Tutto dipende da come lo si guarda.
Per esempio, io non ci metto dei secoli ad aggiornare: semplicemente, ogni volta
che rileggo trovo qualcosa da correggere.
E io rileggo piuttosto spesso, non so se si era intuito dai miei tempi.
5. Illusioni infrante
Come già avevo sospettato, nell'Istituto di Ricerca Schneider (nome un po'
troppo pomposo per una palazzina in cui il poco intonaco rimasto era di un
imbarazzante verde marcio), lavorare era ancora più difficile che dodici anni
prima: ogni tentativo si trascinava nel caos, languiva nella disorganizzazione e
si dissolveva (o forse si suicidava) schiantandosi contro la quasi totale
mancanza di mezzi.
In altri tempi, probabilmente, mi sarebbe venuto un esaurimento nervoso in breve
tempo: in quel febbraio umido e freddo, invece, l'indolenza dei miei colleghi e
i fastidi dovuti alla guerra mi parvero una meravigliosa sfida, dopo tanto tempo
passato alla disperata ricerca di un impiego, anche umile, che mi permettesse di
sopravvivere senza dover chiedere prestiti a mio fratello. Mi gettai con
l'entusiasmo di un adolescente nella mischia e, dopo una settimana, avevo
guadagnato un calo di voce che preoccupò Margarethe e una grande stanchezza, ma
il laboratorio cominciava faticosamente a funzionare.
Esattamente otto giorni dopo la mia sorprendente assunzione, mi trovavo per la
seconda volta nell'ufficio del direttore: avevo passato i precedenti giorni in
giro per l'Istituto, causando la perplessità di quelli che mi vedevano, con le
maniche della camicia arrotolata, chino su colonne di distillazione, palloni o
sostanze nella maggior parte dei casi puzzolenti ("Il direttore è matto...
sembra un bimbo davanti ad un nuovo trenino!"), ma quel pomeriggio mi ero
deciso a dare una controllata ai conti degli ultimi mesi. Sebbene non fossi io a
dover tirare fuori i soldi, non potevo permettermi spese eccessive, o la signora
Schneider mi avrebbe immediatamente licenziato.
- Direttore... ha ancora bisogno di me? -
Alzai lo sguardo su Martha, cercando di capire il motivo di quella domanda: dopo
pochi secondi, mi resi conto che doveva essere l'ora di uscita.
- No, grazie, vada pure: anche io ho finito. -
La povera donna un po' mi impietosiva: doveva essersi resa conto che non avevo
la minima idea di cosa comprendesse il lavoro di segretaria, e probabilmente
viveva nel terrore che la reputassi inutile e proponessi al grande capo di
liberarsene. Infatti, si premurava sempre di elencarmi tutte le formalità
burocratiche sbrigate nella giornata, di riempire la sua scrivania di fogli per
mostrarmi quanto fosse impegnata e, la mattina, mi faceva sempre trovare il
terribile surrogato nel mio ufficio. Non ho mai capito se enfatizzasse le sue
mansioni o lavorasse davvero come una schiava.
- C'è una signorina che chiede di parlarle... la faccio entrare? -
- Una... chi è? - domandai
In quel momento, Hedwig entrò nella stanza, rendendo superflua la risposta.
* * *
Quando alzai lo sguardo dal libro che
stavo leggendo, mi accorsi che il sole cominciava a sparire dietro le case, ed
Edward non era ancora tornato.
A malincuore, riposi il volume, pensando che dovevo aver perso la capacità di
restare cosciente delle ore che passavano mentre io ero impegnata nella lettura:
ma, del resto, da quando mio padre era partito per il fronte e io ero rimasta
l'unica a preoccuparsi della nostra casa, non ero più riuscita a ritagliarmi un
po' di tempo per me.
Seccata per il ritardo del mio indisciplinato affittuario, scivolai in cucina,
alzando la lavagnetta a beneficio dei bambini:
Vostro zio ha intenzione di farsi vivo, stasera?
