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Autore: Rika88    09/01/2008    5 recensioni
Gennaio 1945: in una Germania devastata, Alphonse Elric, arruolato per una guerra ormai persa, lascia i figli a casa del fratello Edward. Tuttavia, come Thomas e Charlotte Elric scopriranno presto, i problemi non si limitano alla difficile convivenza tra due caratteri troppo simili, come quelli del bambino e di Ed: l'abitazione e la libreria sotto di essa sono il fulcro di un movimento incessante e, forse, anche pericoloso.
Genere: Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Tutto dipende da come lo si guarda. Per esempio, io non ci metto dei secoli ad aggiornare: semplicemente, ogni volta che rileggo trovo qualcosa da correggere.
E io rileggo piuttosto spesso, non so se si era intuito dai miei tempi.

        5. Illusioni infrante

Come già avevo sospettato, nell'Istituto di Ricerca Schneider (nome un po' troppo pomposo per una palazzina in cui il poco intonaco rimasto era di un imbarazzante verde marcio), lavorare era ancora più difficile che dodici anni prima: ogni tentativo si trascinava nel caos, languiva nella disorganizzazione e si dissolveva (o forse si suicidava) schiantandosi contro la quasi totale mancanza di mezzi.
In altri tempi, probabilmente, mi sarebbe venuto un esaurimento nervoso in breve tempo: in quel febbraio umido e freddo, invece, l'indolenza dei miei colleghi e i fastidi dovuti alla guerra mi parvero una meravigliosa sfida, dopo tanto tempo passato alla disperata ricerca di un impiego, anche umile, che mi permettesse di sopravvivere senza dover chiedere prestiti a mio fratello. Mi gettai con l'entusiasmo di un adolescente nella mischia e, dopo una settimana, avevo guadagnato un calo di voce che preoccupò Margarethe e una grande stanchezza, ma il laboratorio cominciava faticosamente a funzionare.
Esattamente otto giorni dopo la mia sorprendente assunzione, mi trovavo per la seconda volta nell'ufficio del direttore: avevo passato i precedenti giorni in giro per l'Istituto, causando la perplessità di quelli che mi vedevano, con le maniche della camicia arrotolata, chino su colonne di distillazione, palloni o sostanze nella maggior parte dei casi puzzolenti ("Il direttore è matto... sembra un bimbo davanti ad un nuovo trenino!"), ma quel pomeriggio mi ero deciso a dare una controllata ai conti degli ultimi mesi. Sebbene non fossi io a dover tirare fuori i soldi, non potevo permettermi spese eccessive, o la signora Schneider mi avrebbe immediatamente licenziato.
- Direttore... ha ancora bisogno di me? -
Alzai lo sguardo su Martha, cercando di capire il motivo di quella domanda: dopo pochi secondi, mi resi conto che doveva essere l'ora di uscita.
- No, grazie, vada pure: anche io ho finito. -
La povera donna un po' mi impietosiva: doveva essersi resa conto che non avevo la minima idea di cosa comprendesse il lavoro di segretaria, e probabilmente viveva nel terrore che la reputassi inutile e proponessi al grande capo di liberarsene. Infatti, si premurava sempre di elencarmi tutte le formalità burocratiche sbrigate nella giornata, di riempire la sua scrivania di fogli per mostrarmi quanto fosse impegnata e, la mattina, mi faceva sempre trovare il terribile surrogato nel mio ufficio. Non ho mai capito se enfatizzasse le sue mansioni o lavorasse davvero come una schiava.
- C'è una signorina che chiede di parlarle... la faccio entrare? -
- Una... chi è? - domandai
In quel momento, Hedwig entrò nella stanza, rendendo superflua la risposta.


* * *

Quando alzai lo sguardo dal libro che stavo leggendo, mi accorsi che il sole cominciava a sparire dietro le case, ed Edward non era ancora tornato.
