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Autore: Aout    26/06/2013    3 recensioni
Albus Percival Wulfric Brian Silente. Tanti nomi, tanti riconoscimenti, ammirato e stimato da tutti, nasconde però un’ombra nel suo passato.
Nel settimo libro dice di non sentirsi migliore di Voldemort, come lui ha desiderato il potere e, forse, una piccola parte di lui lo desidera ancora.
“Doni o Horcrux... c’è davvero poi tanta differenza?” si chiede.
Un incontro con la sua antica nemesi potrebbe risvegliare desideri oscuri e sopiti, ma forse Silente è davvero troppo grande per farsi vincere.
O forse no?
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Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Contesto generale/vago
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The leopard cannot change its spots

 
 
Il vento soffiava forte quel giorno. Come sempre, in fondo, in cima a quella scogliera.
Ne sentiva i sospiri, seduto lì, davanti alla finestra. Attraversavano le mura, leggeri. Come serpenti, scivolavano dentro la sua stretta cella e lo sfioravano, quasi fossero dita fredde e crudeli che venivano a punirlo, rubandogli quel poco conforto che avrebbe potuto donargli il sonno.
Il vento, il suo unico compagno in quella desolazione, in quella solitudine.
Non gli portava mai niente, il vento. Le urla degli altri prigionieri, forse, ogni tanto. Ma poi anche quelle venivano a spegnersi, piano piano. Solo lui rimaneva lì, impassibile, oltre il tempo, forse che fosse veramente eterna quella sua punizione?
Le urla, solo quelle e il vento. I suoi compagni nel buio della prigione, gli unici, quando anche la luna decideva di nascondersi alla sua vista.
Nemmeno i topi venivano più. Che ormai lo credessero lui stesso parte di quelle mura? Lui, che per tanto tempo era rimasto fermo nello stesso luogo, che non aveva alcuna speranza di fuggire da quella desolazione?
Poi venne la voce.
Se ne sorprese, in un primo tempo. Chi mai poteva essere, si chiedeva?
Le guardie, loro non parlavano. Forse non avevano voce, forse gliel’avevano tolta, come fosse una punizione anche per loro quella prigione. Forse non avevano niente da dire a uno come lui, un criminale, un relitto, un mago potente una volta, forse.
Gliela portò il vento, quella voce. Leggero, fine, ancora una volta si intrufolò oltre le mura grigie, su per le scale, perfino attraverso gli spessi mattoni delle pareti pur di raggiungerlo.
Fu quando realizzò di chi la voce fosse, che la sorpresa scomparve.
Sarebbe venuto, lo sapeva da tanto tempo, aveva aspettato abbastanza per non rimanerne sorpreso.
- Lasciatemi solo. – disse la voce, con quelle consonanti leggermente addolcite della sua lingua natale. Vi fu una risposta secca, un lampo di luce lieve e tutto tacque.
Seduto su quella brandina, vide un lungo mantello scuro apparire al di là delle sbarre, leggero come la notte.
- Gellert.
Sentire quel nome fu come un risveglio. Gli occhi, da tanto tempo appannati, parvero quasi focalizzare di nuovo la stanza, le gambe stanche si mossero. Non lo aveva voluto coscientemente, ma si era alzato e si avvicinava alle sbarre.
Mosse appena un passo e il possessore della voce arretrò, allontanandosi dal suo campo visivo.
- Vecchio amico, - parlò e la sua voce era roca, usurata da tutto quel vento, da tutto quel tempo trascorso senza mai essere usata, -  perché sei così timido? Non è da te esitare o nasconderti dalla luce.¹ – disse e la torcia del corridoio parve lanciare qualche scintilla in più, forse memore di quella magia che un tempo il suo corpo aveva posseduto, ma che ormai aveva fatto il suo corso.
Il mantello scuro frusciò lieve, come il vento, quando il visitatore fece un passo avanti, tanto da entrare nel cono di luce della torcia.
- Forse non mi conosci così bene come credi. Forse tutto questo tempo mi ha cambiato – disse piano.
- Cambiato? – esclamò, sorpreso, quasi che un briciolo della sua vitalità di un tempo si fosse improvvisamente risvegliato – Oh sì, Albus, sei cambiato. – continuò, lasciando vagare lo sguardo sui ciuffi della barba argentata che apparivano da sotto il mantello dell’uomo, del vecchio, che aveva dinnanzi. – Ma credo di esserlo di più io. Anche se non saprei dirlo con esattezza, non credo di vedere la mia immagine riflessa da eoni, ormai.
Nessuno rispose. Il vento, sempre lui, forse odioso ai silenzi, spirò più forte, affievolendo la luce della torcia.