Un po' mi seccava disturbarli: non avevo mai visto due ragazzini decidere
volontariamente di studiare... perlomeno, io non l'avevo mai fatto. Invece,
subito dopo pranzo, Thomas aveva tirato fuori il suo vecchio libro di
matematica, deciso a portarsi avanti con il programma: Lotte, non so se per vero
desiderio di sapere o solo per compiacere il fratello maggiore, si era seduta al
suo fianco e aveva usufruito dell'insegnante improvvisato.
- Credi che non si sia accorto dell'ora? - domandò il maggiore, guardandosi
intorno come se realizzasse in quel momento che Edward non era tornato.
Probabile, risposi. Sarà meglio andare a chiamarlo, tra poco sarà
buio.
- Vado io, allora. Tanto conosco la strada. - si offrì Thomas.
- Noi cominciamo a preparare la cena? - propose Lotte - Ed ha sempre fame,
quando torna. -
In effetti, cominciavo a chiedermi quale lavoro massacrante compisse in quel
laboratorio, visto che tornava a casa con l'aria di chi ha spostato le montagne.
Forse era solo il terrore di perdere quell'impiego, visto che non si era mai
neppure aspettato di averlo.
Io? Ovvio che sapevo che ce l'avrebbe fatta. Altrimenti, non lo avrei mai...
incoraggiato a provare: tuttavia, quella sera in cui si ripresentò a casa,
dopo il colloquio, sentii un brivido lungo la schiena.
Edward era entrato in silenzio, bagnato fino al midollo, ma si era ricordato di
togliersi le scarpe sul pianerottolo: chiaro segno che era successo qualcosa di
inatteso, altrimenti avrebbe lasciato la solita strisciata umida fino in cucina.
Quando si era seduto a tavola e aveva cominciato a mangiare senza proferire
verbo, mi ritrovai a chiedermi se, per la prima volta, il mio intuito non avesse
fallito...
- Ed? - la voce di Thomas suonava ansiosa. La sua stessa figura, allungata verso
lo zio, trasmetteva preoccupazione: per la prima volta, mi aveva ricordato più
il padre che il suo irascibile congiunto.
- Mh? -
- Hai avuto il posto? - a volte, la sfacciataggine aiuta. La somiglianza con
Alphonse Elric era già scomparsa.
- Sì e no. - rispose Edward, evasivo.
Avrebbe probabilmente lasciato cadere la conversazione, se, alzando gli occhi,
non si fosse accorto che pendevamo dalle sue labbra: così, fingendo
indifferenza, prese un lungo sorso d'acqua per tenerci sulla corda, prima di
riprendere.
- Comunque, - disse, con noncuranza - ricordami di ringraziare tuo nonno. Ha
parlato talmente male di me alla vecchia cornacchia, che lei ha deciso di
assumermi come direttore per ripicca. Credo che quei due non si sopportino. -
Noi avevamo ignorato la parte finale del commento: i bambini avevano strillato
per la gioia, battendo le mani come forsennati.
Ed si era voltato verso di me, con aria sostenuta: stava cercando in ogni modo
di non ammettere che avevo sempre avuto ragione io.
- Se non vengo sbattuto in strada, tra un mese potrò pagarti l'affitto.
Soddisfatta? -
Non avevo risposto. Era inutile far notare a quell'individuo che il mio intuito
femminile era pressochè infallibile.
Mi riscossi, sorridendo al ricordo, e fermai Thomas, che stava già uscendo: si
stava per lanciare per la strada gelida senza neppure una sciarpa, così gli
prestai quella di mio padre.
Ti autorizzo ad usare la forza per staccarlo dai suoi alambicchi!
scrissi, a mo' di saluto.
* * *
- Ti dovevo parlare. - esordì Hedwig, non appena Martha fu sparita.