A malincuore, riposi il volume, pensando che dovevo aver perso la capacità di restare cosciente delle ore che passavano mentre io ero impegnata nella lettura: ma, del resto, da quando mio padre era partito per il fronte e io ero rimasta l'unica a preoccuparsi della nostra casa, non ero più riuscita a ritagliarmi un po' di tempo per me.
Seccata per il ritardo del mio indisciplinato affittuario, scivolai in cucina, alzando la lavagnetta a beneficio dei bambini:
Vostro zio ha intenzione di farsi vivo, stasera?
Un po' mi seccava disturbarli: non avevo mai visto due ragazzini decidere volontariamente di studiare... perlomeno, io non l'avevo mai fatto. Invece, subito dopo pranzo, Thomas aveva tirato fuori il suo vecchio libro di matematica, deciso a portarsi avanti con il programma: Lotte, non so se per vero desiderio di sapere o solo per compiacere il fratello maggiore, si era seduta al suo fianco e aveva usufruito dell'insegnante improvvisato.
- Credi che non si sia accorto dell'ora? - domandò il maggiore, guardandosi intorno come se realizzasse in quel momento che Edward non era tornato.
Probabile, risposi. Sarà meglio andare a chiamarlo, tra poco sarà buio.
- Vado io, allora. Tanto conosco la strada. - si offrì Thomas.
- Noi cominciamo a preparare la cena? - propose Lotte - Ed ha sempre fame, quando torna. -
In effetti, cominciavo a chiedermi quale lavoro massacrante compisse in quel laboratorio, visto che tornava a casa con l'aria di chi ha spostato le montagne. Forse era solo il terrore di perdere quell'impiego, visto che non si era mai neppure aspettato di averlo.
Io? Ovvio che sapevo che ce l'avrebbe fatta. Altrimenti, non lo avrei mai... incoraggiato a provare: tuttavia, quella sera in cui si ripresentò a casa, dopo il colloquio, sentii un brivido lungo la schiena.
Edward era entrato in silenzio, bagnato fino al midollo, ma si era ricordato di togliersi le scarpe sul pianerottolo: chiaro segno che era successo qualcosa di inatteso, altrimenti avrebbe lasciato la solita strisciata umida fino in cucina.
Quando si era seduto a tavola e aveva cominciato a mangiare senza proferire verbo, mi ritrovai a chiedermi se, per la prima volta, il mio intuito non avesse fallito...
- Ed? - la voce di Thomas suonava ansiosa. La sua stessa figura, allungata verso lo zio, trasmetteva preoccupazione: per la prima volta, mi aveva ricordato più il padre che il suo irascibile congiunto.
- Mh? -
- Hai avuto il posto? - a volte, la sfacciataggine aiuta. La somiglianza con Alphonse Elric era già scomparsa.
- Sì e no. - rispose Edward, evasivo.
Avrebbe probabilmente lasciato cadere la conversazione, se, alzando gli occhi, non si fosse accorto che pendevamo dalle sue labbra: così, fingendo indifferenza, prese un lungo sorso d'acqua per tenerci sulla corda, prima di riprendere.
- Comunque, - disse, con noncuranza - ricordami di ringraziare tuo nonno. Ha parlato talmente male di me alla vecchia cornacchia, che lei ha deciso di assumermi come direttore per ripicca. Credo che quei due non si sopportino. -
Noi avevamo ignorato la parte finale del commento: i bambini avevano strillato per la gioia, battendo le mani come forsennati.
Ed si era voltato verso di me, con aria sostenuta: stava cercando in ogni modo di non ammettere che avevo sempre avuto ragione io.
- Se non vengo sbattuto in strada, tra un mese potrò pagarti l'affitto. Soddisfatta? -
Non avevo risposto. Era inutile far notare a quell'individuo che il mio intuito femminile era pressochè infallibile.
Mi riscossi, sorridendo al ricordo, e fermai Thomas, che stava già uscendo: si stava per lanciare per la strada gelida senza neppure una sciarpa, così gli prestai quella di mio padre.
