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Autore: SofiaVoglino    26/06/2013    3 recensioni
"Ho fatto un sogno. Un sogno un po’ strano. Ma bello, anzi, più bello di ogni altra esperienza mai vissuta fino ad ora, tanto che al mio risveglio ho provato ad addormentarmi di nuovo e continuare a vivere, per così dire, quella realtà onirica."
In questa raccolta, desidero riportare i miei sogni: quelli che riesco a ricordare al mattino, e che vorrei poter ricordare per sempre. Ciò che scrivo NON è inventato, e questo giustifica eventuali ellissi o omissioni o contraddizioni: si tratta di sogni, luoghi magnifici nella loro incoerenza, dove tutto è possibile, e io, nella mia piccolezza, tenterò di rendere giustizia alla loro magia.
P.S. Vi sarei grata se voleste lasciare una recensione. Grazie.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Ho fatto un sogno. Un sogno un po’ strano. Ma bello, anzi, più bello di ogni altra esperienza mai vissuta fino ad ora, tanto che al mio risveglio ho provato ad addormentarmi di nuovo e continuare a vivere, per così dire, quella realtà onirica.

***

Ero in un pullman, pieno di coetanei e anche ragazzi più grandi. Si respirava l’aria di vacanza, anche se non so esattamente dove fossimo diretti. Ma non è questo che importa. Con me c’erano ragazze bellissime, perfette in ogni più piccolo dettaglio: gli occhi grandi, le ciglia lunghe, il naso sottile, le labbra carnose, il fisico slanciato. E in mezzo a loro mi sentivo esclusa, come se tutto quello non mi appartenesse. Mi misi le cuffiette, come per  far capire che non ero interessata ai loro discorsi. Dicessero anche che ero un’asociale, ma intanto me ne stavo seduta in pace, con nient’altro se non la mia bella musica.


C’erano pochi maschi, tra cui mio fratello e quello di una delle tante Barbie. Era davvero bello. Capelli scuri e occhi azzurri, luminosissimi. Era seduto sulla fila di sinistra, avanti. Io invece in quella di destra, più indietro di due file. Mi ritrovai a guardarlo più di una volta; quando i nostri occhi si incontrarono, li ritrassi e mi voltai verso il finestrino, rossa e calda in viso. Percepii  il suo sguardo su  di me. Continuava a fissarmi, lo sentivo. Ma forse era  solo un’illusione: perché avrebbe dovuto  guardarmi? Perché non guardava una delle tante belle ragazze sul pullman, ma me?

Un ragazzo, forse il suo migliore amico, gli si era seduto accanto, in quel posto che prima era vuoto. Cercavo di vedere da dietro i capelli cosa facevano. Stavano chiacchierando, e dai movimenti delle loro bocche quasi serrate, capii che parlavano a bassa voce, in un sussurro. E intanto continuavo a sentire quegli occhi così azzurri su di me. Gli lanciai un’altra occhiata, di sfuggita, e lo vidi con il busto girato indietro, il braccio sinistro poggiato sul sedile davanti a lui e quello destro sul suo, e anche se aveva il capo chino, mi sentii avvampare di nuovo.

Non ne capivo il perché. Ma ora sì: nessuno mi ha mai guardata, fino ad ora; sono stata invisibile, e nessuno si è mai accorto di me. Perlomeno nessun ragazzo. Come notarmi, se me ne sto sempre in silenzio, se non mi vesto né mi comporto come le mie coetanee, se non esco molto e anzi amo la tranquillità della mia stanza?