Mi alzai, per lasciarle la sedia: comunque, la mia amica si era già accomodata
su uno scomodo sgabello sotto la finestra, e non accennò ad alzarsi. Nonostante
la penombra dovuta al palazzo di fronte che copriva il sole, mi accorsi che
indossava un abito costoso, probabilmente fatto su misura, assolutamente
incongruo per quei tempi di magra. Si era acconciata i capelli all'ultima moda
e, con le spalle alla scarsa luce, i pochi difetti del suo viso erano
invisibili.
Mi chiesi se lo stesse facendo apposta, per far colpo su di me: in un primo
momento, il pensiero mi lusingò.
- Come ti trovi qui? - mi chiese gentilmente. - Sei più pallido dall'ultima
volta che ci siamo visti... non è che lavori troppo? -
- Sto bene, grazie. Sono stanco, ma sognavo un impiego simile da anni. -
- Direttore di un laboratorio come questo? - lei sembrò perplessa.
Mi accorsi della gaffe con una certa vergogna: dovevo sembrarle un egocentrico.
- Intendevo dire - mi difesi - che sognavo di trovarmi di nuovo nel mio
elemento... -
- Appunto. Tutto questo non è un po' poco? -
Rimasi in silenzio, sbalordito.
Poco?
- Insomma, sei l'uomo più intelligente che io conosca, e sai fare cose ignote
alla maggior parte delle persone. - continuò Hedwig, assolutamente ignara - Sei
sprecato per questo buco, l'ho detto anche a mia madre. -
- Credo che tu mi stia sopravvalutando... - risi, incrociando le braccia e
appoggiandomi al muro.
Lei piegò leggermente il capo, persa in meditazione: per alcuni istanti, mi
offrì la vista del suo profilo.
Bizzarro, pensai tra me. Sembra in posa. Winry non era così... così...
La parola attraversò la mia mente con incredibile naturalezza: artefatta.
Hedwig aveva la perfezione delle statue greche, ma, esattamente come queste,
sembrava essere priva di spontaneità. Ogni suo piccolo gesto era studiato nei
minimi particolari, per dare una sensazione generale di armonia e leggiadria.
Forse, dopotutto, non lo faceva affatto per me. Era semplicemente la sua natura,
quella di mostrarsi sempre perfetta, ineccepibile.
- Volevo offrirti un impiego. - si decise a rivelare - Non sapevo che fossi
venuto qui. -
- Un impiego? - ripetei meccanicamente.
Ero certo che lei non lavorasse: era una donna, e ricca per giunta.
- Già, qualcosa che di sicuro ti piacerebbe. -
- Hedwig, ho già accettato questo, ed è molto di più di quanto sperassi... - la
fermai.
- Oh, Edward, mia madre sa pensare solo ai quattrini che le girano per le
tasche: non le pareva vero di aver trovato una simile gallina dalle uova d'oro,
disposta per di più a farsi pagare una miseria... ti prego, ascoltami: se tu
accettassi, - si allungò verso di me, prendendomi le mani - potremmo racimolare
abbastanza soldi per pensare al matrimonio. -
Ebbi un sobbalzo: matrimonio?
Hedwig mi guardò, speranzosa: era una donna di quarant'anni, eppure sembrava una
ragazzina alla prima cotta. Mi chiesi nuovamente se non si fosse messa in
ghingheri per corteggiarmi: Winry avrebbe capito che non ne valeva la pena,
perchè non me ne sarei mai accorto, ma, in fondo, Hedwig mi conosceva da molto
meno tempo... sentii le guance riscaldarsi. Il numero di donne che hanno
civettato con me è più o meno uguale a quello delle fanciulle a cui io stesso ho
fatto la corte, e io non mi sentivo in grado di controllare la situazione.
- Di che si tratta? - mi arresi a chiedere, visto che sembrava tenerci così
tanto.
Le sue labbra si aprirono in un sorriso: lasciò andare le mie mani e si sedette
nuovamente composta sullo sgabello, appoggiandosi sulle ginocchia la borsa che
giaceva in terra, e a cui io non avevo fatto caso. Rovistò dentro, spostando le
cianfrusaglie che conteneva con impazienza.
