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Autore: Ghostclimber    27/06/2013    0 recensioni
Cosa sta succedendo? Bernadette O'Connor sta per vivere la settimana più assurda della sua vita. Affetta da sindrome di Tourette e forse da un lieve squilibrio mentale, dovrà fare i conti con qualcuno che squilibrato lo è davvero, e di brutto!
Genere: Comico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bernadette se ne stava immobile davanti al reparto surgelati del piccolo supermarket di Boulder, cercando di decidersi tra una spigola impanata e dei bastoncini di merluzzo, quando qualcuno la urtò di malagrazia. “Ehi!” esclamò, “ma che modi!”
“Oh, scuuusa!” rispose il tizio che l’aveva spintonata, con l’aria strafottente e provocatoria di uno che attacca briga non appena ne ha l’occasione. “E stai più attento!” ribattè Bernadette, senza farsi intimidire, massaggiandosi un gluteo: l’urto l’aveva mandata a sbattere contro lo spigolo di un espositore di vini in cartone. L’imprudenza e la latente sindrome di Tourette le stavano facendo aggiungere un “e che cazzo!”, ma alzando il viso verso quello del tizio la voce le si bloccò in gola. Somigliava moltissimo ad un ragazzo che aveva conosciuto in Louisiana, tramite una web-friend.
Va bene, si disse, non raccontarti stronzate, questo qui non solo gli somiglia, potrebbe essere il suo fottuto gemello!
Si diresse alla cassa, senza prendere né spigola né merluzzo, e mentre sistemava la carta fedeltà nella fessura del separatore e schiaffava la merce sul nastro ragionò: almeno, François si veste da essere umano! Guarda questo, credevo che i pantaloni sotto il culo e i mutandoni del nonno fossero fuori moda da un decennio! E deve aver fatto il bagno nell’acqua di Colonia, fa venir l’asma dal tanto che puzza!
In automatico, vedendo che qualcuno si avvicinava per mettersi in coda dietro di lei, si allungò a prendere un altro separatore e lo posò sul nastro, dietro alla propria spesa, poi armeggiò nella propria enorme borsa per trovare i sacchetti di stoffa, sicuramente più utili di quelle cagatine in mater-bi che non reggono neanche un cartone di succo di frutta. Ma dove cazzo erano finiti? Ormai aveva un braccio infilato nella borsa fino alla spalla e lo agitava qui e là in quel dannato pozzo senza fondo; le mancava solo un ombrello e poi poteva tranquillamente passare per Mary Poppins. “Qualche problema?” chiese una voce in tono da presa in giro, e Bernadette alzò la testa, esasperata. Era di nuovo il simil-François. “Noggrazzie”, bofonchiò, poi finalmente trovò i sacchetti e li estrasse, rovesciando nel contempo un rossetto e un paio di assorbenti. Mentre si chinava a raccoglierli, pensò: pure il cappello appollaiato sopra a quella sua testa di cazzo, questa è una cosa che non ho mai capito! Prendilo di una misura più grande se non ti sta, no? Spero che venga il vento e te lo porti via!
Pagò alla svelta quanto doveva (decisamente una fucilata per un broccolo moribondo, una confezione di affettati, il pane e la Nutella) e si lanciò verso l’auto. Ci mise così tanto tempo ad aprire la serratura, vittima di un recente tentativo di scasso, che se lo ritrovò di nuovo davanti, intento ad attraversare la strada con passo ridicolmente molleggiato. “Neanche guarda se arrivano macchine, no! La strada dev’essere sua, cazzo!” per qualche istante meditò di investirlo, poi rammentò che l’aveva visto posare sul nastro una pesante bottiglia di acido muriatico formato famiglia e ci rinunciò: anche se vecchia, la sua auto faceva il suo dovere, e non ci teneva a ritrovarsi col motore sciolto per un cretino che le aveva fatto girare le palle.
 
A casa, sbrindellò maldestramente il broccolo per farlo cuocere a vapore, si fece un panino alla svelta e si sedette davanti alla tv, con l’intenzione di guardare una divertente sit-com di cui era appassionata.
A quanto pareva, qualche idiota dell’emittente televisiva aveva deciso di sostituirlo con un ridicolo gioco a premi, condotto da un imbecille chiaramente tornato ieri da un viaggio alle Lampados. Era arancione. Tipo le carote quando cominciano ad essere un tantino troppo mature. Tipo la cacca dei bambini quando mangiano qualche omogeneizzato dagli ingredienti dubbi.
Non era divertente, quindi Bernadette spense e si mise a studiare per l’abilitazione al lavoro di guardia forestale, tenendo a portata di mano la Nutella per eventuali momenti di sconforto.
 