Ti autorizzo ad usare la forza per staccarlo dai suoi alambicchi! scrissi, a mo' di saluto.

* * *


- Ti dovevo parlare. - esordì Hedwig, non appena Martha fu sparita.
Mi alzai, per lasciarle la sedia: comunque, la mia amica si era già accomodata su uno scomodo sgabello sotto la finestra, e non accennò ad alzarsi. Nonostante la penombra dovuta al palazzo di fronte che copriva il sole, mi accorsi che indossava un abito costoso, probabilmente fatto su misura, assolutamente incongruo per quei tempi di magra. Si era acconciata i capelli all'ultima moda e, con le spalle alla scarsa luce, i pochi difetti del suo viso erano invisibili.
Mi chiesi se lo stesse facendo apposta, per far colpo su di me: in un primo momento, il pensiero mi lusingò.
- Come ti trovi qui? - mi chiese gentilmente. - Sei più pallido dall'ultima volta che ci siamo visti... non è che lavori troppo? -
- Sto bene, grazie. Sono stanco, ma sognavo un impiego simile da anni. -
- Direttore di un laboratorio come questo? - lei sembrò perplessa.
Mi accorsi della gaffe con una certa vergogna: dovevo sembrarle un egocentrico.
- Intendevo dire - mi difesi - che sognavo di trovarmi di nuovo nel mio elemento... -
- Appunto. Tutto questo non è un po' poco? -
Rimasi in silenzio, sbalordito.
Poco?
- Insomma, sei l'uomo più intelligente che io conosca, e sai fare cose ignote alla maggior parte delle persone. - continuò Hedwig, assolutamente ignara - Sei sprecato per questo buco, l'ho detto anche a mia madre. -
- Credo che tu mi stia sopravvalutando... - risi, incrociando le braccia e appoggiandomi al muro.
Lei piegò leggermente il capo, persa in meditazione: per alcuni istanti, mi offrì la vista del suo profilo.
Bizzarro, pensai tra me. Sembra in posa. Winry non era così... così...
La parola attraversò la mia mente con incredibile naturalezza: artefatta.
Hedwig aveva la perfezione delle statue greche, ma, esattamente come queste, sembrava essere priva di spontaneità. Ogni suo piccolo gesto era studiato nei minimi particolari, per dare una sensazione generale di armonia e leggiadria.
Forse, dopotutto, non lo faceva affatto per me. Era semplicemente la sua natura, quella di mostrarsi sempre perfetta, ineccepibile.
- Volevo offrirti un impiego. - si decise a rivelare - Non sapevo che fossi venuto qui. -
- Un impiego? - ripetei meccanicamente.
Ero certo che lei non lavorasse: era una donna, e ricca per giunta.
- Già, qualcosa che di sicuro ti piacerebbe. -
- Hedwig, ho già accettato questo, ed è molto di più di quanto sperassi... - la fermai.
- Oh, Edward, mia madre sa pensare solo ai quattrini che le girano per le tasche: non le pareva vero di aver trovato una simile gallina dalle uova d'oro, disposta per di più a farsi pagare una miseria... ti prego, ascoltami: se tu accettassi, - si allungò verso di me, prendendomi le mani - potremmo racimolare abbastanza soldi per pensare al matrimonio. -
Ebbi un sobbalzo: matrimonio?
Hedwig mi guardò, speranzosa: era una donna di quarant'anni, eppure sembrava una ragazzina alla prima cotta. Mi chiesi nuovamente se non si fosse messa in ghingheri per corteggiarmi: Winry avrebbe capito che non ne valeva la pena, perchè non me ne sarei mai accorto, ma, in fondo, Hedwig mi conosceva da molto meno tempo... sentii le guance riscaldarsi. Il numero di donne che hanno civettato con me è più o meno uguale a quello delle fanciulle a cui io stesso ho fatto la corte, e io non mi sentivo in grado di controllare la situazione.