Sposare Hedwig? Con il tenore di vita che era abituata a condurre, mi sarebbe
venuto a costare una fortuna...
Arrossii ancora di più: bei pensieri davvero. La donna che ami ti chiede di
sposarlo, e tu ti metti a fare i conti. Classico pensiero romantico di chi
medita di metter su famiglia, no?
- Scusa se ti faccio perdere tempo... - ridacchiò la mia amica, imbarazzata,
estraendo finalmente un vecchio quaderno dalla borsa - ho pensato tanto a questa
cosa, e ora non riesco a togliermela dalla testa. -
- Parli del lavoro? -
- No, sciocco! - mi guardò, con gli occhi che le brillavano e le guance
arrossate - Del fatto che forse... noi due... sarebbe magnifico, no? -
Abbassai lo sguardo sull'oggetto che mi tendeva, e non risposi. Non riuscivo a
condividere la sua felicità, e onestamente non ne capivo il motivo: forse,
perchè non mi ero mai posto davvero il problema di ufficializzare la mia unione
con lei. O, forse, era tutta colpa della signora Schneider. Da quando l'avevo
conosciuta, continuavo a fare paragoni imbarazzanti tra sua figlia e la mia
Winry.
E poi, magari mi sbagliavo. Il modo di fare di Hedwig poteva anche nascondere
insicurezza, ma io, continuando a pensare a Winry, mi ero convinto che non lo
gradivo...
Mi soffermai sui miei pensieri, come ora scorro le righe di ciò che ho scritto.
Winry, Winry, Winry... Non avevo chiuso la questione anni prima?
Scuotendo la testa per scacciare quella presenza dalla mia mente, mi concentrai
sulla copertina sbiadita del vecchio quaderno; qualcuno aveva scarabocchiato una
spada, o forse un pugnale, con l'elsa posta davanti ad un cerchio disegnato a
mano libera, con due diametri ortogonali tracciati a formare una "X": mi
ricordava qualcosa, ma non ebbi il tempo di pensarci, perchè, quando aprii su
una pagina a caso, fui salutato da qualcosa di molto più familiare.
Cerchi alchemici.
Brutti, alcuni palesemente sbagliati, ma inequivocabili.
Girai in fretta gli altri fogli, diviso tra il panico e lo sbalordimento. Cerchi
alchemici, poche scritte, altri cerchi alchemici. Forse era un incubo.
- Che significa? - chiesi infine, quando fui certo che la mia voce suonasse
sicura.
- Ho visto che quei disegni comparivano su quei lavori a casa tua, non ricordi?
- il sorriso le tremò, incerto - Credevo ti avrebbe fatto piacere lavorare su...
-
- Su questi? - esclamai. - Dove diamine mi avresti trovato impiego, in un
circolo esoterico? -
- Ti assicuro che si tratta di qualcosa di molto serio. -
La oltrepassai, fingendo di andare a guardare fuori dalla finestra. Avevo
bisogno di calmarmi, o le avrei risposto male.
- Hedwig, - ripresi, più educatamente - c'è stato un grosso malinteso. Non so
chi ti ha dato questa spazzatura, ma si tratta di scarabocchi senza senso! -
- Libero di pensare quello che vuoi. Ti faccio solo presente che il tuo salario
sarebbe più o meno il triplo di quello che percepiresti qui. -
Trasalii: non so se furono le sue parole o il suo tono acido a colpirmi come un
pugno. Voltai il quaderno che tenevo in mano, e ricordai dove avevo già visto
quel disegno sulla copertina.
- La Società di Thule... - rabbrividii.
Non di nuovo. Oh, no!