- Dubito che la tua aura di perfezione possa mai essersi incrinata, perfino in queste condizioni. – disse la voce, un po’ più dura del solito. Era strano, la voce era sempre stata così gentile, comprensiva...
Troppo comprensiva, troppo gentile. Troppo debole.
- Perfezione... sono davvero mai stato perfetto, io? No, non credo. Io non amo la gente perfetta, quelli che non sono mai caduti, non hanno inciampato. A loro non si è svelata la bellezza della vita. ²
Vi fu un’altra pausa, di nuovo il silenzio scandito dagli sbuffi impazienti del vento.
Gli parve, stranamente, di vedere la luce della torcia farsi improvvisamente più viva, che le ombre, per un attimo, si fossero ritirate di fronte a quel nuovo bagliore, atterrite da quella potenza. Fu un attimo.
Sei arrabbiato, Albus? Con me?
Poi il vecchio parlò.
- Trovo quantomeno azzardato definire tutto questo bellezza, Gellert. – disse, ancora piano, accennando col capo all’interno della sua angusta, grigia cella. I suoi occhi, fino a quel momento nascosti sotto il cappuccio, gli si svelarono in tutta la loro freddezza.
- Oh, ma non mi riferisco affatto a questo. – rispose e la sua voce, volente o nolente, si incrinò. Per la rabbia, mai per il dolore. – Vuoi forse farmi credere che non c’era bellezza, una volta, sui nostri volti? Che non erano belli i nostri progetti, i nostri sogni? Che non era bello passare il tempo insieme, forse?
Il vecchio davanti a lui non parlava, ma continuava a fissarlo con quei suoi occhi così vividi e brillanti. Lo accecavano quelle iridi azzurre.
Come un pipistrello alla luce del sole, si allontanò dalle sbarre della cella che aveva involontariamente raggiunto. Si allontanò fino a toccare coi palmi delle mani i muri della parete con la fessura dove passava il vento, dalla parte opposta della stanza.
- Vattene, Albus – e quelle parole gli uscirono roche, furiose, mentre una parte della sua coscienza lo supplicava di non pronunciarle e una parte lo costringeva a farlo. – Non ho bisogno dei tuoi rimproveri, qui. Sono stanco della tua bontà, della tua debolezza, lo sono sempre stato. Vattene.
Il vecchio fece un respiro profondo. Arrabbiato, spazientito, forse?
Chissà, forse sei cambiato davvero.
- Non sono qui per tormentarti con i tuoi trascorsi, né per rivivere quelli che forse una volta erano ricordi felici, Gellert.
Sorpreso, il prigioniero voltò la testa.
- Ah no? E cosa mai potrebbe volere un vecchio da un altro vecchio? – disse e l’ombra di un sorriso, qualcosa che non si sarebbe mai più aspettato, si fece spazio sul suo volto.
- Il tuo aiuto, se mai vorrai concedermelo.
Ancora una volta, cadde il silenzio. Il vento, arrabbiato a quel punto, mandò una folata che spense definitivamente la torcia.
Intanto, il prigioniero si era nuovamente avvicinato alle sbarre, finalmente protetto dalle ombre.
L’uomo davanti a lui tirò fuori qualcosa dalla tasca e la tese di fronte a sé.
Lei?
- La ricordi?
C’era un lungo legnetto scuro sul suo palmo. Ad una prima occhiata, quelle scanalature curvilinee si sarebbe anche potute scambiare per venature del legno, ma lui le aveva viste tante volte, le aveva avute così vicine tanto a lungo, da sapere che erano complicati arabeschi intagliati quelli che ricoprivano il manico e salivano su, fino alla punta.
Ne sentiva l’energia, la percepiva scorrere nell’aria, più forte del vento.
Ma forse era solo un’impressione.
- Sì.
- Ricordi dove la... trovasti, la prima volta?
Ah, l’hai capito. È così?
- Ero convinto che, ormai, il tempo per certe cose fosse passato, Albus. – disse, compiaciuto. - Pensavo che... – ma poi, improvvisamente, delle immagine invasero la sua mente.
Le urla, le bacchette. Un lampo e poi... quella bambina. Era a terra? Era stato lui? Fuggire, fuggire, doveva tirarsi fuori da quella seccatura, subito!
- Gellert?
- Pensavo che fosse tutto finito.
Il vecchio abbassò lo sguardo, colpevole. Colpevole? Fece un sospiro, uno sbuffo. Scosse la testa e fece per tirare indietro la bacchetta, per riporla nuovamente all’interno del mantello. Stava per andarsene.
- Vuoi saperlo? Posso dirtelo. – disse lui. Sentiva il rumore del vento, sbatteva, furioso, fuori dalla feritoia della sua cella. Colpiva il mantello di Albus, frustava la sua veste lacera. Presto sarebbe stato il suo unico compagno, di nuovo. – Possono ancora essere tuoi, se lo vuoi.
Solo, non voleva rimanere solo di nuovo.
Il vecchio sollevò la testa e lo fissò. Sembrava dubbioso, triste.
 