Ma lui sì, mi aveva notata. Mi feci coraggio e mi scostai i capelli dal viso, tolsi le cuffiette e, con lo sguardo più ardito che avessi mai assunto, ricambiai il suo. Sperai solo di non sembrare intimidita. Coraggio, mormorava una vocina nella mia testa, è soltanto un ragazzo. Ma il lato più codardo, insulso e disprezzato di me prevalse, e mi voltai di nuovo, fissando ora la testiera del sedile di fronte a me, mi rimisi le cuffiette, e finsi di dormire, raggomitolandomi verso il finestrino, così che nessuno potesse vedermi. E così passai il resto del viaggio, aspettando, nel profondo del mio cuore che quell’estraneo venisse da me, e mi dicesse qualcosa, qualsiasi cosa. Credo che, anche se fosse venuto solo a chiedermi in prestito gli auricolari, glieli avrei ceduti volentieri, condannandomi ad ascoltare il vivace brusio di sottofondo.

Quando il pullman si fermò, sobbalzai al bussare di una mano sulla spalla, e rimasi stordita dal fatto che mi fossi seriamente addormentata. Sbadigliai, nascosta dietro la mano, e nel petto mi colse la viva speranza che fosse LUI ad avermi svegliata. Mi girai, ma vidi solo mio fratello, spintonato dalle persone che sgomitavano verso l’uscita. Mi alzai e presi la mia roba, e scendendo, tra uno sbadiglio e un altro, dissi un “grazie” molto assonnato all’autista, che mi ricambiò con un cenno di capo  e un sorriso compiaciuto. Non deve capitare molto spesso agli autisti di essere ringraziati, o almeno non più, pensai, vedendo le altre scendere senza degnarlo di uno sguardo.

Intanto i ragazzi avevano iniziato a scaricare i bagagli, il mio era ancora dentro. Aspettai un minuto, o forse un po’ di più, ancora intorpidita dal sonnellino. Delle braccia forti e piuttosto muscolose sollevarono la mia valigetta, e io esclamai, a voce un po’ troppo alta: -È la mia! – e le stesse braccia me la porsero. E gli diedi un volto, alla fine: era lui, di cui ora non ricordo il nome, o forse non l’ho mai saputo, ma che per fisionomia ricordava  Joshua Brand (che fervida immaginazione, vero?), e quindi ora chiamerò Josh.

Vedendo a chi apparteneva la voce, si scurì in viso. Tutto il castello di sabbia che mi ero costruita crollò in quell’istante, e mi ritrovai letteralmente a bocca aperta. Quel “grazie” che rivolsi a lui fu più che altro un suono strozzato dall’imbarazzo. E, preso il bagaglio, corsi subito via.

***


Il sogno continua, come se però si trattasse di un’altra scena, girata a ore di distanza.
Mi ritrovai in uno stanzone, un dormitorio con file di letti a castello addossate alle pareti lunghe, con dei plaid di un disgustoso colore verde acido. Non c’erano solo le ragazze, ma anche i maschi, e tutti ci stavamo cambiando come se nulla fosse, senza pudore. Io ero ancora in reggiseno, mentre gli altri erano già vestiti, quando entrò un uomo, dall’aspetto severo e rigido; sembra un militare, pensai, e questa sembra una caserma.

Si mise a urlare ordini che non ricordo, ma non riesco a dimenticarmi l’occhiata sprezzante che mi lanciò, squadrandomi l’addome. Automaticamente portai le braccia avanti, per coprirmi, ma ormai era troppo tardi. Tutti si avviarono verso la porta, e mio fratello mi diede una pacca sulla spalla, dicendomi:
-          Ci vediamo fuori.
-          ‘kay – risposi io.

Mi misi a frugare nella borsa, cercando un cambio dignitoso, e, credendo di essere rimasta sola, esclamai in preda allo sconforto :  - Bene, ora tutti hanno visto la mia orrenda pancia!
-          Non è orrenda – disse una voce dolce alle mie spalle – è normale.
-          Sono grassa – dissi, continuando a cercare una maglietta, e per niente turbata dall’aver scoperto di essere in compagnia.
-          Non è vero – replicò la voce – sei … carina.