Ridacchiai, acido, prima di prendere un profondo respiro e stringere i pugni,
per controllare i nervi:
- Cos'hai a che fare con tutto ciò, Hedwig? -
- Sono entrata in possesso di quell'oggetto parecchi anni fa. Pensavo
t'interessasse, so che te ne occupasti già una volta, nel '23. -
- Sai cos'è successo ventidue anni fa? -
Lei non rispose, ma un leggero fruscio di stoffa mi fece capire che aveva
portato le braccia conserte al petto. Lo faceva sempre, quando era arrabbiata.
- Fai parte di quel gruppo di fanatici assassini? - le domandai, voltandomi
verso di lei - Cerchi anche tu la via per Shamballa? -
- Rifletti, Edward, tu sei l'unico che sappia far funzionare... -
- Rispondi, Hedwig! - ruggii, accecato dall'ira.
Mi scrutava con uno sguardo di ghiaccio, tremando di sdegno: per alcuni istanti,
pensai che stesse per colpirmi. Invece, si morse il labbro, mentre gli occhi le
si velavano di lacrime.
- Stavo cercando di aiutarti. L'ho fatto per noi. - sussurrò, abbozzando un
sorriso tremulo - Lo scopo di questo non ha importanza... se tu accettassi, ti
pagherebbero bene. Potremmo avere una casa nostra... -
- Certo, in tempo per farcela buttare giù da una bomba! - esclamai, sarcastico -
Se pensi che io mi venda ad una banda di farabutti solo per soldi, ti sbagli di
grosso! -
Hedwig emise un singhiozzo soffocato, prima di darmi le spalle e portarsi le
mani sul viso.
- Se non t'importa nulla di me, - gemette tra le dita - dillo subito! -
- Per te l'amore è una bella casa e un conto in banca pingue? - le domandai. -
Mi dispiace, non sono disposto a dimenticare i miei principi per te, nè per
nessun altro. -
Mi ribolliva il sangue solo a pensarci: possibile che mi fossi innamorato di una
persona capace di passar sopra a tutto per denaro?
O forse... no, impossibile. Non potevo aver fatto una cosa simile.
Riordinai tutti i pensieri che avevo avuto nell'ultima settimana, da quando
avevo conosciuto Ilse Schneider fino a pochi istanti prima: e la verità mi si
parò davanti in tutta la sua semplicità.
Era chiarissimo. Ed, razza di idiota, come hai fatto a non capirlo? Hai avuto la
risposta sotto gli occhi per tutti i sei anni in cui hai conosciuto Hedwig.
- Vattene, Hedwig. - le dissi, stancamente.
Lei tolse le mani dal viso, e mi guardò, incredula.
- Non... - balbettò - non mi ami più? -
- Temo di non averti mai considerata davvero per quello che sei. - risposi.
Molto diplomatico, ma decisamente riduttivo.
Poveretta, in fondo un po' era colpa mia: non l'avevo mai amata. Non ero
innamorato di Hedwig Steinglocke, ma dell'immagine che vedevo ogni volta che la
guardavo. La illudevo, e illudevo me stesso, cercando in lei un'altra persona.
La donna rimase in silenzio per alcuni secondi: poi, mi strappò bruscamente lo
stramaledetto quaderno di mano.
- Bene. - disse - Benissimo. -
In un attimo, l'aria persa e le lacrime avevano lasciato il posto ad una gelida
furia: il cambiamento mi sconcertò, e non reagii.
- Potevi rendere tutto molto semplice, Edward Elric. - disse, mentre il labbro
inferiore le tremava vistosamente - Ma, come al solito, hai dovuto fare di testa
tua. -
Raccolse la borsa e uscì, sbattendosi violentemente la porta alle spalle.
* * *
Era quasi l'ora del coprifuoco, e mio zio ancora non si vedeva.
Avevo tentato di entrare nel laboratorio, ma la porta era chiusa: tuttavia, la
bicicletta di Edward era ancora appoggiata al muro, così ero rimasto sul
marciapiede ad aspettarlo, tremando dal freddo.