- Di che si tratta? - mi arresi a chiedere, visto che sembrava tenerci così tanto.
Le sue labbra si aprirono in un sorriso: lasciò andare le mie mani e si sedette nuovamente composta sullo sgabello, appoggiandosi sulle ginocchia la borsa che giaceva in terra, e a cui io non avevo fatto caso. Rovistò dentro, spostando le cianfrusaglie che conteneva con impazienza.
Sposare Hedwig? Con il tenore di vita che era abituata a condurre, mi sarebbe venuto a costare una fortuna...
Arrossii ancora di più: bei pensieri davvero. La donna che ami ti chiede di sposarlo, e tu ti metti a fare i conti. Classico pensiero romantico di chi medita di metter su famiglia, no?
- Scusa se ti faccio perdere tempo... - ridacchiò la mia amica, imbarazzata, estraendo finalmente un vecchio quaderno dalla borsa - ho pensato tanto a questa cosa, e ora non riesco a togliermela dalla testa. -
- Parli del lavoro? -
- No, sciocco! - mi guardò, con gli occhi che le brillavano e le guance arrossate - Del fatto che forse... noi due... sarebbe magnifico, no? -
Abbassai lo sguardo sull'oggetto che mi tendeva, e non risposi. Non riuscivo a condividere la sua felicità, e onestamente non ne capivo il motivo: forse, perchè non mi ero mai posto davvero il problema di ufficializzare la mia unione con lei. O, forse, era tutta colpa della signora Schneider. Da quando l'avevo conosciuta, continuavo a fare paragoni imbarazzanti tra sua figlia e la mia Winry.
E poi, magari mi sbagliavo. Il modo di fare di Hedwig poteva anche nascondere insicurezza, ma io, continuando a pensare a Winry, mi ero convinto che non lo gradivo...
Mi soffermai sui miei pensieri, come ora scorro le righe di ciò che ho scritto.
Winry, Winry, Winry... Non avevo chiuso la questione anni prima?
Scuotendo la testa per scacciare quella presenza dalla mia mente, mi concentrai sulla copertina sbiadita del vecchio quaderno; qualcuno aveva scarabocchiato una spada, o forse un pugnale, con l'elsa posta davanti ad un cerchio disegnato a mano libera, con due diametri ortogonali tracciati a formare una "X": mi ricordava qualcosa, ma non ebbi il tempo di pensarci, perchè, quando aprii su una pagina a caso, fui salutato da qualcosa di molto più familiare.
Cerchi alchemici.
Brutti, alcuni palesemente sbagliati, ma inequivocabili.
Girai in fretta gli altri fogli, diviso tra il panico e lo sbalordimento. Cerchi alchemici, poche scritte, altri cerchi alchemici. Forse era un incubo.
- Che significa? - chiesi infine, quando fui certo che la mia voce suonasse sicura.
- Ho visto che quei disegni comparivano su quei lavori a casa tua, non ricordi? - il sorriso le tremò, incerto - Credevo ti avrebbe fatto piacere lavorare su... -
- Su questi? - esclamai. - Dove diamine mi avresti trovato impiego, in un circolo esoterico? -
- Ti assicuro che si tratta di qualcosa di molto serio. -
La oltrepassai, fingendo di andare a guardare fuori dalla finestra. Avevo bisogno di calmarmi, o le avrei risposto male.
- Hedwig, - ripresi, più educatamente - c'è stato un grosso malinteso. Non so chi ti ha dato questa spazzatura, ma si tratta di scarabocchi senza senso! -
- Libero di pensare quello che vuoi. Ti faccio solo presente che il tuo salario sarebbe più o meno il triplo di quello che percepiresti qui. -
Trasalii: non so se furono le sue parole o il suo tono acido a colpirmi come un pugno. Voltai il quaderno che tenevo in mano, e ricordai dove avevo già visto quel disegno sulla copertina.
- La Società di Thule... - rabbrividii.
Non di nuovo. Oh, no!