Era il giorno dell’esame di abilitazione, e Bernadette era nervosa: per qualche motivo non meglio precisato aveva sognato il simil-François che caricava degli oggetti senza senso su una bicicletta, inciampava e le rompeva il naso con il campanello, che nell’urto si era staccato dal manubrio. L’assurdità del sogno l’aveva tenuta sveglia dalle quattro del mattino a meditare sulla propria salute mentale. Scese come un razzo dall’autobus, fermamente decisa a fare una sosta al bagno prima di sostenere l’esame, e finì addosso ad un tizio. Tipico: era goffa come un bradipo diversamente abile. Il naso cominciò a grondarle sangue, la spalla del tizio era piuttosto dura; non che le ossa debbano essere morbide, a pensarci bene. “Bi scusi!” bofonchiò, ravanando nell’immensa borsa alla vana ricerca di un fazzoletto. Il tizio gliene allungò un pacchetto. “Grazie!” disse Bernadette, ne arraffò uno e si lasciò trascinare verso la panchina della fermata, dove rovesciò la testa e si premette la base del naso per arrestare l’emorragia. Proprio una sfiga di merda! Adesso avrebbe dovuto presentarsi all’esame con il trucco a puttane, sangue dappertutto e un vestito rovinato. Perché aveva deciso di vestirsi di giallo invece che di nero? E il giallo le stava pure da schifo! Controllò il moccichino e vide che non c’era più sangue, quindi con prudenza riportò la testa in posizione umana e si tastò piano le narici. Niente. Ottimo, finalmente una notizia buona! “Grazie mille, e mi scusi ancora!” disse al tizio che aveva urtato, guardandolo. Trasecolò.
Era identico a François, ma vestito come un metrosessuale. Decisamente non era il tizio del supermercato. Lui le rivolse un sorriso allusivo e disse: “ma si figuri, bella signorina… posso offrirle qualcosa da bere per farla riprendere? Un Negroni, una birretta, un whiskey?”
“ma sono le nove del mattino! E poi… no, grazie, vado di corsa!” così dicendo, Bernadette scattò in piedi e fece per andarsene, ma il tizio la trattenne per un polso. “Aspetta, dolcezza, tieni questo” allungò una mano e le infilò un cartoncino nella scollatura del vestito “chiamami.” Atteggiò le labbra a culo di gallina e finse di mandarle un bacio. Bernadette inorridì e cominciò a correre verso il municipio, dove avrebbe sostenuto l’esame. Strada facendo inciampò in una grata, e approfittando dell’interruzione si voltò: il simil-François numero due era ancora alla fermata, e si grattava i testicoli. Bernadette sfilò il tacco dalla grata e il biglietto da visita dal reggiseno. Lanciò il cartoncino e ricominciò a correre, a testa bassa per evitare altre grate, cestini della carta straccia, cacche di cane, passeggini e quant’altro. Poi si ricordò che così facendo aveva incontrato quella specie di maniaco e alzò gli occhi, giusto in tempo per evitare una vecchietta che la guardava terrorizzata.
Arrivata al municipio, corse alla toilette seguendo i caratteristici segnali e si fermò solo quando urtò un lavandino con le anche, facendosi decisamente male. Guardò l’orologio e, con il pepe al culo, cercò di pulirsi come meglio poteva il vestito, optando infine per coprirlo con un golfino che teneva sempre in borsa, poi si tamponò piano le narici, si diede una spolverata di cipria e guardò di nuovo l’orologio. Troppo tardi per fare pipì. Cazzo!
Arrivò nell’ufficio del terzo piano sudata e malconcia (gli ascensori non funzionavano), appena in tempo per sentire l’esaminatore chiamare: “Bernadette O’Connor!”
“Presente!” rispose, entrando e schiantandosi in un banco vuoto. Estrasse l’inalatore e lo usò, complimentandosi con se stessa per averlo messo nell’unica tasca laterale di quella specie di universo in valigia.
Finito l’esame, tornò a casa con l’autobus che faceva il giro largo: chissà mai che François nr 2 non l’avesse aspettata, magari con una cassetta di birra, ubriaco e pronto a terrorizzarla.
Per evitare di addormentarsi sull’autobus e di finire chissà dove, scrisse a Vicky, la sua amica della Louisiana: “in due giorni ho visto due sosia di François! Uno in versione rapper sfigato e l’altro in versione maniaco sessuale!”
“beh, ognuno di noi ha sette sosia nel mondo! Gli hai fatto una foto? XD”
“e devono starsene tutti a Boulder? XD comunque no, niente foto, ero troppo impegnata a fuggire o a non uccidere!”
“LOL peccato! Li volevo vedere! Comunque avrai il piacere di incontrare quello vero a Pasqua, viene anche lui a Boulder con me…”
“almeno lui è sano di mente! Prenoto un tavolo per tre al Mulligan per San Patrizio… anzi, per quattro, ti presento mio cugino!”
“quello figo figo figo?????? Sìììììììììì!”
 