Dopo dieci minuti buoni, mi sembrava di non sentirmi più i piedi: mi mossi un
po', affondando il mento nella sciarpa del signor Meyer, che pizzicava il viso
ma riscaldava, e mi distrassi osservando un'automobile parcheggiata sul lato
opposto della strada, il cui occupante sembrava parlare da solo, dato che
l'autista se ne stava immobile, con lo sguardo fisso davanti a sè. Fingendo
noncuranza, attraversai, per potermi avvicinare e osservarla meglio, pur
restando a distanza: era bella, lussuosa, nera, e aveva l'aria di essere appena
stata pulita da cima a fondo, anche se le ruote e il bordo inferiore della
carrozzeria erano già sporchi di fango. L'autista era un individuo anonimo,
senza nulla che attirasse l'attenzione, mentre il passeggero indossava
l'uniforme dell'esercito: bizzarro, visto che l'auto aveva targa civile.
In quel momento, la porta d'ingresso del laboratorio si spalancò, e ne uscì la
signorina Steinglocke: rimasi sorpreso, ma lei non sembrò notarmi. Stava per
voltare a destra, quando vide la vettura nera e, con passo deciso, si diresse
verso di essa.
Dato che non mi aveva riconosciuto, potei seguirla con lo sguardo mentre apriva
la portiera sulla strada, dal lato opposto a quello dietro cui ero io, e, senza
una parola o un'altra manifestazione di sorpresa per la persona che era a bordo,
si accomodò e fece un cenno stizzito all'autista, che si affrettò a mettere in
moto.
Che strane persone, pensai, guardandoli allontanarsi. Prima lavano la macchina
finchè questa non splende, poi vanno a passare nel fango. Forse le strade
dissestate, dopo le piogge dei giorni precedenti, si erano trasformate in
pantani... ma allora perchè perdere tempo a pulire l'auto, se questa si sarebbe
inevitabilmente sporcata di nuovo?
- Thomas! -
Mi girai, vedendo Edward appena fuori del laboratorio: gli corsi incontro,
cercando di riattivare la circolazione sanguigna nei piedi.
- Sei in ritardo. - gli dissi - Margarethe mi ha mandato... -
- Dov'è la mia bicicletta? -
Guardai il muro, dove avevo visto il mezzo scalcagnato solo pochi minuti prima.
Sparito.
- Ma era qui... - cominciai
- Infatti, eccola. - sentenziò lui, calmissimo, prima di dirigersi verso
sinistra: stavo per seguirlo, quando cominciò a correre verso un uomo che,
notai, si stava allontanando su una bicicletta straordinariamente simile al
rottame dello zio. In poche falcate, Ed gli fu a fianco e, senza una parola, gli
sferrò un pugno con la nuova protesi, facendolo rovinare al suolo.
- Possiamo andare. - mi disse, tornando verso di me trascinandosi dietro il suo
vecchio mezzo.
- Ho visto la signorina Steinglocke. - dichiarai, cercando di non mostrarmi
troppo sorpreso da quella tranquillità assoluta.
- Sì, è venuta a parlarmi... questo nuovo auto-mail è magnifico. Molto migliore
del precedente. - aggiunse soddisfatto Ed, stringendo le dita della protesi a
pugno.
- É successo qualcosa tra voi? - domandai, preoccupato.
- Sì, lei mi ha lasciato... o forse sono io che l'ho lasciata, non saprei dire.
-
Lo guardai, per capire se scherzasse. Era serissimo.
- Perchè? -
- Una lunga storia. -
Rimanemmo in silenzio fino a casa, anche se lo zio continuava a fischiettare.
Non l'avevo mai sentito fischiettare, ed era davvero fastidioso, così, quando
s'interruppe bruscamente, non pensai ad altro che al sollievo per le mie povere
orecchie.
- C'è Wilhelm Lindemann. -
La sua esclamazione improvvisa mi colse impreparato.
- Dove? -
- Di fronte a casa nostra. -
Il suo tono era perplesso, e a ragione: Wilhelm era irriconoscibile. Si agitava
scompostamente, gesticolando in direzione di Margarethe, ferma sulla soglia di
casa. Per sua fortuna, nella via non c'era nessun altro, o lo avrebbero preso
per pazzo.