Ridacchiai, acido, prima di prendere un profondo respiro e stringere i pugni, per controllare i nervi:
- Cos'hai a che fare con tutto ciò, Hedwig? -
- Sono entrata in possesso di quell'oggetto parecchi anni fa. Pensavo t'interessasse, so che te ne occupasti già una volta, nel '23. -
- Sai cos'è successo ventidue anni fa? -
Lei non rispose, ma un leggero fruscio di stoffa mi fece capire che aveva portato le braccia conserte al petto. Lo faceva sempre, quando era arrabbiata.
- Fai parte di quel gruppo di fanatici assassini? - le domandai, voltandomi verso di lei - Cerchi anche tu la via per Shamballa? -
- Rifletti, Edward, tu sei l'unico che sappia far funzionare... -
- Rispondi, Hedwig! - ruggii, accecato dall'ira.
Mi scrutava con uno sguardo di ghiaccio, tremando di sdegno: per alcuni istanti, pensai che stesse per colpirmi. Invece, si morse il labbro, mentre gli occhi le si velavano di lacrime.
- Stavo cercando di aiutarti. L'ho fatto per noi. - sussurrò, abbozzando un sorriso tremulo - Lo scopo di questo non ha importanza... se tu accettassi, ti pagherebbero bene. Potremmo avere una casa nostra... -
- Certo, in tempo per farcela buttare giù da una bomba! - esclamai, sarcastico - Se pensi che io mi venda ad una banda di farabutti solo per soldi, ti sbagli di grosso! -
Hedwig emise un singhiozzo soffocato, prima di darmi le spalle e portarsi le mani sul viso.
- Se non t'importa nulla di me, - gemette tra le dita - dillo subito! -
- Per te l'amore è una bella casa e un conto in banca pingue? - le domandai. - Mi dispiace, non sono disposto a dimenticare i miei principi per te, nè per nessun altro. -
Mi ribolliva il sangue solo a pensarci: possibile che mi fossi innamorato di una persona capace di passar sopra a tutto per denaro?
O forse... no, impossibile. Non potevo aver fatto una cosa simile.
Riordinai tutti i pensieri che avevo avuto nell'ultima settimana, da quando avevo conosciuto Ilse Schneider fino a pochi istanti prima: e la verità mi si parò davanti in tutta la sua semplicità.
Era chiarissimo. Ed, razza di idiota, come hai fatto a non capirlo? Hai avuto la risposta sotto gli occhi per tutti i sei anni in cui hai conosciuto Hedwig.
- Vattene, Hedwig. - le dissi, stancamente.
Lei tolse le mani dal viso, e mi guardò, incredula.
- Non... - balbettò - non mi ami più? -
- Temo di non averti mai considerata davvero per quello che sei. - risposi.
Molto diplomatico, ma decisamente riduttivo.
Poveretta, in fondo un po' era colpa mia: non l'avevo mai amata. Non ero innamorato di Hedwig Steinglocke, ma dell'immagine che vedevo ogni volta che la guardavo. La illudevo, e illudevo me stesso, cercando in lei un'altra persona.
La donna rimase in silenzio per alcuni secondi: poi, mi strappò bruscamente lo stramaledetto quaderno di mano.
- Bene. - disse - Benissimo. -
In un attimo, l'aria persa e le lacrime avevano lasciato il posto ad una gelida furia: il cambiamento mi sconcertò, e non reagii.
- Potevi rendere tutto molto semplice, Edward Elric. - disse, mentre il labbro inferiore le tremava vistosamente - Ma, come al solito, hai dovuto fare di testa tua. -
Raccolse la borsa e uscì, sbattendosi violentemente la porta alle spalle.

* * *


Era quasi l'ora del coprifuoco, e mio zio ancora non si vedeva.
Avevo tentato di entrare nel laboratorio, ma la porta era chiusa: tuttavia, la bicicletta di Edward era ancora appoggiata al muro, così ero rimasto sul marciapiede ad aspettarlo, tremando dal freddo.