Era il dodici marzo; Vicky e François sarebbero arrivati dopo tre giorni. Sarebbero stati in albergo, quindi non c’era ancora niente da preparare in vista del loro arrivo: il pranzo di tre giorni prima sarebbe stato un po’stantio.
Bernadette, dopo due mesi di studio matto e disperatissimo per quell’esame, si sentiva vuota nel piccolo appartamento che abitava, senza tutti quei libri, quindi prese una decisione storica: infilò la tuta e andò al parco a far finta di correre. Era un fatto talmente raro, che Bernadette facesse esercizio, per di più senza l’istruttrice di arti marziali che cercava di spaccarla in due, che il cielo iniziò a rannuvolarsi all’orizzonte.
 
Dopo venti minuti e mezzo giro di corsa a velocità nonno, si scatenò la tempesta del secolo, come previsto, e Bernadette fu costretta a rientrare: nel parco c’erano gli alberi, i temporali fanno i fulmini, i fulmini si abbattono sugli alberi e carbonizzano gli aspiranti joggers.
Zuppa fino alle ossa e infreddolita, Bernadette si fiondò sotto alla doccia e si lavò da capo a piedi; poi, profumata di bagnoschiuma al the verde e di borotalco, si piazzò in accappatoio sulla poltrona davanti alla porta-finestra, con una radice di liquerizia in una mano, un libro di Stephen King nell’altra e una tazza di tisana alla verbena sul tavolino accanto.
Il temporale si era placato, e il gocciolio dell’acqua che cadeva dalle foglie riverse del gelsomino sul balcone era monotono e rilassante; l’aria era fresca e odorosa, l’inquinamento spinto a terra dalla pioggia violenta, nelle nuvole nere si aprivano squarci di un azzurro indescrivibile e Bernadette si appisolò un poco. Si svegliò con il tonfo della radice di liquerizia che cadeva sul pavimento, sobbalzando; si asciugò un po’di saliva che le era colata sulle labbra, causata dall’immane furbizia di addormentarsi con qualcosa in bocca, poi si chinò a raccogliere il legnetto e di sfuggita guardò fuori dalla porta-finestra.
Successe tutto rapidamente: il libro le sfuggì di mano e cadde sul pavimento, ammaccandosi su un angolo. Il legnetto rotolò sotto il tavolino. Il tizio in strada, curiosamente familiare, arrossì ed esibì un sorriso ebete, che mal si accordava con il viso di François. La mano di Bernadette salì a chiudere i lembi dell’accappatoio. Il suo cervello formulò l’ipotesi di chiamare il manicomio. La sua testa sbatté contro il tavolino. La tisana si rovesciò e la tazza vuota cadde, infrangendosi sul pavimento e ferendola alla mano che ancora cercava la radice di liquerizia.
Poi, tutto fu una profusione di parolacce che una signorina non dovrebbe conoscere, e nel giro di venti minuti era all’ospedale, con una borsa del ghiaccio sulla testa e un dottore dal faccino pieno d’acne che non dimostrava più di dodici anni a suturarle la mano. “Vuole che le dia un’occhiata anche al naso, signorina? Non è rotto ma si sta gonfiando.”
Signore Iddio, pure la voce nasale da cartone animato. “Cazzo. Va bene, grazie.” …poi però fatti controllare anche il tuo, di naso, che a occhio e croce hai la sinusite.
Uscì dall’ospedale con una mano fasciata, il naso incerottato, due flaconi di antidolorifico, uno di antibiotici e, inspiegabilmente, uno di antistaminici.
 