Mi voltai e … (scommetto che nessuno ci sarebbe mai arrivato!) a parlare era stato Josh. Che si stava allacciando gli anfibi neri. Decisamente da militare, in effetti. Poi, finito quello che stava facendo, vidi che si avvicinava a me, abbozzando un sorriso, e le sue braccia cinsero il mio corpo, ancora in parte nudo, in un caldo abbraccio. Non mi dibattei, non cercai di liberarmene. Mi lasciai avvolgere dalla sensazione di essere apprezzata, di piacere a qualcuno. Poggiai la testa nell’incavo della sua spalla, inspirandone l’odore dolce, ma virile, e sentendo i suoi capelli scuri solleticarmi il viso.  Desiderai che quel momento durasse per sempre, ma sapevo che ci saremmo dovuti separare, prima o poi.

***


Vorrei poter sentire di nuovo vivide quelle sensazioni, vorrei poter sentire di nuovo le braccia calde sulle mie spalle nude, vorrei poter sentire di nuovo il cuore martellarmi nel petto, e poi calmarsi all’improvviso, confortato da quell’abbraccio. Purtroppo le emozioni non sono date, frasi, equazioni o formule; non si possono scolpire nella memoria, perché sono in continua e repentina evoluzione, non si fermano mai, e la mente umana è troppo ingenua, si lascia sorprendere e travolgere nella scoperta, e delle esperienza nient’altro se non un vago ricordo. Ma se solo si potessero imparare! Allora i miei occhi non si stancherebbero mai, e resterei sveglia fino a notte fonda a leggerle e rileggerle, nella mia insaziabile brama di nuove sensazioni. Ma i giorni sembrerebbero secondi, i mesi ore e gli anni poco più di qualche ora, ma sarebbero le ore meglio spese della mia vita.

***


Un altro balzo temporale. Quell’ abbraccio sembra lontano secoli, ma avevo come l’impressione che a quello ne fossero seguiti altri, insieme a lunghe chiacchierate e fugaci occhiate.

In questa terza scena mi ritrovai in un negozietto, che sembrava trovarsi in un piccolo paesino di mare, che vendeva parei, costumi, collanine e cappelli di paglia. Ero in compagnia di alcune delle ragazze, e anche del mio fratellone, che veniva fatto continuamente bersaglio delle occhiate lusinghiere delle Barbie.

Mentre loro provavano un po’ tutto ciò che avevano a tiro, io stavo seduta su una poltroncina di vimini, giocherellando con il cordino di un pareo. E pensavo a lui, e ai suoi occhi, e alle sue mani gentili, e ai suoi capelli, e alle sue braccia, e al fuoco che avevo sentito ogni volta che mi sfiorava. Può sembrare infantile, in fondo si è trattato solo di un abbraccio. Mentre tutte le altre potranno parlare del loro primo bacio, io parlerò del mio primo abbraccio, pensai allora.

Non so perché, ma lui non c’era. Ma non nel senso che non si trovava nel negozietto, ma nel senso che proprio non c’era più: un’incombenza? Un contrattempo? O, pensando all’atmosfera militareggiante che si respirava nella scena precedente, una missione? Non saprei dirlo.

***


Nella quarta scena, stavo salendo sul pullman.

Josh mi aveva preceduto, ma, da quando era tornato, mi aveva completamente ignorato. Mi sembra di essere salita sul pullman per la prima volta, quando ancora non lo conoscevo, quando mi vergognavo di guardarlo. Ma mi ritrovai in una situazione opposta, perché ero io a cercare un contatto, e lui a fuggire il mio sguardo. Salii, finalmente, salutai l’autista, e mi accorsi che aveva occupato lo stesso posto dell’andata. Accanto a lui non c’era nessuno: avrei potuto sedermici io, ma il mio orgoglio aspettava che fosse lui a chiedermelo.

Che illuso, penso ora, e che sciocca!
Già, perché lui, quando gli passai accanto, non mi degnò di uno sguardo, e il suo amico prese il posto accanto, non lasciandomi tempo per decidere cosa fare. E allora mi sedetti dietro di lui, mi misi le cuffiette, e aspettai.
 
   
 
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