Dopo dieci minuti buoni, mi sembrava di non sentirmi più i piedi: mi mossi un po', affondando il mento nella sciarpa del signor Meyer, che pizzicava il viso ma riscaldava, e mi distrassi osservando un'automobile parcheggiata sul lato opposto della strada, il cui occupante sembrava parlare da solo, dato che l'autista se ne stava immobile, con lo sguardo fisso davanti a sè. Fingendo noncuranza, attraversai, per potermi avvicinare e osservarla meglio, pur restando a distanza: era bella, lussuosa, nera, e aveva l'aria di essere appena stata pulita da cima a fondo, anche se le ruote e il bordo inferiore della carrozzeria erano già sporchi di fango. L'autista era un individuo anonimo, senza nulla che attirasse l'attenzione, mentre il passeggero indossava l'uniforme dell'esercito: bizzarro, visto che l'auto aveva targa civile.
In quel momento, la porta d'ingresso del laboratorio si spalancò, e ne uscì la signorina Steinglocke: rimasi sorpreso, ma lei non sembrò notarmi. Stava per voltare a destra, quando vide la vettura nera e, con passo deciso, si diresse verso di essa.
Dato che non mi aveva riconosciuto, potei seguirla con lo sguardo mentre apriva la portiera sulla strada, dal lato opposto a quello dietro cui ero io, e, senza una parola o un'altra manifestazione di sorpresa per la persona che era a bordo, si accomodò e fece un cenno stizzito all'autista, che si affrettò a mettere in moto.
Che strane persone, pensai, guardandoli allontanarsi. Prima lavano la macchina finchè questa non splende, poi vanno a passare nel fango. Forse le strade dissestate, dopo le piogge dei giorni precedenti, si erano trasformate in pantani... ma allora perchè perdere tempo a pulire l'auto, se questa si sarebbe inevitabilmente sporcata di nuovo?
- Thomas! -
Mi girai, vedendo Edward appena fuori del laboratorio: gli corsi incontro, cercando di riattivare la circolazione sanguigna nei piedi.
- Sei in ritardo. - gli dissi - Margarethe mi ha mandato... -
- Dov'è la mia bicicletta? -
Guardai il muro, dove avevo visto il mezzo scalcagnato solo pochi minuti prima.
Sparito.
- Ma era qui... - cominciai
- Infatti, eccola. - sentenziò lui, calmissimo, prima di dirigersi verso sinistra: stavo per seguirlo, quando cominciò a correre verso un uomo che, notai, si stava allontanando su una bicicletta straordinariamente simile al rottame dello zio. In poche falcate, Ed gli fu a fianco e, senza una parola, gli sferrò un pugno con la nuova protesi, facendolo rovinare al suolo.
- Possiamo andare. - mi disse, tornando verso di me trascinandosi dietro il suo vecchio mezzo.
- Ho visto la signorina Steinglocke. - dichiarai, cercando di non mostrarmi troppo sorpreso da quella tranquillità assoluta.
- Sì, è venuta a parlarmi... questo nuovo auto-mail è magnifico. Molto migliore del precedente. - aggiunse soddisfatto Ed, stringendo le dita della protesi a pugno.
- É successo qualcosa tra voi? - domandai, preoccupato.
- Sì, lei mi ha lasciato... o forse sono io che l'ho lasciata, non saprei dire. -
Lo guardai, per capire se scherzasse. Era serissimo.
- Perchè? -
- Una lunga storia. -
Rimanemmo in silenzio fino a casa, anche se lo zio continuava a fischiettare. Non l'avevo mai sentito fischiettare, ed era davvero fastidioso, così, quando s'interruppe bruscamente, non pensai ad altro che al sollievo per le mie povere orecchie.
- C'è Wilhelm Lindemann. -
La sua esclamazione improvvisa mi colse impreparato.