Strada facendo decise che l’idea più saggia era senza dubbio fermarsi al bar. Ormai erano le sei di sera e una birra non gliel’avrebbe negata nessuno. Affanculo i farmaci! Per precauzione, però, avrebbe preso una birra leggera invece della solita Guinness.
Finì che per compensare si scolò tre birre leggere e un bicchierino di Jameson.
Quando uscì dal bar, bordeggiava a dritta e a manca e canticchiava qualcosa di indefinito, che però aveva una vaga somiglianza con Princes of the Universe, dei Queen.
“Mi scusi, signorina…” una voce cortese, dall’accento latineggiante, forse spagnolo e forse italiano, interruppe il miagolio di Bernadette.
“Sssìììì?” rispose lei, faticando a mettere a fuoco la faccia del tale che l’aveva interpellata per via degli occhiali che non erano proprio al loro posto a causa del naso gonfio e incerottato.
“Mi potrebbe dire dove posso trovare questa via?” e le mostrò un foglietto stazzonato con un indirizzo scribacchiato sopra.
“Oh, guarda, tu vai dritto di là, poi al semaforo giri a sinistra, la prima a sinistra ancora è la via che cerchi!” rispose Bernadette.
“Oh, grazie mille!” disse lui con un sorriso ampio e sincero, al quale Bernadette rispose, un attimo prima di essere colta da un conato di vomito ed essere quindi costretta a correre a svuotare le budella dietro ad un bidone della spazzatura.
Mentre sputacchiava, passata la crisi, si rese conto di due cose: quel tale le aveva chiesto come arrivare a casa sua. E lei aveva risposto correttamente a quel tale, senza pensarci due volte. Di colpo sobria, un po’per il vomito, un po’per lo shock, corse a casa tagliando in un paio di vicoli per non incontrare il Maniaco Gentile, come l’aveva già ribattezzato; ci riuscì, ma fino ad un certo punto.
Arrivata sotto casa, vide il Maniaco Gentile che stava salendo su un taxi ad un isolato di distanza. Con un movimento da ninja, Bernadette si nascose dietro al tronco di un tiglio e spiò per vederlo in faccia: almeno, se l’avesse rivisto in giro, l’avrebbe riconosciuto.
Il risultato fu che ebbe un capogiro e pestò una cacca di cane: fece mente locale per un attimo, mentre strofinava la suola della scarpa contro l’erba per pulirla. Questo era il quarto tizio del tutto identico a François che incontrava nel giro di tre giorni.
Quando fu sicura che il taxi fosse ormai lontano, corse al portone, infilò la chiave e salì in casa, si barricò e chiuse tutte le persiane e le tende. Tremando, si disse che doveva parlare con François. Forse era tutta una sua proiezione mentale, era un paio d’anni che non tornava in Louisiana e le mancavano tutti, laggiù. Sì, sicuro, si disse: era tutta questione di nostalgia. Chi non ha mai sentito profumo di cioccolata quando non mangia cioccolato da mesi?
Un po’rincuorata dalle proprie deboli cazzate mentali, prese il cellulare e si connesse ad internet: aveva la precisa intenzione di andare su Facebook e scrivere un bell’aggiornamento di stato spiritoso sulla faccenda.
La pagina web si caricò, infrangendo le sue illusioni: il primo aggiornamento che vide era “François De Gaulle ha cambiato la foto del profilo”, e, proprio sotto, la sua faccia, quella che la perseguitava da giorni. Non si poteva dire che fosse una brutta faccia, ma le mani di Bernadette cominciarono a tremare, facendo cadere il cellulare e acuendo il dolore alla ferita.
Si raggomitolò su se stessa e si lasciò andare ad un pianto isterico.
 
Il sedici marzo si alzò dal letto, si truccò, si mise un bel vestitino viola scuro, infilò le scarpe, fece una buona colazione, lavò i denti e salì in auto.
Tutto normale. Anzi. Una discreta dose di felicità: Vicky le mancava da morire, e di lì ad un’ora sarebbe arrivata in stazione.
Bernadette finse di non notare che le nocche delle mani erano bianche dal tanto che stringeva il volante della vecchia Opel: sapeva benissimo che ci sarebbe stato anche François. In una conversazione telefonica, Vicky le aveva spiegato che gli avevano offerto un posto come professore associato di salcazzochecosa alla State University di Boulder, e lui avrebbe approfittato della compagnia di Vicky per visitare la facoltà.
 