- No, non... non voglio saperlo.
Uno sciocco, Silente si sentiva un ragazzino sciocco. E lui non lo era affatto.
Perché sono venuto?
Gellert lo fissò con sguardo interrogativo.
- Ho sbagliato a venire qui.
Un errore stupido, molto stupido. Come aveva potuto riportare alla luce quei ricordi? Non era storia passata, quella? Non aveva giurato di dimenticarla?
Sì, eppure, adesso, per uno sciocco desiderio di... cosa? Potere? Per uno sciocco desiderio di potere era tornato sui suoi passi.
Ma forse era la conoscenza, quella che agognava.
Come poteva Gellert essere entrato in possesso della Bacchetta di Sambuco? Più se lo chiedeva e più capiva che non avrebbe dovuto interessagli.
Si diede dello sciocco, ancora una volta, quando sentì dentro di lui una piccola parte di sé adolescente che si sentiva delusa di non aver condiviso quella scoperta.
I Doni esistevano quindi?
Ma non importava più ormai.
- Non era mia intenzione farti patire più di quanto tu non stia già soffrendo.
Avete scelto parti diverse, è finita, accettalo.
Fu un lampo di luce.
 
Il vento, Gellert non ricordava altro che il vento, quando si svegliò qualche ora dopo. La voce non c’era più.

 
 
 

- Silente?
- Dove l’hai trovato, James?
Tra le mani sentiva la vellutata consistenza del tessuto, vedeva la luce accarezzare la stoffa leggera, impalpabile.
Non era possibile.
- Ehm... beh, è della mia famiglia. Insomma me lo ha dato mio padre, credo che... sinceramente non so, non me lo sono mai chiesto...
- Credi che potresti prestarmelo?
- Ehm... sì, nessun problema.
Doveva sapere.

 
 
Note d’Autore:  Non so se sono riuscita a rendere bene la caratterizzazione dei personaggi. Grindelwald è un potentissimo mago oscuro, ma in questa one-shot ci si presenta confuso e debole per colpa dei numerosi anni di prigione. Silente, dall’altra parte, è deluso, arrabbiato e immensamente triste. Spero che questi sentimenti si sentano e che non travisino troppo l’idea che vi siete fatti dei personaggi. Soprattutto per quanto riguarda Silente, tenete conto che lo vediamo su un terreno in cui non l’abbiamo mai trovato, non come il professore onnisciente e saggio, ma come un essere umano tormentato dal suo passato.
Il titolo è il c0rrispettivo inglese del proverbio “il lupo perde il pelo ma non il vizio”.
Per quanto riguarda il contest, il compito era quello di rispettare delle limitazioni, io ho utilizzato il prompt“vento”, la canzone di Adele “Someone like you” (nel testo, la frase della canzone è contrassegnata col numero ¹) e la frase di Boris Pasternack “Io non amo la gente perfetta, quelli che non sono mai caduti, non hanno inciampato. A loro non si è svelata la bellezza della vita” (nel testo col numero ²).
  
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