- Dove? -
- Di fronte a casa nostra. -
Il suo tono era perplesso, e a ragione: Wilhelm era irriconoscibile. Si agitava scompostamente, gesticolando in direzione di Margarethe, ferma sulla soglia di casa. Per sua fortuna, nella via non c'era nessun altro, o lo avrebbero preso per pazzo.
- Che succede? - domandò Ed, mentre ci avvicinavamo.
Il ragazzo si voltò di scatto per guardarci: aveva il volto cereo, i capelli spettinati e gli occhi fuori dalle orbite, con un'aria folle che mi spaventò. Tra le mani tremanti teneva un foglio, che cercò di mettermi in mano, borbottando qualche parola sconnessa, che non riuscii a cogliere. Il mio primo pensiero fu che traffici dei Lindemann fossero stati scoperti dalla polizia.
- Che succede, Wilhelm? - ripetè lo zio, mentre Margarethe si stringeva nelle spalle, perplessa quanto noi.
- Se solo non avessi accettato... - sussurrò finalmente il ragazzo, appoggiando le spalle al muro di casa Meyer - se non fossi stato così codardo, tutto questo non sarebbe successo. -
Quelle parole sembrarono riscuoterlo, perchè prese a singhiozzare rumorosamente: Margarethe gli appoggiò una mano sul braccio, ma lui neppure se ne accorse. Capito che era inutile insistere, Edward gli prese di mano il foglio spiegazzato.
- É stata tutta colpa mia... - singhiozzò il diciottenne, senza fermare le lacrime, ma passandosi istericamente le mani nei capelli - tutta colpa mia.-
Sentii la mano dello zio stringere la mia spalla fino a farmi male, mentre leggeva: stava impallidendo a vista d'occhio.
- Cosa? Cos'è successo? - chiesi.
- Hanno... - gracchiò Wilhelm, a fatica - Hanno è morto. Pochi giorni fa, dalle parti di Budapest. -
Indietreggiai, come se mi avesse tirato un pugno.
- No, - mi opposi testardamente - ho ricevuto una sua lettera... ho il suo quaderno... Ed diglielo tu. Diglielo! -
Lui tacque, chiudendo gli occhi, come per non vedere ancora le parole impresse su quel pezzo di carta.
- Ed, - sussurrai, tremando - diglielo... -
Non mi rispose.
Colpii violentemente la sua mano per liberarmi, e corsi in casa.

* * *


- É stata tutta colpa mia... - mormorava incessantemente Wilhelm - tutta colpa mia. Se mi fossi arruolato... -
- Non essere sciocco, nessuno può decidere se essere arruolato o meno. - sbottai - Vai a casa, non dovremmo più essere in strada. -
- Tutta colpa mia... - continuò meccanicamente il ragazzo - Se mi fossi rifiutato di... -
- Non è stata colpa tua. - ripetei.
Lui mi lanciò un'occhiata folle, poi cominciò ad allontanarsi: camminava gobbo, e continuava a scuotere la testa. Margarethe, di fianco a me, piangeva silenziosamente.
- Vado da Thomas. - dichiarai, appallottolando la cartaccia che tenevo ancora in mano.

Ero di nuovo sulla soglia della camera dei ragazzi, come quella prima sera di gennaio, e mio nipote era di nuovo ficcato sotto le coperte, il lenzuolo fin sopra la testa. Immobile, a parte i singhiozzi che lo scuotevano violentemente.
Lotte era in piedi in un angolo, lo sguardo su di me e una tale impassibilità in volto che mi chiesi se avesse davvero capito: eppure, doveva aver seguito la conversazione, perchè la finestra della camera dava sulla strada.
- Thomas... - lo chiamai, senza sapere come continuare.
- Lo sapevo. -
La voce giungeva attutita da sotto il lenzuolo, rauca per il troppo piangere: tuttavia, non ebbi difficoltà a capire. Mi sedetti sul bordo del letto, in silenzio.
