio di mesi, e da quel momento non faccio altro che guardarli ogni volta
che posso. Sono giovani, più o meno tutti della mia età, credo. Il biondo a cui ho dato il nome James suona la chitarra, e a
vederlo da lontano mi sembra anche molto bravo. Anche ad un altro ho deciso di dare il nome James, in onore di mio
padre, che mi manca davvero tanto; ha dei cortissimi capelli scuri, con gli occhi dello stesso color nocciola, sembra il più
maturo dei cinque, e forse anche il più dolce. Il ragazzo che ho soprannominato “Jawaad” ha la pelle più scura degli altri,
sembra che venga dal Pakistan o giù di lì; ha la stoffa del vero duro, ma in realtà la notte, quando dorme sul divano, ha la
compagnia di un orsacchiotto di pezza. Il quarto, che ho deciso di chiamare William, sembra un ragazzino, e a volte lo
chiamo anche “Peter Pan”. Mi pare una di quelle persone che ha una vitalità impressionante dentro di sé e che non ha
paura di tirarla fuori. E poi c’è lui: l’ultimo, quello che ho chiamato Edward. I capelli ricci, gli occhi color smeraldo, e quel
fare un po’ timido e impacciato lo rendono difficile da descrivere con le parole giuste, mi ha fatto subito battere il cuore.
E’ ormai tardi, tutte le luci sono spente, e lo sono anche quelle dei cinque ragazzi, che per la fretta di andarsene a letto
non mi hanno lasciato il tempo di dar loro la buonanotte. Mi alzo, e mi sdraio sul sottile materasso che c’è nella mia
gabbia. Chiudo gli occhi, preparandomi ad un nuovo giorno di prigionia.