Bernadette arrivò in perfetto orario: era stata previdente ed era partita con mezz’ora buona di anticipo. Raggiunse il binario ben cinque minuti prima che il treno arrivasse e si guardò un po’intorno: le piaceva vedere i volti felici e pieni di aspettativa delle persone che aspettavano i propri cari, e scambiare un sorriso con qualcuno di loro.
Si rivelò una pessima, pessima idea. Una vera e propria idea di merda.
Tra lo stress dei giorni passati, gli effetti collaterali dell’antibiotico che ancora si facevano sentire e un certo qual grado di insanità mentale, le sembrò di vedere non uno, non due, bensì sette François sul binario. Sette fottutissimi, maledettissimi François.
“Forse è tempo che parli con uno strizzacervelli.” Disse a mezza voce Bernadette. Poi, il treno arrivò, e non ci fu più tempo per pensare a pigiami con le maniche troppo lunghe, pastelli a cera e stanze con i muri imbottiti. Vicky le saltò addosso per abbracciarla ancor prima che il treno si fosse effettivamente arrestato, ci fu un pianterello di gioia da parte di entrambe e qualche costola incrinata dalla foga dell’abbraccio. Poi, Vicky si scostò e sorrise a Bernadette, che le sorrise di rimando, e fu tutto un susseguirsi di sorrisi idioti, fino a quando non apparve François alle spalle di Vicky; Bernadette si convinse sul momento della fondatezza delle proprie ipotesi sulla nostalgia: era felice di vederlo. Lo abbracciò e si scambiarono i tradizionali baci sulle guance e qualche convenevole, poi Vicky esclamò: “oh, cazzo!”, e Bernadette si voltò di scatto. Sette François venivano verso di lei, e l’ottavo le stringeva la mano infortunata. Fecero cerchio attorno a lei e a Vicky, che si era buttata su di lei per proteggerla. Bernadette chiese: “François, hai organizzato tu questo scherzo?”
“Sì.” Fu la risposta.
“Ma da dove cazzo ti salta fuori un’idea così?” sbottò Vicky.
“Volevo che Bernadette mi amasse.” Rispose lui, come se fosse la cosa più normale al mondo corteggiare una donna facendole credere di essere pazza perché vede la stessa persona ad ogni angolo di strada. Vicky e Bernadette si voltarono verso di lui, con gli occhi tanto sgranati da essere grandi più o meno come piattini.
“Ognuno di noi ha sette sosia nel mondo, come ben sapete” cominciò a spiegare François, quello vero: “beh, io mi sono limitato a far mappare il mio dna e confrontarlo con quello di persone trovate su Facebook che mi somigliavano, e poi li ho pagati per venire qui e apparirti davanti… pensavo che così, forse…”
“Che piano assurdo…” commentò Vicky, attonita.
“Che gran montagna di puttanate!” ribadì Bernadette, molto più prosaica.
“Comunque, ora non serve più, perché in realtà ho già accettato il posto all’università qui a Boulder… così potrò stare con te!” François si esibì in un sorriso un po’folle.
Bernadette prese il respiro un paio di volte, cercando di non piangere. O di non ridere. Infine, sbottò: “ok, volevo dirvelo al pub, ma visto che la situazione è così drammatica ve lo dico ora. Ho passato l’abilitazione da guardia forestale, da settembre lavorerò in Louisiana. Abiterò a duecento metri da casa di Vicky.”
Il viso di François perse tutto il colore ereditato dai geni cajun del padre. “Ma… ma io ho già accettato il posto, ho un contratto di quattro anni!”
“Attaccati al cazzo, non so che dirti!” rispose Bernadette, esasperata, poi si girò verso i sosia: “e voi sette, fuori dai coglioni, adesso!”
 
François restò a guardare la scena dei sosia che si disperdevano nella stazione di Boulder. Squadrò il corpo di Bernadette, mentre lei era girata, e sussurrò tra sé, in modo che nessuno potesse sentirlo: “non mi arrendo, Bernadette. Sarai mia.”
   
 
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