- Sapevo che Hanno voleva arruolarsi. - la testa bionda riemerse - Mi aveva lasciato il suo album, e mi aveva chiesto di non parlare a nessuno del suo progetto. -
Si allungò per aprire un cassetto del comodino, e ne estrasse un quaderno dalla copertina nera: mentre la sorella si avvicinava, lui si sedette alla mia sinistra.
- Temeva che suo nonno lo bruciasse... mi ha chiesto di non guardare... -
Il tono di voce di Thomas era sempre più acuto; infatti, dopo alcuni attimi di silenzio si voltò verso di me, tremando:
- Se solo te lo avessi detto... se solo avessi capito... -
- Non potevi sapere cosa sarebbe successo. Avevi promesso di non dire nulla, e hai mantenuto... -
Inaspettatamente, Thomas mi affondò il viso sulla spalla, lanciando un gemito più acuto degli altri e facendomi sobbalzare. Rimasi immobile mentre lui si aggrappava alla mia manica, sentendomi completamente fuori posto: avrebbe dovuto esserci Alphonse, lì. Al era suo padre, Al sarebbe stato in grado di far sapere a quel ragazzino che faceva di tutto per essere adulto che a dodici anni non si può esserlo, Al sarebbe riuscito a fargli capire che non aveva colpa per la tragica fine di Hanno.
Appoggiai la mano sulla testa di Thomas, sentendomi goffo come un elefante.
- Avevi ragione tu, zio. Hai sempre avuto ragione tu. - sussurrò lui - Dovevo darti retta mesi fa. -
Senza dubbio, avrei preferito che lo capisse in qualche altro modo.



        Pensierino della buonanotte: sapevo esattamente cosa doveva succedere in questo capitolo prima ancora di iniziare a scriverlo, ma ho cambiato tutto almeno una mezza dozzina di volte... il più grande pregio dello scrivere in prima persona è anche il suo peggior difetto: riportare i pensieri di un personaggio mi permette di descriverlo in modo molto più approfondito, ma mi costringe anche ad un'attenzione ossessiva alla sua personalità, per evitare il più possibile l'OOC.
Bene, e ora rispondiamo a...
Ehi, un attimo, e le altre commentatrici abituali dove sono finite? Devo smettere di scrivere per farvi commentare?
(Minaccia a vuoto: non riuscirete a farmi smettere di scrivere tanto facilmente)
        Yolei: l'Isar è il fiume che attraversa Monaco: se non erro c'era un qualche riferimento alle sue acque, ma l'ho tolto perchè non mi sembrava da Ed mettersi a filosofeggiare su corsi d'acqua e affini, specie quando aveva già molti altri pensieri per la testa.
Non mi sono mai chiesta come sia possibile che Hedwig e Ilse siano parenti, a dire il vero: non che sia indispensabile tra madre e figlia, ma hanno molti punti in comune, e una mentalità simile.
        Siyah: sì, seguo anche il manga... o meglio, lo seguivo, visto che al momento non si sa bene quando uscirà. Comunque, hai fatto la migliore descrizione possibile di Ilse Schneider: intelligente e perfida. Non è del tutto colpa sua, ma, senza voler anticipare nulla, si può dire che sia lei che Hedwig siano diventate così per adattarsi alla loro epoca e, in parte, per ribellarsi: negli anni Quaranta pochissime donne lavoravano, e ancora meno potevano mettersi a capo di un progetto, per quanto scalcagnato come il laboratorio.
Beh, l'auto-mail sarà anche andato distrutto, ma... Ed adesso ne ha uno anche migliore, per sua stessa ammissione.
        meby138: come già detto, i tempi di aggiornamento lunghi sono dovuti alle continue correzioni. Per un lettore potrebbe essere fastidioso (ma, ehi, se così fosse vuol dire che la ff vi piace!), ma non riuscirei a pubblicare un capitolo che non mi soddisfi, così come mi rifiuto di leggere quelle fanfic piene di errori e refusi che potrebbero essere eliminati semplicemente rileggendo.

   
 
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