- Che succede? - domandò Ed, mentre ci avvicinavamo.
Il ragazzo si voltò di scatto per guardarci: aveva il volto cereo, i capelli
spettinati e gli occhi fuori dalle orbite, con un'aria folle che mi spaventò.
Tra le mani tremanti teneva un foglio, che cercò di mettermi in mano,
borbottando qualche parola sconnessa, che non riuscii a cogliere. Il mio primo
pensiero fu che traffici dei Lindemann fossero stati scoperti dalla polizia.
- Che succede, Wilhelm? - ripetè lo zio, mentre Margarethe si stringeva nelle
spalle, perplessa quanto noi.
- Se solo non avessi accettato... - sussurrò finalmente il ragazzo, appoggiando
le spalle al muro di casa Meyer - se non fossi stato così codardo, tutto questo
non sarebbe successo. -
Quelle parole sembrarono riscuoterlo, perchè prese a singhiozzare rumorosamente:
Margarethe gli appoggiò una mano sul braccio, ma lui neppure se ne accorse.
Capito che era inutile insistere, Edward gli prese di mano il foglio
spiegazzato.
- É stata tutta colpa mia... - singhiozzò il diciottenne, senza fermare le
lacrime, ma passandosi istericamente le mani nei capelli - tutta colpa mia.-
Sentii la mano dello zio stringere la mia spalla fino a farmi male, mentre
leggeva: stava impallidendo a vista d'occhio.
- Cosa? Cos'è successo? - chiesi.
- Hanno... - gracchiò Wilhelm, a fatica - Hanno è morto. Pochi giorni fa, dalle
parti di Budapest. -
Indietreggiai, come se mi avesse tirato un pugno.
- No, - mi opposi testardamente - ho ricevuto una sua lettera... ho il suo
quaderno... Ed diglielo tu. Diglielo! -
Lui tacque, chiudendo gli occhi, come per non vedere ancora le parole impresse
su quel pezzo di carta.
- Ed, - sussurrai, tremando - diglielo... -
Non mi rispose.
Colpii violentemente la sua mano per liberarmi, e corsi in casa.
* * *
- É stata tutta colpa mia... - mormorava incessantemente Wilhelm - tutta colpa
mia. Se mi fossi arruolato... -
- Non essere sciocco, nessuno può decidere se essere arruolato o meno. - sbottai
- Vai a casa, non dovremmo più essere in strada. -
- Tutta colpa mia... - continuò meccanicamente il ragazzo - Se mi fossi
rifiutato di... -
- Non è stata colpa tua. - ripetei.
Lui mi lanciò un'occhiata folle, poi cominciò ad allontanarsi: camminava gobbo,
e continuava a scuotere la testa. Margarethe, di fianco a me, piangeva
silenziosamente.
- Vado da Thomas. - dichiarai, appallottolando la cartaccia che tenevo ancora in
mano.
Ero di nuovo sulla soglia della camera dei ragazzi, come quella prima sera di
gennaio, e mio nipote era di nuovo ficcato sotto le coperte, il lenzuolo fin
sopra la testa. Immobile, a parte i singhiozzi che lo scuotevano violentemente.
Lotte era in piedi in un angolo, lo sguardo su di me e una tale impassibilità in
volto che mi chiesi se avesse davvero capito: eppure, doveva aver seguito la
conversazione, perchè la finestra della camera dava sulla strada.
- Thomas... - lo chiamai, senza sapere come continuare.
- Lo sapevo. -
La voce giungeva attutita da sotto il lenzuolo, rauca per il troppo piangere:
tuttavia, non ebbi difficoltà a capire. Mi sedetti sul bordo del letto, in
silenzio.
- Sapevo che Hanno voleva arruolarsi. - la testa bionda riemerse - Mi aveva
lasciato il suo album, e mi aveva chiesto di non parlare a nessuno del suo
progetto. -
Si allungò per aprire un cassetto del comodino, e ne estrasse un quaderno dalla
copertina nera: mentre la sorella si avvicinava, lui si sedette alla mia
sinistra.
- Temeva che suo nonno lo bruciasse... mi ha chiesto di non guardare... -
Il tono di voce di Thomas era sempre più acuto; infatti, dopo alcuni attimi di
silenzio si voltò verso di me, tremando:
- Se solo te lo avessi detto... se solo avessi capito... -
- Non potevi sapere cosa sarebbe successo. Avevi promesso di non dire nulla, e
hai mantenuto... -
Inaspettatamente, Thomas mi affondò il viso sulla spalla, lanciando un gemito
più acuto degli altri e facendomi sobbalzare. Rimasi immobile mentre lui si
aggrappava alla mia manica, sentendomi completamente fuori posto: avrebbe dovuto
esserci Alphonse, lì. Al era suo padre, Al sarebbe stato in grado di far sapere
a quel ragazzino che faceva di tutto per essere adulto che a dodici anni non si
può esserlo, Al sarebbe riuscito a fargli capire che non aveva colpa per la
tragica fine di Hanno.
Appoggiai la mano sulla testa di Thomas, sentendomi goffo come un elefante.
- Avevi ragione tu, zio. Hai sempre avuto ragione tu. - sussurrò lui - Dovevo
darti retta mesi fa. -
Senza dubbio, avrei preferito che lo capisse in qualche altro modo.
Pensierino della
buonanotte: sapevo esattamente cosa doveva succedere in questo capitolo
prima ancora di iniziare a scriverlo, ma ho cambiato tutto almeno una mezza
dozzina di volte... il più grande pregio dello scrivere in prima persona è anche
il suo peggior difetto: riportare i pensieri di un personaggio mi permette di
descriverlo in modo molto più approfondito, ma mi costringe anche ad
un'attenzione ossessiva alla sua personalità, per evitare il più possibile l'OOC.
Bene, e ora rispondiamo a...
Ehi, un attimo, e le altre commentatrici abituali dove sono finite? Devo
smettere di scrivere per farvi commentare?
(Minaccia a vuoto: non riuscirete a farmi smettere di scrivere tanto facilmente)
Yolei: l'Isar è il fiume che
attraversa Monaco: se non erro c'era un qualche riferimento alle sue acque, ma
l'ho tolto perchè non mi sembrava da Ed mettersi a filosofeggiare su corsi
d'acqua e affini, specie quando aveva già molti altri pensieri per la testa.
Non mi sono mai chiesta come sia possibile che Hedwig e Ilse siano parenti, a
dire il vero: non che sia indispensabile tra madre e figlia, ma hanno molti
punti in comune, e una mentalità simile.
Siyah: sì, seguo anche il
manga... o meglio, lo seguivo, visto che al momento non si sa bene quando
uscirà. Comunque, hai fatto la migliore descrizione possibile di Ilse Schneider:
intelligente e perfida. Non è del tutto colpa sua, ma, senza voler anticipare
nulla, si può dire che sia lei che Hedwig siano diventate così per adattarsi
alla loro epoca e, in parte, per ribellarsi: negli anni Quaranta pochissime
donne lavoravano, e ancora meno potevano mettersi a capo di un progetto, per
quanto scalcagnato come il laboratorio.
Beh, l'auto-mail sarà anche andato distrutto, ma... Ed adesso ne ha uno anche
migliore, per sua stessa ammissione.
meby138: come già detto, i
tempi di aggiornamento lunghi sono dovuti alle continue correzioni. Per un
lettore potrebbe essere fastidioso (ma, ehi, se così fosse vuol dire che la ff
vi piace!), ma non riuscirei a pubblicare un capitolo che non mi soddisfi, così
come mi rifiuto di leggere quelle fanfic piene di errori e refusi che potrebbero
essere eliminati semplicemente rileggendo.